In un mondo in cui sempre più si parla ma sempre meno si dice, Eugenio Baroncelli, con “Mosche d’inverno”, prende decisamente partito per il dire.
Si tratta del racconto brevissimo (in media mezza pagina o poco più) di 271 decessi di personaggi vissuti nelle più svariate epoche (per citarne alcuni: Alfred Jarry, Oliver Hardy, Costantino I, detto il grande, Luigi Pirandello, Ipazia, Emily Dickinson, Tycho Brahe, Mae West).
Baroncelli, insaziabile lettore di voluminose biografie, condensa in poche righe lineamenti essenziali, nitidi cenni, efficaci sprazzi dalla potente concisione.
La brevità raggiunge qui livelli espressivi molto alti per via di una prosa estremamente precisa: pochi tratti, sobri e dettagliati, sono sufficienti a riportare in vita esistenze affidate a intensi (pregnanti) lampi.
È il dire breve, quello che lascia ampio spazio libero attorno a sé e, proprio per questo, definisce senza opprimere, senza risultare in qualche modo autoritario.
Si legge nell’ “Avvertenza” iniziale
“Quasi niente di questo libro è mio”
e poi
“Quanto alla morale, non ne ha nessuna, ma se ne avesse una sarebbe questa: che la morte degli altri ci aiuta a vivere. Io ci ho scritto un libro e voi, forse, lo leggerete”.
Propensione all’antinomia di un autore che distilla parola dopo parola e che, rappresentando con lucido trasporto gli ultimi attimi dei suoi personaggi, mostra non comune intensità morale?
Gusto per il paradosso?
Forse, ma in misura minima, poiché l’intento, lungi dal tendere all’assurdo, è fornire sostegno: non un certo fatto in sé “ci aiuta a vivere”, bensì la capacità di chi lo sa narrare secondo un divenire linguistico ricco di feconda energia.
Non c’è cieca disperazione in un libro tutto dedicato alla morte, c’è, invece, fulgida presa d’atto, concisa e limpida consapevolezza, fiducia in un esistere che ha saputo trovare una parola anche per il suo stesso estinguersi, così da alleviare la pena e illuminare il presente rendendolo ancora più ricco di senso.
Insomma, la scrittura del Nostro fa davvero qualcosa.
Una grande umanità è presente in questo scorrere di fisionomie scolpite, tratteggiate in maniera talmente esatta da permettere loro di essere nel medesimo tempo immobili e infinitamente dinamiche, di parlare a noi inducendoci a continuare un discorso in difetto del quale si arresterebbe lo sviluppo del nostro essere.
Su un’intelligenza allucinatoria alla Borges, s’innesta una (mai inconscia) misurata passionalità che prende le forme di uno scrupolo descrittivo tale da svelare sentimenti di profondo affetto nei confronti di tutti i vivi, i morti e i nascituri.
A proposito del grande scrittore argentino, cito le ultime parole del brano a lui dedicato:
“Lascia la casa al 29 della Grand Rue in cui è venuto a vivere da appena tre giorni e che dista pochi passi da quella in cui era nato Rousseau, scrittore troppo espansivo per i suoi gusti. Lascia sul comodino Voltaire e Novalis, la luce e la penombra. Va ad
aspettare che adesso lo sogniamo noi”.
Per meglio comprendere la vita occorre avvicinare la morte?
Anche e, senza dubbio, “Mosche d’inverno” ne è luminosa prova.
Marco Furia
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