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domenica 27 dicembre 2015

Marcel Proust "Chardin e Rembrandt", Pagine d'Arte, 2010


L'imbarazzo che Proust denuncia con il suo testo incompiuto su Chardin e Rembrandt è  dettato da un'indecisione dovuta al fatto che si accinge a dare una definizione dell'arte e della letteratura, anzi plurime, e tutte sembrano essere insufficienti. Nel rapido volgere di poche pagine, egli le fa emergere e ce le sfila sotto gli occhi, sostituendole con un nuovo specchietto per le allodole. Inutile dire che nessuna può persistere: la pretesa è  errata in partenza. Pretendere che l'arte sia più vera della realtà, che solo essa possa farci scorgere la bellezza insita anche nelle cose più umili e scontate, o che nemmeno l'artista abbia la consapevolezza di quello che l'opera esprime o determina in chi osserva, o ancora che la luce è il mezzo che evidenzia l'esistenza dell'enigma: ecco tanti lustrini appesi all'albero della cuccagna. Ma Proust interrompe il lavoro, si rende conto che la parzialità delle affermazioni deve adeguarsi alla complessità delle opere d'arte. E quanto la vera tenzone, la sfida " mortale" dello scrittore consista nel ricreare sula pagina un'opera che abbia valore compiuto e che solo per questo sia equivalente  all'opera da cui sta traendo ispirazione.

Nel caso in questione, alcuni quadri di Chardin e il quadro "i due filosofi" di Rembrandt. Il testo di Proust sembra più un affilare la punta, un avvicinarsi, nemmeno cauto, alle opere: un esercizio, che ha persino una certa grossolanità. Il fatto di esprimere i concetti linguisticamente non può valere come risposta esaustiva rispetto ai più aleatori significati veicolati dall'opera visiva. Non vi  può essere una mera trasposizione tra i due  mezzi espressivi: "Inconsciamente, lo provavate già il piacere che dà lo spettacolo della vita modesta e della natura morta, altrimenti non sarebbe sbocciato nel vostro cuore quando Chardin lo ha suscitato con il suo linguaggio imperativo e brillante". L'opera d'arte non può essere equiparata a un linguaggio e non  si tratta del medesimo valore espressivo quando si dipinge e quando si scrive!

Nemmeno per un istante, si può credere, d'altronde, che ci sia effettivamente una genesi diretta tra opera visiva e opera letteraria né  che  quello che lo scrittore afferma di fronte a un'opera d'arte ne esprima l'essenza. Ma il nostro riferimento andava più a un certo mestiere, sempre alto in Proust, che gli faceva accordare credito anche alle sue prove meno efficaci: "Vedendo che egli vi confida i segreti che sa cogliere in loro, metalli, ceramiche e frutti non si rifiuteranno più di confidare i loro segreti anche a voi. La natura morta diventerà anzitutto natura viva", a una facilità che si vuole priva di dubbi, priva di lacune, quasi tronfia.


E soprattutto ci viene un sospetto insuperabile quando a Chardin non si mette in conto il valore espressivo della luce, ma lo si fa soltanto con Rembrandt,  e si fa riferimento esclusivamente a essa per render conto di come solo nei quadri di quest'ultimo si vada "oltre la realtà stessa": "Oltre il fiume o il mare abbagliante o torbido, al di là delle finestre scintillanti, smaltate di fiori, fiammeggianti di sole, sopra i tetti trasfigurati delle case, guardiamo il cielo il cui riflesso sulla terra abbiamo riconosciuto ovunque, quel riflesso che non conosceremo mai e che conosciamo così bene, che  è la bellezza di tutto ciò che abbiamo sempre visto e ne è anche il mistero, l'enigma".  Qui evidenziati dalle dirette parole dello scrittore francese, il quadrilatero entro cui la sua lettura dell'arte oscilla: il riconoscere sotto diverso aspetto ciò che ci sta sempre davanti agli occhi, ma a cui non attribuiamo valore, e ciò che ci viene mostrato esclusivamente dalla pittura; ciò che per essere inesprimibile non dovrebbe potersi dire con l'opera umana e il vedere invece esclusivamente attraverso di essa il mistero.

L'acuta analisi di Alain Madeleine-Perdrillat mette in luce, nella postfazione, altre coppie:   soggettivo e oggettivo, materializzazione e smaterializzazione, mostrando come ci sia un rovesciamento da un elemento all'altro e come Proust si diparta da Diderot e Baudelaire per cercare una propria collocazione. In ogni caso, restando intatto il nucleo propulsore di ogni confronto con l'opera d'arte, riassunto cosi efficacemente nel finale della postfazione:" Per quanto mirabili, i grandi capolavori e i bei discorsi non bastano, e se anche spesso possono sviare, non possono mai sostituire l'incessante lavoro di ri-creazione che la bellezza richiede".


                                                                                 Rosa Pierno

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