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domenica 19 gennaio 2014

Ringraziamenti e un saluto

Esattamente tre anni fa ho inaugurato “Trasversale”, che da domani non integrerò più con altri post, nonostante l’esito positivo dell’esperienza, perché intendo dedicarmi ad attività critiche e letterarie che richiedono un impegno esclusivo per essere portate a compimento.

Voglio ringraziare i numerosi lettori che hanno visitato queste pagine e che hanno sostenuto il mio lavoro con il loro costante interesse. Ringrazio soprattutto gli autori che hanno collaborato con i loro testi critici e poetici, facendo così in modo che il blog avesse un’offerta molteplice e variegata. In particolare, desidero ringraziare Flavio Ermini, Gio Ferri, Gilberto Isella, Giuseppe Borrone, Giorgio Bonacini, Marco Furia e Pia Candinas per i loro decisivi contributi. Davvero grazie!
Desidero ringraziare anche Francesco Marotta e Stefano Guglielmin per il loro generoso sostegno alla mia iniziativa.

Un arrivederci e ancora grazie!

martedì 14 gennaio 2014

Lucio Saffaro da Anterem n. 79 , II semestre 2009




L’ancoraggio, è il caso di dire, filosofico della prosa di Lucio Saffaro è fondamento nella sua poetica, appartiene alle ragioni profonde di un pensiero che parte sempre da mosse logiche per approdare a un ampliamento delle modalità conoscitive tramite un sottile e raffinatissimo lavoro sul linguaggio. Quasi un’apertura di varchi, scavo di gallerie, assottigliamento delle pareti divisorie per conquistare alla logica anche la sua controparte. Non peritando di fingere sembiante né di condurre ragionamenti fin sul limitare del baratro. Non a  caso i vocaboli ‘metamorfosi’, ‘affinità’ sono indicativi di una metodologia investigativa che ha nell’analogia il suo alleato più importante.

La poesia, intessuta da trame lineari, apparentemente narrative, subisce presto l’azione di disvelamento che, a causa di tale incongruo accostamento, la farà precipitare dall’iniziale conformazione prosastica in una sorta di interregno.  La contiguità tra le due forme, poesia/prosa,  resta attiva, ma essa diviene un valore aggiunto in quanto volutamente ibrido: l’ambiguità della loro intersezione non è mai pienamente raggiunta.
In ogni caso, Saffaro gioca costantemente su un doppio registro: tra ciò che è formalizzato logicamente e ciò che è effetto del caso, tra continuità e discontinuità, tra totalità e nulla. E lo fa con oggetti strani: ‘amantille recidive’, ‘aritmetiche morgane’: simboli che consentono di annullare il dominio dell’io (di cartesiano riferimento) per accogliere la memoria in cui l’essere è frammisto all’oscurità. Il premio, la preda catturata con siffatto retino sono i ‘cristalli contemplativi’, gli ‘emblemi’ che sembrano più elementi naturali e meno prodotti esclusivamente  intellettuali. Un ulteriore ordine, che non è la somma dei due ordini da cui si era partiti.



TRATTATO DI ANCORAGGIO

L’ancora è propriamente quella istituzione dello spirito che consente l’attesa dell’essere e la dimenticanza del tempo. Gettata nel mare, un’ancora crea gorghi e passioni. La sua forma s’ispira al modello circolare dei ricordi e la catena che la tiene avvinta dipende dalla trasformazione stessa  di tutte le memorie. Questa grande T moltiplicativa è il simbolo stesso della metamorfosi, lo scettro unitario e trasparente delle affinità del pensiero.

TRATTATO DI POSIZIONE

I supporti malinconici del pensiero giacciono in una valle lontana dell’eternità, dove nessun corteo di statue è ancora riuscito a giungere. Una strana poesia – la perla erosa del tempo –  vi è stata incisa e poi abbandonata. Una recita che intervenisse a modificare la persuasione del caso potrebbe quindi spezzare la continuità stessa dei suoi contenuti. Sul muro chiuso di un erebo falso e solitario è già fiorita l’amantilla recidiva, la prodigiosa illusione del nulla, il vanto onirico di aritmetiche morgane. Poiché ormai è contrassegnato il fato degli eventi: a nessuno è concesso di conseguire il trionfo dell’io. Identiche terne si contendono la tiara secolare della memoria, l’oscuro cespo dell’essere.

TRATTATO DELLA LETTERA PERDUTA

Si è conclusa la fase che precede la storia dei sogni: ora si liberano i desideri, e i loro voli reconditi agevolmente raggiungono l’impero dell’orizzonte. Così si formano i cristalli contemplativi, gli eruditi emblemi dell’astro di confinamento. L’impresa del caso, precisa e liberata, sollevata sul tempo, agirà di conseguenza e come chimera risorgente si poserà sull’ultima memoria, né lunga né corta, per sciogliere  l’accordo delle tonalità dell’io. A chi svelerà l’enigma dell’identità sarà data l’antica ricompensa, il flauto astratto del privilegio degli eventi, la concomitanza sopravvelata delle attitudini e dei principi.


                                                           Lucio Saffaro

venerdì 10 gennaio 2014

“Constable, 1821” di Marco Furia


Nel 1821, John Constable dipinse “Il carro di fieno”.
Sotto un cielo a tratti imbronciato, un carro attraversa una pozza irrigatoria posta accanto a due case rurali immerse nel verde.
Lo sguardo cade, innanzi tutto, sul carro che, assieme al fieno, trasporta due contadini e, subito dopo, sui due piccoli edifici illuminati da una fluida luce.
Ho detto “fluida”, perché, in effetti, la luminosità del quadro presenta un aspetto che mi piacerebbe definire liquido.
Acqua e luce sembrano fondersi fino a costituire un nuovo elemento, quasi la mano del pittore avesse creato un’entità prima inesistente.
Tutto tace: non avvertiamo il rumore provocato dalle grosse ruote e dagli zoccoli dei cavalli, né le parole pronunciate dai contadini, poiché la nostra attenzione è concentrata sui riverberi luminosi.
Non ci meraviglia il fatto che Constable fosse solito eseguire provvisori tratteggi all’aperto al fine di catturare taluni riflessi: anzi, saremmo colti da stupore se ci raccontassero che “Il carro del fieno” fu interamente dipinto all’interno dell’atelier senza l’ausilio di schizzi tracciati all’aria aperta.
La materia della pittura è la luce e l’artista va a cercarla nello spazio e nel tempo in cui essa si trova.
Sì, certo, anche nel tempo, poiché la luminosità, che, ovviamente, ignora orologi e cronometri, è anche fulgida storia di se stessa e il suo attimo, pur restando tale, può essere molto durevole.
Il pittore è sensibile al fascino di quell’oltre da cui traggono origine certi modelli, ma che, in sé, è privo di qualsiasi schema.
Conscio dei propri umani limiti, il Nostro si avvicina il più possibile a una persistenza ineffabile di cui non può offrire alcuna rappresentazione: il suo pennello traccia segni che, nel loro stesso mostrarsi, pongono dei limiti al mondo.
Occorre, forse, votarsi all’inattività contemplativa?
No, non è necessario, come il quadro in esame dimostra.
L’arte, insomma, è il segno che prende atto dell’esistenza di un non rappresentabile quid al quale può soltanto alludere.
Così, in quest’opera, spazio, tempo, liquido, solido, chiaro, scuro, umano, animale, vegetale, eccetera, ci sono, ma richiamano àmbiti in cui quei tratti non ci sono ancora.
La nostra esistenza è intrisa del nostro modo di vedere e non possiamo separare l’una dall’altro: tuttavia è possibile, per esempio, riconoscere nel suono il silenzio, nel movimento la stasi e, di più, è possibile creare accostamenti diversi, dipingendo, come fece Constable, un’acqua che è luce (e viceversa).
Riconosciamo in quella pianura una coltivata porzione di superficie terrestre, immaginiamo, senza incontrare difficoltà, quale potrebbe essere la meta di quel carro, ci rappresentiamo gli interni di quelle case e i loro abitanti, non ci sentiamo estranei al vigile atteggiamento di quel cane che presidia il suo territorio: tutto ci sembra familiare, eppure avvertiamo la presenza di qualcosa che non c’è.
Qualcosa che la liquida luce del dipinto suggerisce, illuminando perfino noi, esterni al dipinto medesimo.
Osservare un’opera d’arte è anche guardare attentamente noi stessi e scoprire l’esistenza di un enigma esteriore quanto interiore.
È, davvero, avvicinarci alla nostra vita, riuscendo, se non proprio a toccarla, a comprenderla meglio.

                                                Marco Furia

domenica 5 gennaio 2014

Flavio Ermini su “Artificio” di Rosa Pierno, Robin, 2013

Le Abitazioni della Poesia – Sensibile e sovrasensibile



Da tempo, la chiusura alla verità dell’essere appare ferrea. La divisione dell’essere in sensibile e sovrasensibile si configura ormai come cosa compiuta. Oggi, la strada della tecnica appare spianata. La via verso la verità sembra ogni giorno più impraticabile. La via della conoscenza al contrario sembra che sia diventata la strada maestra. A tale proposito, le questioni che Rosa Pierno pone con Artificio sono: è possibile tornare a esporsi all’essere? È possibile prendere posizione per l’essere, prima di volgersi a qualsiasi altra destinazione?
Artificio si affida alla parola poetica affinché sensibile e sovrasensibile – ovvero terra e cielo – si ricompongano senza distinzioni. Accadrà? Non è dato saperlo. Rosa Pierno con Artificio si assume l’arduo compito di tracciare «il diagramma dei loro incontri, avvicinamenti, disguidi, mancate coincidenze, fughe, ritorni, incomprensioni, addii definitivi e sovrapposizioni…».
Il testo va seguito nel suo movimento atto a ricostruire questa «cartografia d’amore». Sì, perché non di altro si tratta: si tratta di ridare vita al perduto “dire” – il dire originario – attraverso un mosaico di parole che di quel dire oggi è solo l’ombra. E se il fine è il matrimonio, il matrimonio non può che essere «d’amore», così come il linguaggio non può essere che un linguaggio «d’amore».
Artificio è un poema fatto in modo tale che la natura stessa – il tutto – diventi per la poesia un destino. Artificio vuole rappresentare il mistero del dicente votato all’essere; un dicente posto davanti alla frantumazione, quando è invece alla totalità che aspira. Si tratta di tornare alla «materia indivisa», che «mai scompare del tutto», che sempre è presente anche nella più radicale frammentazione.
Artificio suggerisce la prossimità del sacro, del sacro inteso come “separato”, segreto e saturo di vita. Alla vita converrà allora un dire amoroso per ricongiungersi a «ciò che pareva sopito»: al fondamento originario, primordiale, sorgivo dell’essere, la verità viva del suo manifestarsi come del suo celarsi.

 Flavio Ermini,  sul numero 36 della rivista Equipéco, giugno 2013


Rosa Pierno
Artificio



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Trapuntato è il cielo di cento e mille astri tale che costellato è il prato che lo riflette; porporeggia un tramonto quasi estinto, esangue lungo gli estremi lembi, ove materie estranee si ricongiungono in agognata quiete. Sereggia, ormai, su questa terra e in cielo.

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Lo stato del non amore differisce da quello in cui amore regna per totale mancanza di colore. La realtà non ha luce né suono, né gusto né alterazione, non arpiona l’animo, né lo trascina; non  ci sono picchi da registrare o epiche imprese da compiere o viale fiorito da percorrere e nemmeno pietraia da superare. Stato del non amore è vuoto teatro, polveroso palco.

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All’origine, la materia indivisa già possedeva moto, preludio di ben altri sommovimenti e tragedie: la terra che si divide dalla terra, mari che s’allagano e vento che vi scatena drammatiche erosioni. Di origine, senza andare tanto lontano, si parla anche in meno remote storie. Chi si unisce e poi disparisce, forse mai scompare del tutto, sempre ciclicamente ritorna.

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Nessuna parola finita potrà definire assoluto amore e, dunque, mille e mille volte sarà necessario ripetere che t’amo.