Antonio Tabet lavora progettando un sistema costituito da elementi componibili e da regole di assemblaggio. Utilizzando linee rette e curve, attenendosi strettamente al colore originale del materiale (ocra o grigio/nero), l’artista ticinese combina gli elementi piani, che compone secondo gli incastri progettati, i quali gli consentono di ottenere oggetti volumetrici. Gli elementi appartengono a una serie chiusa, ove ciascun elemento deve essere montato esclusivamente in una predeterminata posizione. Le opere ci appaiono come forme del movimento. Movimenti mentali, percettivi, affettivi, ma anche paradossali, poiché il moto di queste opere è di fatto bloccato, la forma è compiuta, eppure alcune strutture sembrano ruotare affette da un moto vorticoso. Quello a cui Tabet cerca di dare forma, a partire da un elemento-costola tramite la rotazione, è una relazione con lo spazio, relazione che non si lascia pensare nella dimensione euclidea, ma in quella artistica.
Eppure, l’opera con il suo meccanismo di incastro (composizione e ricomposizione), inclina decisamente verso l’eliminazione dell’espressione dell’individualità artistica. L’assenza, infatti, di qualsiasi dato espressivo rende centrale il modello scientifico. La sua assunzione radica le personali indagini dell’artefice su un piano analitico-descrittivo. La polisemia cede il regno alla monosemia e la sfera vale una sfera. La sua componibilità vale la sua componibilità, esemplificata da “Uno e trino”, 2018, tre pezzi autonomi, ma anche componibili. Al centro della scena è l’idea generatrice: l’idea che produce l’oggetto sovrasta l’opera. È l’idea nascosta nel cuore stesso dei lavori, e che induce nel fruitore il desiderio di smontarla per carpire i segreti della sua componibilità. Si potrebbe addirittura affermare che l’oggetto contiene la chiave della propria creazione. L’artista è al di fuori dell’orizzonte dell’opera. Le sfere, i cilindri variamente composti stanno a indicare come referente il concetto che le ha generate.
Tuttavia, la mancanza di soggettività è oggi, ad esempio, nella pratica architettonica, una costante a cui proprio il disegno fornisce un aggancio, una verifica tra le due sfere del soggettivo e dell’oggettivo, del possibile e dell’utopia, reintroducendo per questa via, la valenza autoriale. Tutta pendente dalla parte della formalizzazione e della riduzione del contenuto alla forma, le opere di Antonio Tabet non cessano di agire all’improvviso non più sulla differenza e sulla discontinuità, ma sulla somiglianza e sulla continuità, trovando un terreno analogicamente ricco, pieno di reminiscenze, in particolare rinascimentali e illuministiche, sfuggendo così alla pura tautologia insita in ogni referenziale formalizzazione. Ma, diremmo con maggior convinzione, che i due statuti della differenza e della somiglianza convivono. L’oscillazione costante tra visibile e invisibile si fa carico di traghettare queste piccole quanto monumentali sfere nel campo dell’arte, sottraendole definitivamente alla geometria.
Abbandonate totalmente le forme naturalistiche, il funzionamento di tale sistema è costituito da una verifica degli strumenti e della comunicazione, rilevabile anche dall’utilizzo del precompresso, che del legno, la materia originaria, ha perso le caratteristiche più familiari. I criteri oggettivi invitano a valutare l’opera come espressione esatta in se stessa, senz’altro referente esterno, dicevamo, ma, come “Il sogno di Sisifo”, 2014, indica, la capacità di far slittare queste forme verso addensamenti di senso, è invero notevole. La forma, infatti, da Tabet, è intesa come un fatto autonomo, ma non avulso dall’ambiente sociale e storico, nel quale vuole inserirsi in quanto risposta progettuale alle esigenze, appunto, sociali, astraendo dal caotico fluttuare dei fenomeni.
A partire dalla definizione di un elemento, Tabet sperimenta la creazione del volume. E con l’inserimento di una variazione nello sviluppo seriale degli elementi, il volume passa in secondo piano e intercetta direzioni, tensioni, forze orientate. Uno scarto sorprendente! È solo la struttura che rende manifesto lo spazio. Husserl afferma che esiste una “logica del mondo sensibile”, il quale è il dominio dell’artista: area in cui sperimentare forme e la loro relazione con lo spazio. I volumi generati in siffatto modo, costruiti su una perfetta circolarità, hanno un’incompletezza irriducibile in rapporto alla sfera piena: si sviluppano intorno al vuoto, all’inconosciuto.
Nell’opera “Il nocciolo della questione”, 2018, esterno e interno fanno parte dello stesso elemento di base che ruota creando l'impressione di due elementi separati, rafforzata dal fatto che i tagli della sfera interna sono rivestiti da una superficie a specchio adesiva. Come traducendo una funzione matematica, montare le strutture vuol dire ottenere con il gesto e la sua ripetizione d’integrare lo spazio, d’incorporare forma e spazio, mettendoli in relazione. Il procedimento, che ci riporta nel solco degli artisti del gruppo De Stijl, è quello dell’ordine combinatorio. La composizione degli elementi avviene su un piano logico-matematico con il trasferimento delle relazioni matematiche in equivalenti visuali.
Poligoni rinascimentali, poligoni che ne rinchiudono altri, in una sorta di geometria da far perdere la testa, sono, invero, un risultato notevole che attrae a sé infinite analogie. Il pensiero va a Esher, ma anche alle architetture ideate da Boullée, che rendono lo spazio una cosa tangibile: si vedano “Desiderio d’evasione”, 2018 e “Tango appassionato”, 2014, ove quest’ultima opera appare come una costruzione in scala. Le opere di Tabet sembrano oggetti architettonici spiazzati dal contesto e dalla funzione. Entità volumetriche che non rimandano a un contenuto e a una funzione, ma li nominano nominando se stesse.
Le opere formano una collezione da wunderkammer. Oggetti mentali divenuti concreti, le sfere nascoste, avvolte da palizzate gigantesche, all’improvviso potrebbero anche muoversi, come in “Caduta controllata”, 2018. L’intersezione di elementi diversi, che ruotando sviluppano altri volumi, i quali si manifestano quasi all’improvviso attraverso il gioco delle ombre, ce li fa percepire non più come opere astratte, ma dotate di un qualche potere arcano. La componibilità, derogando dalla simmetria, fa sorgere ulteriori domande sugli incastri. Il ricordo va agli ingranaggi delle macchine leonardesche, come accade per l’opera “La ricerca dell’equilibrio”, 2018. E se le sfere si compongono fra di loro, “In tutti i sensi”, 2016, dando vita a conglomerati, un’altra analogia visiva sorge: quella biologica. Quando la simmetria si rompe anche lungo l’asse verticale, come nell’opera “L’Ascesa”, 2018, la struttura si mostra instabile come se fosse affetta da una sconnessione. E l’opera “Respiro controllato”, 2018, sembra riuscire a mantenere un equilibrio, anche nella apparente disconnessione degli elementi. Antonio Tabet introduce, avvertitissimo, il sabotaggio della regola, facendo deviare il progetto e introducendo l’errore che rimanda a nuove scoperte.
Nonostante, dunque, nel primo impatto, le relazioni tra i segni e le cose appaiano recise, le opere finiscono con l’inglobare nuovamente la profondità storica, divenendo piuttosto luoghi di contraddizione tra soggetto ed oggetto, tra senso e forma, tra idea e materia. Parliamo di sollecitazioni opposte e simultanee che necessitano, per essere comprese, di un lavoro analitico e consapevole, ma anche immaginifico.
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