Il guardato guardante
Sotto il titolo di “Il guardante e il guardato”, Angelo Andreotti presenta numerosi racconti in cui l’attenzione per il dettaglio, lungi dal chiudersi in se stessa, tende ad assumere toni evocativi ampi e imprevedibili.
Nell’estrema precisione alberga l’indefinibilità?
In questo caso, la risposta è affermativa.
Cito ad esempio:
“La notte assomiglia alla luna.
Lui guarda.
Osserva dalla finestra spalancata quell’incavo dai
sogni di mille insonnie, quell’incavo che già è mano aperta e
addolcita carezza.
Poi ascolta”.
La propensione a raccontare appare evidente anche se la pronuncia, non proprio ortodossa, in cui “la notte” è descritta quale somigliante “alla luna” attenua simile attitudine: il mondo, per il Nostro, è, almeno per certi aspetti, narrabile.
Il mondo in generale o quello specifico di chi scrive?
Direi ambedue, perché il reale e la percezione (con le sue implicazioni emotive) sono entrambi presenti in una sequenza come:
“L’uomo versa del caffè per sé e per lei. Prende le tazze e
le porta sul tavolino tra le due poltrone. Dice qualcosa che fa
sorridere la donna. Il sorriso è dolce e piega le rughe attorno
allo sguardo, e lo sguardo accarezza il volto smagrito dell’uomo
che accoglie quel dono con espressione giocosamente arcigna”.
Oggetti esterni e stati interiori non sono distinti tra loro in maniera assoluta: la realtà non è mai separata del tutto da noi, perché, in ogni modo, siamo noi a osservarla, a valutarla, a viverla.
Da qui il tono evocativo di cui parlavo all’inizio: un tono che dall’attenzione per il dettaglio trae la consapevolezza dell’esistere.
Non mancano tratti in cui il normale approccio logico pare stravolto:
“Lui, questa strada, la conosce. Non sempre la stessa strada
porta alla stessa meta. Non sempre le mete hanno pazienza”.
Il senso della direzione, per Angelo, non sempre è univoco, sicché “la stessa strada”, se la “meta” non ha “pazienza”, non conduce nello stesso posto.
La “meta” viene personalizzata e la sua ribellione porta a un allucinatorio scompiglio.
Ma anche quando la scrittura sembra percorrere gli usuali itinerari (si veda, ad esempio:
“Ha raccolto i capelli dietro in una crocchia. Il viso è più
illuminato, le belle guance raffrescano lo sguardo che sembra
più ampio”),
ossia anche quando le parole paiono susseguirsi secondo il comune ordine, qualcosa chiama fuori da fuori.
Si tratta di un’ineffabile energia che emerge tra e nei vocaboli, energia di cui l’autore è ben conscio e di cui rende linguistica testimonianza: per lui l’arte del racconto non consiste nel semplice rappresentare, bensì nell’essere con tutto se stesso in un guardare e in un dire che, pur mantenendo le proprie specificità, tendono a coincidere nella dimensione ulteriore di una scrittura articolata e originale.
In simile àmbito, le percezioni visive e le parole si sviluppano secondo sequenze in cui gli ordinari modelli vengono modificati con creativa attitudine non immemore, a mio avviso, di certe esperienze della letteratura francese del secondo dopoguerra (nouveau roman).
Attentissima e illuminante la prefazione di Flavio Ermini.
Marco Furia
Angelo Andreotti, “Il guardante e il guardato”, Book Salad Editore, 2015, pp, 149, euro 14,00
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