Guardato da anni con un certo sospetto dalla critica accademica (fa eccezione Stefano Agosti, il suo estimatore più qualificato) il poeta torinese Augusto Blotto (1933) merita quell’attenzione che si deve a ogni progettualità poetica costruita sulla ‘differenza’ espressiva e sulla radicalità del linguaggio. Nel solco di Amelia Rosselli, Edoardo Cacciatore o Emilio Villa, tanto per intenderci: figure né apocalittiche né avanguardistiche, solo spiriti liberi posseduti dal demone della scrittura. Scrittura che non fa concessioni all’immediatezza comunicativa, avventura della parola tesa a indagare l’indicibilità su cui il cosiddetto dicibile è fondato. Veramente, quando (a cura di Gilberto Isella, ADV, Lugano, 2016), una raccolta scritta tra il 1966 e il 67 e solo ora data alle stampe, s’inserisce in un corpus fluviale e in continua espansione: 25 volumi editi e 29 disponibili in rete. “Il poeta italiano più prolifico del suo tempo e forse della storia italiana”, ha scritto Philippe Di Meo.
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La poesia di Blotto, antimimetica per vocazione, vive, attraverso l’esperienza dell’horror vacui, l’incanto di una durata. Sperimenta, ulissicamente, la sfida a ogni limite del dire, immaginario e/o epistemico. Il suo tema esplicito è il viaggio – annotazioni di date e toponimi ne delimitano ipotetiche sequenze, con effetti paradossali di realismo autobiografico – seppur col presupposto che ogni partenza racchiude un ossimoro, il “clamoroso non incominciar neppure”, e che ogni transito corrisponde a “questo lupo di velluto dell’esser fermi”. Viaggio oltre la fattualità dunque, viaggio nei recessi più problematici dell’agire conoscitivo:
Il conoscere parte dai piccoli aggeggi,
prove accorate di modesto dimostrano,
e si unì a una ripetizione, a renderci adatti
a vivere con lo sgretolìo pedagogico
che è un pensare al nascere, non dico al cognome
che porto e porteranno, ma al modo di usare il procedere
che imparò a gradi e, già adulto, vedeva,
in quegli anni, davanti a sé una zona turbolentetta
che non vedeva, v’era una piega, il taglino
robusto del “non prima di allora, e sarà
tra poco”
Qui abbiamo solo parvenze di metadiscorso: labile sovrastruttura subito metabolizzata e resa ‘altra’ da aporie dove l’indecidibilità dei pòroi - passaggi o sbocchi inerenti all’ordine scrittorio – tracciano le coordinate, in realtà scoordinatrici, di un senso in continuo differimento. Il senso, appunto, quale improbabile punto di convergenza di stringhe inconcluse, realizzate dai “piccoli aggeggi” del verbalizzare. E se l’agire pedagogico (“sgretolìo”) consiste in un faticoso e forse poco remunerativo “modo di usare il procedere”, lo dobbiamo al fatto che è proprio l’esperienza del pro-cedere entro uno spaziotempo di segno caotico e anomico a venir messa in causa. Spazio e tempo, svincolati da ogni norma aristotelica, sembrano decostruirsi di fronte a tale o talaltra “zona turbolentetta”: zona turbata e tendenzialmente lenta, secondo quel fecondo impiego di parole-macedonia che rappresenta un tratto distintivo dello stile blottiano. Custodendo nel loro processo iterativo memoria e oblio, oltre al pathos ondivago dell’interiorità, zone del genere segnalano pieghe, punti di svolta, invisibili tagli inferti a questo singolare universo. Quanto al soggetto, è l’occasione del suo autosospendersi, lasciando fluttuare in una sorta di “vento medio” la nozione del tempo:
Felice come l’uomo si toglie, per essersi
riconosciuto, sono in orecchia
fiamma di vento medio; e non so andar più piano
di questo capir se è ora o prima; i giorni,
i giorni miei in spasimo di gradino
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E i luoghi? I luoghi vanno dislocati, mimetizzati sotto la veste ‘arcimboldesca’ della scrittura: la lettera come abito-idioma del soggetto. Autarchica-autistica dovrà perciò risultare l’esplorazione dell’esistente, all’insegna di una privata geosofia (“per essere io presso/ al mio vestito”) dove la distinzione tra qui e là, prima e poi, stasi e movimento, natura e artificio, avrà scarse probabilità di sussistere. È quando la trans-realtà – che accoglie unicamente percezioni fantasmatiche del presunto reale, inaccessibile in sé – si fa strada, supportata dal vertiginoso e barocco rimbalzare della parola da un’isotopia semantica all’altra, agitando “elenchi” aleatori, immaginarie “carte da gioco”.
Poiché far un po’ di strada confusa,
fra noi, è un disporre elenchi
leccati, tipo le carte da gioco, in questi
paesi che è le soste, nel comporre,
acerbe, cattive, tutto un saperci, con gomiti
sbussolati a conoscer l’aerea carne o curva,
il salato zenzero che attacchella brioche
sfumata alle spatole del pensar d’esser qui e restarvi.
Babele canta, per il tramite di questa “aerea carne”. Ci si sta avvicinando, suppongo, ai confini dell’ordine simbolico. Sovvertire quell’ordine è faccenda di hybris, e Blotto lo ammette a più riprese, ad esempio in un testo risalente al 1963: “Quasi/ avventare di flagri, il pensare, il troppo”. O in un componimento anteriore, del 1958 (Analizzare le località), dove non lasciava indifferenti lo iato tra “Analizzare le località, possibilità apertissime/ di scegliere coincidenze”, da una parte, e “impraticabilità e campibilità sovrumana/ topografica, come la cervice/ fragile, vermiglia”, dall’altra. E tuttavia l’impraticabile è e sarà sempre oggetto di una sfida che compete al poeta, al poeta come operatore del rischio e della vertigine, come diabolico agrimensore attratto dal potenziale buco nero in cui ogni luogo consiste. Buco nero e allo stesso tempo, per paradosso, grembo innominabile dove si annida uno spirito vitale? Così Blotto in un precoce scritto del 1953, alludendo all’archetipo dell’uovo cosmico: “Il paesaggio d’inverno ha il tuorlo intimo/ del sole che coagulato risale”.
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Nel genotesto di Veramente quando, Blotto inscrive i contrassegni di un Lucrezio postmoderno. Di un poeta, cioè, che ‘bada’ al mondo in quanto physis e semêion, che ne osserva sbalordito l’incerto e contraddittorio formularsi tra una materica, pulviscolare o ‘aghiforme’ ridda di particelle e un ordine geometrico consegnato al sapere delle planimetrie, “crudeli quel tantino”. Tra i due poli, forse, si apre l’interstizio provvidenziale che consente di udire la voce dell’Essere:
Terra coi numeri che la distinguono, oggi
successivi e componenti: dei tocchi della polvere
s’accetti il dirigersi, il mondo rettilineo,
aghetti mosci in cielo all’atto del vederlo
odorano di come è la spalliera, o attraversata,
di terra di nocciola l’incontrar, salto
annoverato: purché stiamo a badare.
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