martedì 2 luglio 2013

Elsa Morante “Alibi” Einaudi


Alibi, libro dimenticato di Elsa Morante - come già Cesare Garboli nella sua appassionata presentazione lo definì, a cagione del suo essere “incompatibile soprattutto col linguaggio poetico, con la tradizione del Novecento” - vogliamo qui proporre per una rilettura. La poesia iniziale di questa frastagliata, portentosa, raccolta, Minna la Siamese, introduce due questioni di impegnativa disamina, al di là del pretesto affettivo e domestico: una è quella della distanza/differenza tra l’uomo e l’animale, l’altra è quella del pericolo sempre in agguato dell’autoinganno. La prima viene illuminata da un dispiacere: che la bestiola non possa distinguere tra i giorni feriali e i giorni di festa, simbolo della incolmabile distanza esistente tra chi non condivide il linguaggio, ma, anche, dispiacere che per tale via non sia considerato come assassinio l’uccisione di un animale. La seconda è relativa all’illusione determinata da una proiezione affettiva: se si nutre affetto per un animale si deve sapere che esso è ricambiato solo apparentemente, nelle forme, ma non nella sostanza, e pertanto, sebbene a malincuore, avviene la presa di coscienza che quello che la gatta dimostra non è:

Tanto mi bacia, a volte, che d’esserle cara io m’illudo,
ma so che un’altra padrona, o me, per lei fa uguale.
Mi segue, sì da illudermi che tutto io sia per lei,
ma so che la mia morte non potrebbe sfiorarla…

Avvertimento che si ritrova in un ancor più lancinante strale rivolto a se stessa: “Ma, come la memoria, il presagio / è menzogna” nell’ultima poesia Narciso. Questione ripresa con maggiori e più iridescenti complessità nella poesia Canto per il gatto Alvaro che disegna quasi un’analogia tra i caratteri dell’animale e quelli della poetessa (‘selvaggio’, ‘libero’, ‘ingenuo’). Forse, è in tal guisa disegnato lo scenario principale, e forse di un unico atto, dove si allocheranno le poesie della raccolta. Nel passo invalicabile tra ricordo e realtà, dove stupisce che un ricordo possa darsi come cosa presente (la risata di Saruzza, l’immagine della sua manina che fruga tra le foglie) troviamo l’ulteriore perno di articolazione concettuale che designa poli opposti.  Scanditi nell’Amleto, quelli che si riverbereranno in maniera spiegata e totalizzante ne La Storia, e che riguardano appunto l’orizzonte storico e il destino individuale, ma con una nota incistata, simile a un ganglo di raccordo tra le due polarità, per il riguardo alla consapevolezza di tale inaccordabilità. Che il soggetto dispieghi poi un rifiuto ad adattarsi, inoltre, non avviene mai a costo della perdita di umana partecipazione e comprensione, di amore verso i due opposti versanti. Mai espulsa la denuncia dalla constatazione del delittuoso comportamento della società che i suoi fiori più belli espunge o colloca ai propri margini senza pietà. Basta un genitore che non ami o un segno che riassuma la condizione femminile d’inferiorità a far scattare l’inevitabilità di un destino. Eppure, l’accertamento di tali nefaste condizioni trova maglie rade se  qualcuno accoglie le denuncie, se individua le ingiustizie, se le contesta, col che viene a cadere la più ferrea delle condizioni: l’amore ha questo potere e la poesia lo testimonia. L’apparente anacronismo che si avverte in questi versi è tutto teso a riconsegnare un mondo di sentimenti recuperati e riscoperti in un momento storico che più cruento mai ebbe mondo (tutte le poesie sono state scritte negli anni 1941-48 e solo alcune sono degli anni 1956-57), quasi un guardare indietro per riallacciarsi a forme che ancora potessero tracciare una continuità con la cultura precedente (testimoniata, vera e propria dichiarazione d’intenti, nella poesia Ai personaggi).  In un indomabile volontà/desiderio di non lasciarsi travolgere, di non divenire cinica o disillusa, Elsa Morante, in esergo alla poesia Sheherazade, scrive: A voi diletto, a me speranza / rechi l’Oscura”.

L’amore come leit-motiv, come catena da traino dell’intero mondo e pur anche delle celesti sfere! L’amore in grado di trasformare tutti gli eventi interiori nei suoi contrari per pura generosità o per tenace attaccamento alla forza primordiale che, ancora, non sopravanza le polarità concettuali, ma le disinnesca, non le riunifica in una categoria superiore, ma le mantiene attive entrambe perché altrimenti amore non si darebbe ( e si ricordi quanto amore non sembri esistere al di fuori del linguaggio con cui lo esprimiamo, come afferma Bateson: “in verità, sono i messaggi che costituiscono il rapporto”):

Nel mio cuore vanesio, da che vi regni tu,
le antiche leggi del mondo son tutte rovesciate:
l’orgoglio che si compiace d’umiliarsi a te,
la vanità si nasconde davanti alla tua gloria,
la voglia si tramuta in timido pudore,
la mia sconfitta esulta della tua vittoria,
la ricchezza è beata di farsi, per te, povera,
e peccato e perdono, ansia e riposo,
sbocciano in un fiore unico, una grande rosa doppia. 

Ma vogliamo ricollegarci al nostro spunto iniziale: non si dà mai, almeno in queste poesie, una Morante che non sia consapevole che la realtà è sempre proiezione personale, così come della sua particolare dote, talento immaginifico, (rendendola al contempo un essere tra i più soli al mondo) che le fa creare cosmogonie e gliele le fa disfare: “L’ago è rovente, la tela è fumo.  / Consunta fra i suoi cerchi d’oro / giace la vanesia mano / pur se al gioco di m’ama non m’ama / la risposta celeste / mi fingo”, il che non equivale mai a un voler uscire dal gioco. Anzi, s’intenda bene a qual punto la consapevolezza del proprio talento la renda diversa, mai succube nemmeno del suo più appassionato amore. Siamo di fronte ad Avventura, dedicata a Luchino Visconti. La poesia utilizza i topos della favola, ma solo per mostrare, rispetto a tali lussureggianti tappe, lo zoccolo duro della inalienabile percezione di sé. L’amore, anche il  più potente, è frutto di chi lo prova e non di colui verso il quale è diretto!    

Con un salto cronologico si balza ad Alibi poesia del 1955. E’ qui manifesta l’alterità tra il ragazzo, mitico personaggio appartenente alle sue mille trame, suo alter ego o ideale che si avvale di molteplici sembianti e l’autrice. Quasi il simbolo di sé, il vero volto dell’autrice. Inafferrabile e prismatico, ma irriducibile a ogni altra realtà che da quella interiore si discosti. Ora lo sappiamo, il teatro di cui avevamo parlato all’inizio coincide con la stanza di Elsa: al suo interno si succedono paesaggi ed epoche e sono tutte creazioni letterarie, ma con un unico comune denominatore: l’appartenenza alla creazione, dove figlio e madre battono con il cuore tutto il tempo del mondo. Però non vogliamo concludere così, bensì in altro modo. Con quel verso tratto dalla poesia L’isola di Arturo, che riporta tutto a più terracqueo mondo: “fuori del limbo non v’è eliso”.   

                                                             Rosa Pierno

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