L'imbarazzo che
Proust denuncia con il suo testo incompiuto su Chardin e Rembrandt è dettato da un'indecisione dovuta al fatto che
si accinge a dare una definizione dell'arte e della letteratura, anzi plurime,
e tutte sembrano essere insufficienti. Nel rapido volgere di poche pagine, egli
le fa emergere e ce le sfila sotto gli occhi, sostituendole con un nuovo
specchietto per le allodole. Inutile dire che nessuna può persistere: la
pretesa è errata in partenza. Pretendere
che l'arte sia più vera della realtà, che solo essa possa farci scorgere la
bellezza insita anche nelle cose più umili e scontate, o che nemmeno l'artista
abbia la consapevolezza di quello che l'opera esprime o determina in chi osserva,
o ancora che la luce è il mezzo che evidenzia l'esistenza dell'enigma: ecco
tanti lustrini appesi all'albero della cuccagna. Ma Proust interrompe il
lavoro, si rende conto che la parzialità delle affermazioni deve adeguarsi alla
complessità delle opere d'arte. E quanto la vera tenzone, la sfida "
mortale" dello scrittore consista nel ricreare sula pagina un'opera che
abbia valore compiuto e che solo per questo sia equivalente all'opera da cui sta traendo ispirazione.
Nel caso in
questione, alcuni quadri di Chardin e il quadro "i due filosofi" di
Rembrandt. Il testo di Proust sembra più un affilare la punta, un avvicinarsi,
nemmeno cauto, alle opere: un esercizio, che ha persino una certa grossolanità.
Il fatto di esprimere i concetti linguisticamente non può valere come risposta
esaustiva rispetto ai più aleatori significati veicolati dall'opera visiva. Non
vi può essere una mera trasposizione tra
i due mezzi espressivi:
"Inconsciamente, lo provavate già il piacere che dà lo spettacolo della
vita modesta e della natura morta, altrimenti non sarebbe sbocciato nel vostro
cuore quando Chardin lo ha suscitato con il suo linguaggio imperativo e
brillante". L'opera d'arte non può essere equiparata a un linguaggio e non si tratta del medesimo valore espressivo
quando si dipinge e quando si scrive!
Nemmeno per un
istante, si può credere, d'altronde, che ci sia effettivamente una genesi
diretta tra opera visiva e opera letteraria né
che quello che lo scrittore
afferma di fronte a un'opera d'arte ne esprima l'essenza. Ma il nostro
riferimento andava più a un certo mestiere, sempre alto in Proust, che gli
faceva accordare credito anche alle sue prove meno efficaci: "Vedendo che
egli vi confida i segreti che sa cogliere in loro, metalli, ceramiche e frutti
non si rifiuteranno più di confidare i loro segreti anche a voi. La natura
morta diventerà anzitutto natura viva", a una facilità che si vuole priva
di dubbi, priva di lacune, quasi tronfia.
E soprattutto ci
viene un sospetto insuperabile quando a Chardin non si mette in conto il valore
espressivo della luce, ma lo si fa soltanto con Rembrandt, e si fa riferimento esclusivamente a essa per
render conto di come solo nei quadri di quest'ultimo si vada "oltre la realtà
stessa": "Oltre il fiume o il mare abbagliante o torbido, al di là
delle finestre scintillanti, smaltate di fiori, fiammeggianti di sole, sopra i
tetti trasfigurati delle case, guardiamo il cielo il cui riflesso sulla terra
abbiamo riconosciuto ovunque, quel riflesso che non conosceremo mai e che
conosciamo così bene, che è la bellezza
di tutto ciò che abbiamo sempre visto e ne è anche il mistero,
l'enigma". Qui evidenziati dalle
dirette parole dello scrittore francese, il quadrilatero entro cui la sua
lettura dell'arte oscilla: il riconoscere sotto diverso aspetto ciò che ci sta
sempre davanti agli occhi, ma a cui non attribuiamo valore, e ciò che ci viene
mostrato esclusivamente dalla pittura; ciò che per essere inesprimibile non
dovrebbe potersi dire con l'opera umana e il vedere invece esclusivamente
attraverso di essa il mistero.
L'acuta analisi
di Alain Madeleine-Perdrillat mette in luce, nella postfazione, altre
coppie: soggettivo e oggettivo,
materializzazione e smaterializzazione, mostrando come ci sia un rovesciamento
da un elemento all'altro e come Proust si diparta da Diderot e Baudelaire per
cercare una propria collocazione. In ogni caso, restando intatto il nucleo
propulsore di ogni confronto con l'opera d'arte, riassunto cosi efficacemente
nel finale della postfazione:" Per quanto mirabili, i grandi capolavori e
i bei discorsi non bastano, e se anche spesso possono sviare, non possono mai
sostituire l'incessante lavoro di ri-creazione che la bellezza richiede".
Rosa Pierno