Pagine

lunedì 28 novembre 2011

Silvia Ronchey “Ipazia” BUR, 2010


Un libro esemplare, “Ipazia” di Silvia Ronchey, BUR, 2010, dove personaggio storico, e situazione sociale, politica, religiosa e culturale vengono ricostruiti e restituiti insieme al metodo storico che tale studio ha prodotto, letteralmente donandoci un affresco che non indulge a ragioni ideologiche o di convenienza e che ritesse, come solo un’intelligenza irrorata di passione sa fare,  le relazioni esistenti durante il V secolo tra Alessandria e Costantinopoli, aventi sullo  sfondo Roma e Atene.

Al di là della ricostruzione delle modalità dell’assassinio agghiacciante di Ipazia per intolleranza, fanatismo e invidia, interessantissima appare la ricostruzione della studiosa di cui non si hanno che pochissimi documenti diretti. Il lavoro svolto consente di delineare con precisione le filiazioni e il contesto dell’esercizio intellettuale: ciò consente di avere con chiarezza il quadro del suo effettivo ruolo nella società alessandrina, finalmente abbattendo le nebbie sul suo effettivo valore di studiosa e la stima che nutriva da parte dei suoi contemporanei.

Ma ancora più importante è, a nostro avviso, il fatto che il libro sia composto da tre livelli, poiché si acquisisce in questo modo la consapevolezza di che cosa voglia dire produrre un testo storico costruito con la massima serietà e intransigenza e delle varie fasi, anche intersecantisi, che lo compongono.   Nel primo livello, la Ronchey espone i documenti storici diretti e indiretti a disposizione, tracciando il quadro completo sia delle voci che si sono scagliate contro un così brutale ed efferato delitto, sia le voci che hanno provato a mitigare l’accaduto e a giustificare il mandante: quel Cirillo, vescovo di Alessandria e propugnatore della consustanzialità,  che sarà santificato da Benedetto XVI.

Il secondo livello è una escursione nei modi in cui durante il prosieguo dei secoli, la figura di Ipazia è stata elevata a simbolo delle più varie ideologie e tirata a destra e a manca per rappresentare, appunto, la causa ideologica dell’interprete. Si va da Voltaire a Chateaubriand, da Flaubert a Gibbon. La massima attenzione della Ronchey è rivolta a smascherare la propaganda, le interpretazioni che quasi sempre alterano i dati di fatto, smantellando così il “suo mito letterario” e la sua “reinvenzione politico-ecclesiastica e storiografica”.

Il terzo livello, in cui si rivisitano i documenti diretti e indiretti,  consiste nell’interpretare i dati secondo un’analisi ancora più estesa e approfondita: si direbbe coincidente con il metodo nella sua veste finale e complessiva, il quale smonta il dato per estrarne tutte le impurità e le stratificazioni che nel corso del tempo l’hanno alterato. In un certo senso, la Ronchey mentre svolge la narrazione storica aumenta la nostra conoscenza della metodologia storica con cui, appunto, sta costruendo il racconto:  “Per raccontare la "storia vera" di Ipazia occorre risalire a ritroso questo duplice percorso ideologico e riesaminare le interpretazioni delle fonti antiche considerandole testimonianze di un processo di deformazione e trasformazione dei fatti già iniziato; valutando la loro maggiore o minore attendibilità, il loro giudizio e pregiudizio, anche in considerazione dei futuri sviluppi a cui daranno il via”.

Va da sé che l’operazione riesce solo quando la levatura dello storico, la sua cultura, la sua specifica preparazione in diversi campi (dalla storia, appunto, alla filologia, dalla filosofia alle arti) è tale quale quella posseduta da Silvia Ronchey, la quale, inoltre, riesce ad avvinghiarci al libro dalla prima pagina a un finale che vede la convergenza di tutti i dati che è possibile mettere a frutto e che fanno esplodere sotto i nostri occhi i complessi rapporti esistenti tra la società laica di Bisanzio, volutasi libera dall’ingerenza della chiesa, e il completo asservimento dei valori laici da parte del prefetto Oreste, il quale ha consentito al vescovo di Alessandria di assumere un potere egemone, proprio mentre si delineava il rapporto di conflitto/integrazione tra la cultura ellenistica e quella cristiana. 

Ne siamo certi anche noi: Ipazia “non potrebbe che essere, crediamo, contenta” di questa operazione che ne restituisce un’immagine priva di superfetazioni ideologiche e di manipolazioni.

                                                                                                       Rosa Pierno 

sabato 26 novembre 2011

(e)Straniamento: mostre, incontri, letture, conversazioni a “La nube di Oort”, Roma


Inizia con l’esposizione del 29 novembre 2011, un ciclo di tre mostre-evento nate dalla collaborazione tra Barbara Martusciello, Massimo Prampolini e Cristian Stanescu dedicate dalla Galleria La Nube di Oort di Roma al complesso tema, quanto mai attuale, dell’estraniamento.

La manifestazione prevede una successione di collettive e conversazioni dedicate alla questione dell’estraniamento come reazione individuale a uno stato di intensa alienazione, ai non-luoghi – come nella definizione del sociologo Marc Augé – alla società liquida – come pensata da Zygmunt Bauman – e a una serie di problematiche connesse all’attuale realtà socio-esisenziale.
Giocate sulle sottili differenze linguistiche straniamento/estraniamento, queste esposizioni, affiancate da incontri tematici, con letture e conversazioni, tratteranno il tema del dolore e della frustrazione che spingono un essere umano a non riconoscersi più in niente. Non è, questa, solo una reazione personale estrema: alberga in tutte quelle situazioni sociali e politiche di grande scollamento fra cittadini, o una parte di essi, e potere. Sono condizioni da ultima spiaggia in cui si tenta, anche attraverso la perdita della propria identità, di negare uno stato d'insopportabilità. E non basta cambiare paese per sfuggirci: non si evita l’altro dramma, quello di sentirsi straniero in patria, con l’enorme problema delle migrazioni e dei nomadismi, da sempre presenti nella storia del mondo.
La prima e la terza mostra del ciclo (e)Straniamento parleranno di sofferenza e condizione umana, di società alienante e reazione sociale, mentre nella seconda mostra e nell'incontro connesso, verrà proposta una riflessione sullo stretto rapporto tra estetica e straniamento, come prefigurato dai formalisti russi del gruppo ostranenie agli inizi del XX secolo e dalle avanguardie artistiche da Dada in poi, nell’arte come nella letteratura.
La prima esposizione apre il 29 novembre con gli artisti Anita Calà,  Oan Kyu,  Daniela Monaci  e Marcello Mantegazza che presentano lavori video, fotografici e mixed media dove l’uso del corpo al centro dell’analisi visiva riflette in maniera peculiare il concetto portante dell’intera iniziativa.
Il video “ANITA C.” di Anita Calà e le fotografie della performance di Marcello Mantegazza ci introducono al tema dell’identità e della sua perdita. Se la Calà si autoritrae in condizioni emotive tanto diverse e tanto intense da suggerire una possibile disgregazione interna in situazioni-limite, Mantegazza si sottrae e si protegge con l’impacchettamento della propria testa.
L’opera di Oan Kyu e il video Il passaggio di Daniela Monaci parlano invece delle costrizioni imposte dalla mera sopravvivenza. Nel video di Daniela Monaci, il passaggio di un fiume minaccioso aspetta i personaggi, ridotti a ombre senza identità, simbolo della precarietà della loro condizione. Nella fotografia di Oan Kyu la parete di marmo con scritte romane, simbolo del potere costituito, sembra insensibile alla supplica, scritta in un linguaggio incerto, della giovane zingara.
In chiusura della prima mostra, nella Conversazione organizzata ad hoc, Barbara Martusciello parlerà delle opere esposte, mentre Daniele Pieroni introdurrà la lettura di alcune poesie di Camillo Sbarbaro ed Eugenio Montale. Completerà la serata il monologo teatrale La strega azzurra di Marco Avarello: un pezzo drammatico dal ciclo Streghe dedicato da Avarello al problema dell’alienazione femminile. 
                                                                                                                      Cristian Stanescu



La Nube di Oort, Via Principe Eugenio  60, 00185 Roma
Apertura: da martedì al venerdì, ore 17.30-19.30 e per appuntamento
tel. 338 3387824 E-Mail: stanescu@alice.it

martedì 22 novembre 2011

Tiziano Salari su Silvano Martini “Mareale”


(Opera di Alberto Burri, artista molto amato da Silvano Martini)

“Da sempre si è inteso, come un dato che s’impone, che il luogo proprio, naturale, della parola poetica è il silenzio. E così, la sua apparizione è un’ascensione dal silenzio  in cui giace mai interamente inerte, il silenzio degli inferi dove si trova imprigionata come un ‘Essere” che chiede di manifestarsi al silenzio dall’alto, come è tipico della sua impari manifestazione, dove appare, spesso quasi asfissiata, l’ansia di prendere possesso della visibilità, il che implica l’ansia di assumere un corpo” (Maria Zambrano). A volte il silenzio è una cavità rimbombante  in cui le parole fanno gorgo e danno vita a un corpo in cui si mescolano stridori  quasi a voler essere risonanza di un essere dissonante attraverso cui il  reale ci assedia con tutte le sue implicazioni simultanee di tempi, di presenze, di rinvii in cui siamo gettati in un accumulo vertiginoso di casualità. Silvano Martini, in  Mareale, sembra aver ceduto a una sonorità indistinta per cercare di attraversarla e ritrovare il senso perduto di quell’alterità rispetto a ciò che si dice, e cioè la cosa non detta o il silenzio nel quale, direbbe Lacan, “sentire se stesso” come eco o rinvio della parola poetica.
Ora decifrare il senso di questo infittirsi di verbi, aggettivi, nomi, è possibile solo operando una trasposizione  al di là del velo delle parole, all’individuazione di una verità nascosta. Il soggetto poetico si trova all’interno di una situazione in movimento, forse in viaggio,tra interni ed esterni di un paesaggio mutevole, che può essere vissuto  solo attraverso il rinvio del soggetto a se stesso come oggetto, come accade nei sogni. Silvano Martini vive come in sogno una sua avventura esistenziale tra incontri e rumori innominabili e grida e voci, e come in un sogno  i passaggi svolgono una parata variopinta di immagini e di colori che ci lasciano un margine piuttosto ampio d’interpretazione. Si tratta di un viaggio, all’interno del quale è avvenuto un incontro,poco importa se d’amore, o per altri motivi, in un paesaggio dotato di monumenti e forse anche di rovine archeologiche. Non viene in mente alcun avvenimento particolare, ma piuttosto si allude all’onda sonora, quasi da spartito musicale, che avvolge il soggetto e lo smemora  in frammenti slegati da qualsiasi coesione, in modo che da dietro lui stesso, egli si senta accadere, in una violenta torsione che lo avvicina alla superficie delle cose. Egli non è più. È  il”bianco parapiglia”, “la rampa”“il grido sui nodi del tappeto”, “il titolo del libro declamato”,”il cane”, “le torri in luce”, “la foriera in ritardo sul banco del compostiere””il gallo tra le sbarre” “e lentamente una chiesa in associati cerchi”, e cioè la brutale emergenza del reale all’interno del quale difficilmente il soggetto può illudersi ancora di poter agire. L’ego è stato risucchiato nel vortice schizoide  che si apre dietro di lui e dove, smarrita la propria identità, si vede accadere fino all’apertura ariosa di una chiesa “in  associati cerchi” che sembra costituire un approdo, un ordine circolare al quale ancorarsi, ma come ci si ancora “ a un nulla di senso, ma questo nulla stesso come una cosa dura, resistente, impenetrabile” di cui  “ tutto il  reale   ne risuona” (Jean-Luc Nancy).



                    Da “Mareale”

natura  al calendario il piede ha resistito allo strumento
poi ha ceduto al bianco parapiglia la fissità di questa casa
che a sera stilla  nel vapore dubitare che il dialogo complichi
l’oscurità del carro atteso più che ferito dal candore
a cavallo in fitte file sul punto scosceso a volte grezzo
polvere appena quando lui grida e accade di esplodere all’intero
dalle prime file e passa dove non s’accende il tetto allora
dall’auto lo dice uscendo ancora dal laminatoio a brani

il dettaglio marcato dal percorso occhio all’insieme e vai
ultima è la rampa a cedere sul viso oblungo e non rimani
a dettare gocce alla memoria si appresta a scorgere le mani
mulinello nel sottile gli si stacca dal fianco il soccorso
nuda nel fuoco la reggia che cammina con unghie sorde
batte la finestra nel pensiero accomodandosi nel suo lanoso
queste immagini da capo scoccate ripiano per lettura grigia
nel confronto dal lampo in fuga e sotto il volo della sera

il viola che si rovescia e parla lascio il grido sui nodi
del tappeto la voce inseguita dal cespuglio la nota rada
ancora uno ne annodo nello sfiorire dell’ultimo dito
il suo ammaestramento nell’inguine il singhiozzo ridente
silenzio per carte azzurrate da sotto e il mento allegro
la luce per poco nella pelle libera disparante nei dettagli
l’usanza il piglio cieca gridava nel vapore il titolo
del libro declamato il grappolo sapiente il muschio sollevato

ci resta il pendio da riconoscere e tornerà in quest’aria a caso
sono basse fin dove il modello splende dipinto in ordini grandiosi
muniti sulla cima e al picco verde già meraviglia nelle grotte
il vento come guida e basta il mare adesso fra tutti facilmente
le scosse del fiume franoso e il vincolo sottile nella cosa
ma in attenzione e le grida così sull’iniziale assaggio
fauna dall’instabile altezza finito al bosco in quell’ottobre
sismico e i medesimi a notare nella valle il nome affluente e chiaro

la caccia nell’istinto di sfogare e il cane visto nel piacere
fuggito alla timidezza dell’ambiente proteso nell’innocuo rito
e un corpo subito sul blocco il gatto che si osserva nel frastuono
un tempo solo per l’insegnamento e precipita l’allarme da lontano
lo insegui nel rapporto sulla frangia piccolo nell’accordo di saltare
una chiusa finta di stimoli e poi invaso dalle conseguenze in luce
alla bocca della carne rosa mentre frena scrutando intorno
tellurico il nibbio a maggio e dissestato nel rischio sull’altura

le torri in luce e il passaggio dei resti sul portico del tempio
mentre frammenta il duca dalle opache mani il teatro dei bulgari
la fioriera in ritardo sul banco del compostiere appena irrise
il compleanno alla festa della voce e il pianto nel basso cono
la cascina a natale uscita dalla strada e immettendosi si prostra
al piede lo scavo nel frutteto che oscuro passa il trillo del corpo
nauti tra  osanna il sigaro il sorriso volendo dare un nome
aalle saliere e vengono condotti al gallo tra le sbarre intanto

largo alle murene antiche quei primi giorni stesi più in là
mentre sorgono da vicino e cingono americane le pianure agiate
il musicista nel suo giusto segno e allegro scivola il mattone
la pietra scopre la ninfa della famiglia riadattata il giardino
mozzo le torri e sul finire somministrato alle cose il dorso
in altro modo affabile oro e amorosamente di qua entro le polle
le tiare a spirali il fazzoletto aeroportuale sul carrubo
e lentamente a saliscendi una chiesa in associati cerchi

venerdì 18 novembre 2011

Georg Simmel “Sull’amore” Anabasi, 1995

Inauguriamo con questo testo una rubrica sul tema amore affrontato da un punto di vista filosofico attraverso  i testi di Maria Zambrano, Lou Andreas Salomé, Jean-Luc Nancy, ecc.

Collocato nell’alveo della tradizione metafisica, l’interesse di Georg Simmel nel definire l’amore è dunque tutto assorbito dal porne la trascendenza  e quindi dal metterlo al sicuro da contraddizioni e frammentazioni (egoismo/altruismo o sesso/sentimento). L’unità dell’amore, che viene prima di tutto separato dall’interesse (mezzo per giungere alla procreazione o al soddisfacimento dei propri bisogni), come avviene per la religione e l’arte sulla scia  kantiana, è il filo rosso che trama l’intero testo.

L’assolutizzazione dell’amore si ha quando esso, “sebbene prodotto dalla vita generativa”, diviene indifferente a quella vita. Alfine di “confutare l’ipotesi che l’amore possa essere prodotto da un molteplicità di fattori dei quali, appunto, nessuno è l’amore”, egli pone grande attenzione nel definire l’amore fine a se stesso: “né servire la riproduzione della specie, né servire il piacere è per esso determinante”. In questo senso gli aspetti biologici, egoistici, sociali, religiosi producendo relazioni sentimentali di natura  amorosa, non rimangono sommersi nella corrente della vita,  “ma ascendono a quel regno al di là di essa che si può chiamare ideale in senso ampio e non solo teoretico”.

L’amore ha “un movente originale e primario, non riconducibile alla consueta alternativa tra egoismo e altruismo”. Nessuna scomposizione prismatica può avere ragione dell’unità dell’amore. E Simmel giunge per questa via ad affermare che all’“omogeneo piano di coscienza dell’esperienza”, l’unità dalla quale ad esempio erotismo e sentimento sono derivati, appartiene “il modo di essere interiore di per sé nient’affatto conflittuale, che noi chiamiamo amore”.  

Alla definizione: “A me sembra che l’amore risieda in tale strato, che dal punto di vista psicologico è un fluttuante e continuamente rigenerantesi differenziarsi mediato dalla vita che incalza e dal suo significato metafisico, mentre dal punto di vista della propria intenzione, delle proprie leggi intrinseche e del proprio autonomo sviluppo esso trascende la vita“ segue l’ammissione dell’impossibilità di una definizione: “Forse è impossibile determinare il contenuto dell’amore in questo suo puro esser se stesso in un modo più costruttivo del tentativo precedente, nel quale si negava che esso fosse composto da diversi elementi”.

Dell’amore provato, secondo Simmel, non è possibile individuare le ragioni, altrimenti non sarebbe amore, ma interesse. Non è possibile spiegarlo. Poiché per Simmel è errato separare razionalità da sentimento, ed entrambi vi sono indistinti. Né desiderio e stima, né godimento e giudizio obiettivo possono  dar conto “del rapporto incomparabile e inderivabile, detto appunto amore, che il soggetto ha con un oggetto”. Simmel categoricamente asserisce “la completa indipendenza  da ogni considerazione sia pratica sia teoretica e da ogni giudizio di valore”.

Il riconoscimento dell’individualità insostituibile dell’amato è assolutizzazione imprescindibile nel processo d’amore. E in questo senso erotismo si distingue da amore perché può sostituire un individuo con un altro. Certo, seppure Simmel nel corso della sua esposizione ammetta una resistente contraddizione tra “l’assoluta immanenza del sentimento nell’animo di chi lo prova “ e il “desiderio di fondersi con l’altro”, che definisce “aspetto tragico dell’amore”, e riconosca nei “multiformi rapporti in cui nell’amore s’intrecciano individualismo e vita della specie” il vero scoglio, ciò alla fine non gli impedisce di definire come amore assoluto solo quello purificato da tutto ciò che si riferisce alla specie e, insieme, l’aprioristico rifiuto di ogni sostituibilità dell’individuo amato.

                                                                                                          Rosa Pierno

mercoledì 16 novembre 2011

Alcune poesie di Giannino di Lieto da “Opere” Interlinea, 2011


Dal bel volume “Opere”che raccoglie le poesie e i testi di Giannino di Lieto, con saggi di Giorgio Bàrberi Squarotti, Maurizio Perugi, Ottavio Rossani, Luigi Fontanella, edito da Interlinea, 2011, proponiamo dalla raccolta “Punto di inquieto arancione” (1972) tre poesie, le quali contengono alcuni punti cardine dello stile poetico del nostro autore: la mancata articolazione sintattica, la paratassi senza soluzione di continuità, la scomposta giustapposizione, il frantumarsi dell’unitario senso. Se ne trae la sensazione che quella descritta sia una materia deteriorata e la sua ricomposizione, pertanto, non attuabile: la realtà mostra un livellamento tra ciò che è meccanico e ciò che è umano, provocando disappunto, profondo disagio esistenziale.
Nelle poesie che presentiamo vi è un consistente presenza di parole che esprimono tale insostenibile condizione: “urlo”, “stranezza”, “errore”, “cancrena”, “malafede”, “scomparsa”, ”rovine”, “fiamme”, le quali stridono con altre parole, appartenenti a un diverso insieme che pure sono presenti nei testi: “equazioni”, “massa”, “luce”, “altezze”. Sfregamenti, schiocchi, colpi di frusta che s’intrecciano con l’identico e il diverso smangiucchiati dal nulla, con un tempo che non ritorna eternamente,  anche se quel fiume, presente nella poesia “Scienza del nome” è simbolo di ciò che è transitorio, che muta, e che Hölderlin, secondo la lettura di Heidegger, nomina soltanto, sfuggendo così alla cappa metafisica. Insomma, lo scenario che la sensibilità di Giannino di Lieto tratteggia in maniera battente è in qualche modo una macchia, qualcosa d’informe, che non riesce ad assumere la configurazione delineata da Heidegger, nonostante di Lieto ne condividesse gli assunti filosofici, di una raggiungibile condizione di abitabilità del mondo. Vi è sfiducia nel potere della razionalità, se essa è rappresentata dai prodotti scientifici, così come vi è sfiducia nell’universalità della determinazione umana a condividere medesimi intenti. Né la contemplazione della natura assicura l’alterità necessaria a costituirsi come altro: se le costellazioni si succedono sopra la nostra testa, la terra, pure, sembra non abitabile. E ciò nonostante Giannino di Lieto ne registri sconnessure e strappi, lacerazioni e ribellioni, queste sì con piglio non vinto: a prescindere dall’esito, la disposizione critica terrà insieme il testo. 


Scienza del nome

Sostare identico e diverso questo silenzio concluso dal nulla
ovunque si genera come un ritorno lasciato indietro
tempo dell’ombra saggia idee infedeli convengono in volumi
e tuttavia continua a specchiarsi onda di necessità
un modo contro e attraverso altezze di un urlo
la congiunzione di un apprendista ribelle per caviglie
un soffio dal fango dopo tutto così facile vivere
l’esalta una stranezza d’alberi che i bambini corrono a ventaglio
sul cuore di un fiume complesso porta il nostro nome
ammucchiata attesa tanto non appaia l’errore della luce
un riscatto di storie reali dal fondo baldanzoso.

Dicembre 1970 – Maggio 1971

Dipendenza dei termini

Divisione dei cervelli mostra l’eguale pigmento del dominio
come una febbre conduca negoziati, marinai stranieri
battono scalmi in equazione massa buio
                                                               per anticipare un certo flusso
cancrena sul ponte fu la puntuale malafede dunque affrettando
dal golfo i segnali poiché il fuoco naviga il verso del salmo
l’equinozio scandagli sul dorso dei granchi
quartieri del globo colpiti da cecità.

Settembre 1970

Eredità dell’esedra

In questo sta l’azione del buio come un fratello
in cima alla torre sciupata nell’interno
torce accese o sogno sopraffatto, liberarlo
segreto d’acque e la parola su uno specchio ovale
fantasticherie oscillano nel cratere vivo della nascita
la luna rende la sua immagine di sfera sotto pergole
ne conserva il modo quell’altalena di bilanciere
nuovi della compagnia si addossano ai primi
una scomparsa affidata alle guardie solitarie tagliaboschi
villaggi ragnatela un tinno di campane profugo
e le rovine in fiamme dopo la passeggiata del mattino.

Sopra la testa succedersi le costellazioni.

Marzo 1971

domenica 13 novembre 2011

Vittorio Gregotti “L’architettura di Cézanne” Skira, 2011

Non sorprenda che Vittorio Gregotti, che da sempre ci ha illuminato sulla specificità delle arti, in questo densissimo libretto “ L’architettura di Cézanne, Skira, 2011, voglia istituire un parallelo fra le opere di Cézanne e l’architettura.

Tanto più che in molte parti gli agganci tra quadri e architettura tramati per mezzo dell’analogia risultano a volte labili e come disfacentesi tra le mani. Perché dapprima Gregotti tesse fra i quadri di Cézanne e le architetture coeve sia una sorta di concomitanza sensibile sia uno schizzo che riguarda gli eventi culturali che si sono coagulati durante la vita di Cézanne, tracciando un comune orizzonte storico. E questo insieme, tenue aggregarsi di analogico pescato, è reso, alfine, corposo da una sintesi, quella cézanniana stessa, di “quasi mezzo secolo di lavoro sulla condensazione dell’esperienza del mondo come interrogazioni unitaria della sua costruzione” e in cui l’interesse per la tettonica della natura e per la composizione come struttura fondante del quadro sono focali. E, accanto a ciò, la “ricerca della verità nella sua necessità storica come fondamento di ogni atto creativo che opera nella tradizione europea di considerare la natura” in quanto “elemento dialettico rispetto al costruito”.

Non diversamente, attraverso l’analisi dei testi critici su Cézanne, viene a delinearsi il punto nodale dell’analogia su cui s’incentra l’attenzione dell’architetto: “la capacità di rendere poetica la costruzione stessa del fare, dell’uso degli strumenti della propria pratica, della concatenazione delle parti, del loro paziente rifacimento sino al momento in cui esse appaiono reciprocamente connesse, solidificate senza alternativa possibile” e che, inoltre, Cézanne ha perseguito in solitudine, senza cioè minimamente curarsi delle spinte propulsive della sua epoca (dall’impressionismo all’Architettura Art Nouveau, ad esempio).    

Ma è ferreo Gregotti nel situare paletti, nel porre tracciati e punti prospettici,  nel definire teorico apparato: “Non inganni il riferimento alle arti visive: la relazione che penso di poter stabilire tra la pittura di Cézanne e l’architettura non appartiene né alle somiglianze formali, né alla storia della rappresentazione. Si tratta piuttosto della tensione verso la scoperta dei principi che fondano le geologie dei materiali per mezzo dei quali tali principi sono restituiti: nella pittura del quadro e nel costruito dell’architettura”.

Conscio della difficoltà e dei pericoli insiti nella trasposizione allegorica, essi, tuttavia, non sono considerati ragioni sufficienti per demordere, tant’è che proprio tramite analogia Gregotti individua e in qualche modo rende più estesamente leggibili i parametri che riguardano l’architettura: “appoggiarsi al suolo e alla sua qualità, costruire, erigere come modo di riconoscere l’essenza di un luogo modificandolo e ricucendolo, ristabilendone la conoscenza e su di essa fondare il suo uso”. Ciò costituisce apertura  verso i mezzi della pratica artistica dell’architettura e della loro verifica di fronte alle specificità delle condizioni.    

A dire che il comune fulcro di qualsiasi operazione culturale deve essere ricercato e risiedere nella costruzione, solidissima, della propria pratica effettuata avendo presenti i mezzi specifici della propria arte, che per quello che riguarda il tekton dell’architettura vuol dire porla: “in relazione critica da un lato con le condizioni empiriche che lo fissano qui e ora in un luogo, dall’altro con la risoluzione delle esigenze specifiche, ma anche con le ragioni delle loro profondità storiche, cioè con la condizione dell’esistenza necessaria dell’architettura come modificazione di un esistente”. E dove il legame necessità e verità si estrinseca proprio nella distanza critica nei confronti del prodotto.

In questo modo appare evidentissimo come il raffronto non sia da ricercare formalmente, sebbene ogni somiglianza arricchisca e indichi, ma che il proprio frammento di verità, venga come cavato solo da strenua volontà dal caos della contemporaneità. Si chiarisce così d’un colpo solo che quelle affinità di cui parlavamo all’inizio, seppure esistenti e percepibili, non devono essere confuse con l’unico fatto che può essere riconosciuto come comune a due o più pratiche.

E come soltanto a partire da esso sia possibile ricostruire quella rete di analogie, le uniche valide e capaci di valere come strumento di valutazione di un’opera d’arte. Che, peraltro, in un’epoca che ama, come la nostra, scardinare regole e svolazzare a destra e a manca, è discorso quanto mai importante e insostituibile al fine almeno di non perdersi nel vuoto chiacchiericcio, dispersivo e irrilevante, di una convenzionalità della disobbedienza così onnipresente negli elaborati dell’attuale sistema, poiché è solo: “non interpretando l’originalità come una necessità mercantile, che è possibile farla di  nuovo coincidere con la normalità del lavoro anche artigianale del pittore e dell’architetto nel suo compito di modificazione del contesto come interpretazione civile e profonda delle sue possibilità”.
                                                                                             
                                                                                                                     Rosa Pierno   

giovedì 10 novembre 2011

Tiziana Colusso “Il suono del possibile” da “Il sanscrito del corpo” Fermenti, 2007


“Vorrei volare, nuotare, abbaiare, muggire, urlare, vorrei
Avere le ali, un guscio, una scorza, soffiare del fumo, avere una
Proboscide, torcere il corpo, dividermi ovunque...”
(G. Flaubert, La tentazione di Sant’Antonio)


Solo la musica forse sa la lingua
del possibile – il prima e il dopo di ogni esistenza
le branchie riassorbite in polmoni
lungo lente emersioni dai fondali
le braccia che si sono allargate ad abbracciare il vento
dei canyon e dei ghiacciai
o lo faranno nelle prossime soste
del divenire, e già premono le penne remiganti
a farsi avanti sotto gli strati di pelle e tra le unghie,
il timone caudato che ci ha guidato
in chissà quali migrazioni
lungo le correnti del tempo turbolente
su e giù dall’oceano senza bordi né fine
samudra che è partenza e arrivo –

Le note di un pizzicato butanese, nostalgico di nevi,
le arie dolenti di una Butterfly che tradisce
i suoi dèi soavi per un infido idolo coloniale,
la fisarmonica sensuale che fa sudare
i suonatori nei baccanali agresti,
o forse soltanto il soffio che dalle montagne si incanala
negli strumenti o in gole di pietra e carne –

respiro della materia - musica - muto canto di ossa



Samudra – (sanscrito) Oceano della vita



La possibilità insita nel divenire, e non certo nell’essere, di attestare le mutevoli forme, seguendo le quali molto concretamente si può descrivere la metamorfosi dell’evoluzione, le trasformazioni del corpo, la storia stessa dei corpi, non può essere unicamente affidata al linguaggio. Non sarebbe, inoltre, resoconto completo né esaustivo quello che tentasse di seguire le volute e i mutamenti degli oggetti, dei corpi, degli stati d’animo, dei pensieri  senza perlustrarne anche le zone oscure, spurie, ambigue, infide che tali processi accompagnano e non solamente come materiali di risulta. Quantunque indicare sia già importante, come importante decidere di mettersi dalla parte di ciò che non trova facilmente collocazione, classificazione, inserimento in una linea evolutiva, è tuttavia necessario che questo atto si accompagni con la decisione di non scartare il resto. Funzione raccolta, nella nostra cultura, preminentemente dalla poesia.  Ma nel linguaggio, il poeta più accorto trova lacune e insufficienze e mai come in questa poesia di Tiziana Colusso, “Il suono del possibile” tratta da “Il sanscrito del corpo” Fermenti, 2007, è dichiarata in maniera così decisa e perentoria l’esigenza di valutare queste carenze, di tenerne conto. Non si tratta soltanto di una denuncia, di una espressa difficoltà, perché qui la Colusso individua anche la modalità che a suo parere riesce a superare l’impasse. In maniera estremamente avvertita, la Colusso riconosce alla musica l’indeterminatezza assoluta, eppure, la sua capacità di evocare ciò che manca per completare il quadro d’insieme, per ripristinare lacune nella visione, per tirarsi dietro l’indesiderato e il diverso, ciò che è stato scartato eppure foriero di eventuali possibilità. E’ con la musica che la mente ricostruisce visioni dove diventa possibile unire cose divise, cose razionalmente riconosciute come distanti, e dove anzi la ragione si lega all’emozione in una sintesi in grado di superare la convenzionalità temporale e persino fisica. E’ certamente una sintesi che lega l’incompossibile, una sutura dello scibile umano che dona il senso della relatività e anche della propria posizione, proprio mentre si è immersi nel fluire delle immagini che la Colusso così sapientemente lega.   



Si ricorda che è in linea il numero della rivista internazionale di letteratura “Formafluens”  n. 4/2011 (ottobre-dicembre2011) consultabile all’indirizzo http://www.formafluens.net/  di cui Tiziana Colusso è direttrice.



Biografia
Tiziana Colusso (www.tizianacolusso.it) Autrice di narrativa, poesia, testi teatrali, fiabe, saggistica. Nel 2009 ha fondato e dirige FORMAFLUENS - International Literary Magazine (www.formafluens.net). Dopo la laurea in Letteratura Comparata a Roma ha vissuto a Parigi, specializzandosi all’Université Paris-Sorbonne. È dal 2004 Responsabile Esteri del Sindacato Nazionale Scrittori e dal 2005 al 2011 è stato membro del Direttivo dello European Writers’ Council, Federazione delle Associazioni di autori dei paesi europei, con sede a Bruxelles. Tra le sue pubblicazioni: La lingua langue (traduzioni di alcuni suoi testi poetici in dodici lingue, prefazione del Prof. Jean Charles Vegliante - Université Sorbonne Nouvelle) Ed. Eurolinguistica 2010; Il sanscrito del corpo, Fermenti 2007;  Italiano per straniati, Fabio D’Ambrosio Editore, 2004; La criminale sono io – ciò che è stato torna a scorrere  Arlem 2002, riedizione in eBook 2011, sito letterario “Larecherche.it”; La terza riva del fiume, Ed. Impronte degli Uccelli 2003; Né lisci né impeccabili, Arlem 2000, Il Paese delle Orme, Edizioni Interculturali 1999; Le avventure di Gismondo, mago trasformamondo, GIARA Edizioni Musicali, 1998.  Ha partecipato a numerose antologie di prosa e poesia e a vari Festival Letterari in Italia e all’estero. E’ redattrice della web review “Le Reti di Dedalus” e collabora riviste, enti e istituzioni culturali.

lunedì 7 novembre 2011

Félix Duque, Vincenzo Vitiello “Celan. Heidegger” Mimesis, 2011

Félix Duque e Vincenzo Vitiello saranno ospiti di “Parola per Parola” Convegno Internazionale di Poesia organizzato dalla rivista “Anterem” e dalla Biblioteca Civica di Verona il 12 novembre 2011. Il loro dialogo verterà sul rapporto impossibile tra il linguaggio poetico di Celan e il linguaggio filosofico di Heidegger.

Non esattamente un confronto a due voci, quello in atto nel libro che raccoglie i due consistenti testi di Félix Duque e di Vincenzo Vitiello “Celan. Heidegger” Mimesis, 2011, poiché autonomi e aventi approcci differenti, sebbene il tema sia la poesia tramite l’interpretazione che di essa hanno dato Celan e Heidegger in relazione ai temi che si sono manifestati essere inevitabili nel Novecento.

Se nel testo di Duque si affronta direttamente la questione dell’indicibile in poesia e della possibilità effettiva per la poesia di parlare dell’olocausto, in Vitiello il tema è affrontato a un livello generale per quello che riguarda la specificità della poesia  e la sua funzione. 

Nell’esperienza di ciò che “non sarebbe mai dovuto accadere” e che nessuna ragione al mondo può giustificare, Félix Duque pone nella necessità di ricordare la presenza del dilemma posto dal monumento che pietrifica qualsiasi capacità commemorativa, quasi giustificazione dell’inevitabilità dell’accadere. Contro questo infido risvolto, che ha un cardine nella proibizione di dimenticare adorniana, Celan denuncia  che la fissazione nel linguaggio provoca, tradendo “quello stesso dolore che la memoria aveva la missione di preservare”.   

Sarà concentrata in questo sforzo sovraumano la poesia di Celan che vorrà tenere fede alla necessità di conservare la memoria dell’inaccettabile che pure si è compiuto, tentando al contempo di evitare la sua fossilizzazione in forme retoriche, in immagini statiche.

La finissima analisi condotta da Duque sui testi celaniani mostra come il poeta abbia divelto nei suoi versi le regole della fissità dei significati pur rimanendo saldamente avvinghiato alle atrocità che s’intravedono in uno sfocamento e in una rimessa a fuoco senza soluzione di continuità. Una massa continua, fiotto di tenebre e di lucori, di angoscia e non suturabili ferite interiori sbarra il passo a qualsiasi tentativo di esautorare la tragedia, di schematizzarne le ragioni, di tracciare una via di speranza.  Celan risiede stabilmente in una ferita aperta e la memoria non può essere che un presente invalicabile.

Non eluso dallo studio di Duque è anche il rapporto di Celan con Heidegger (e in questo si ravvisa il legame col testo di Vincenzo Vitiello) che è di radicale antitesi: se per Heidegger “l’essenza della memoria risiede primariamente, originariamente, nell’aggregazione o raccolta del disperso”, per Celan “la memoria è qualcosa di ricevuto, ma più come un carico insopportabile che come base e fondamento solido per radicarvi ogni pensiero e azione”.

A questa visione in Celan si legano sia la convinzione che il linguaggio è forza “creatrice e distruttrice al tempo stesso” sia la necessità di non dividere il “No dal Sì” alfine di “mantenere uniti l’Essere e il Nulla come Non-fondamento e S-ragione”. Anche declinabile come rifiuto della filosofia e dislocazione nella poesia.

A partire dal rapporto di queste due ultime forme, Vincenzo Vitiello effettua un’indagine sulla posizione di Heidegger sul linguaggio esplicitata in “Pensare e poetare” che è, appunto, il terreno di confronto tra Heidegger e Celan.  Per il filosofo il linguaggio  è “la dimensione costitutiva dell’esserci-nel-mondo”, ma è nel linguaggio che Heidegger coglie l’angoscia dell’insignificanza, la quale lo spingerà a volgersi oltre i confini della filosofia, per cercare nella poesia una logica più profonda “capace di dire quello che il linguaggio della scienza non può dire” poiché “vòlta alla determinazione dell’ente in quanto tale e nella sua universalità”.

Heidegger avverte, dunque, l’esigenza di un linguaggio capace di “portare a parola le tonalità emotive fondamentali dell’esperienza non come ‘oggetto’ di discorso, e quindi post factum, ma nell’atto stesso del loro esplicarsi” e riconoscendo alle arti la capacità di rappresentare “la ‘cosa’ singola nell’intreccio di rapporti che eccedono totalmente le analogie della scienza”.

Vitiello individua però l’impossibilità del rapporto fra Celan e Heidegger, poiché quest’ultimo non può che usare il linguaggio da filosofo giungendo ad affermare che “nessuna cosa è dove manca la parola”. “Il linguaggio in Heidegger è “lo spazio che tutto accoglie e pertanto da nulla definito”. E’ quell’universalità pura che non sta “nella scissione amico/nemico, nella separazione vincitori e vinti”.

Una perlustrazione accurata e profondissima nella poesia di Celan, consente a Vitiello di individuare alcuni dei punti cardine della sua poetica che attraverso l’uso della lingua nominale forma mondi, non rinuncia al dialogo, né alla storicità della condizione umana, ma nemmeno si esime dal cercare “un essere-accanto più originario dell’essere-con”.

                                                                                                               Rosa Pierno

Per ulteriori informazioni: http://www.anteremedizioni.it/parola_parola

sabato 5 novembre 2011

Robert Walser “Ritratti di pittori” Adelphi, 2011

                                                                                                               
Robert Walser si avvicina alle opere d’arte da scrittore, nel senso che le opere fungono da pretesto narrativo, da molla che fa scattare l’impulso al racconto e che importa se l’opera nel racconto viene solo nominata se, appunto, poi ciò che segue è un saettante racconto, una scheggia testuale di autonoma valenza, da ascrivere al letterario tout-court.

Con “Ritratti di pittori” Adelphi, 2011, si assiste alla sostituzione incessante di diverse modalità di avvicinamento alle opere, il che non è certo determinato da una rara frequentazione, in cui la mancata familiarità determini una sprovveduta reazione,  anzi la poliedrica resa  è data proprio dalla assidua vicinanza - che il fratello di Robert, artista, contribuisce a rendere priva di soluzione di continuità -  ma resta comunque sorprendente una capacità reattiva sempre diversa.

Sempre è fatta salva la delicatezza estrema dell’autore, che mai  rinchiude l’opera in una morsa interpretativa, anzi, con il camaleontismo messo in atto, svela quello stesso dell’arte, capace di assumere una polisemia che travalica i binari delle epoche storiche.

La divagazione che pare meccanismo assai usato da Walser, anche per costruire testi in cui a tratti si abbia la sensazione, leggendoli, di aver perso il punto di partenza, il pretesto da cui il racconto ha preso le mosse,  e che ci consegna quasi la testimonianza di un’impossibilità di afferrare l’essenza di un’opera d’arte, per cui ci si gira intorno, la si affronta partendo da distantissimo punto, del tutto improvvisamente giunge così vicino all’opera da farci precipitare nel suo punto focale, nell’occhio mentale del pittore, palesandone la cifra.

Si veda la straordinaria restituzione di un quadro di Watteau: “ Costei sembra la gioia e la grazia fatte persona. Di lontano volge a te uno sguardo dolce e discreto, qua vicino, quel che vicino tu vorresti, l’estranea eppur familiare, consueta lontananza”.  Oppure, l’altrettanto deliziosa affermazione generale: “Ma quando comincerò a parlare d’arte? Parlare in sintesi di molti quadri costituisce per me una difficoltà di cui, in un certo senso, mi compiaccio sinceramente”.

Stretto è il legame che sapientemente Robert Walser riesce a istituire tra arte e vita, non isolando, pertanto, l’opera, né raggelandola in una sfera astratta, ma presentandola come vivificata da flussi di simpatia, da correnti emozionali, da percorsi razionali che servono a rimettere al centro alcune questioni altrimenti dismesse: l’utilizzo che facciamo dell’arte e che non riguarda il disinteresse kantiano con cui ci accostiamo a lei, puntando più a mettere in evidenza il ruolo che l’arte può svolgere nella nostra esistenza: evento esistenziale a pieno titolo.  

Disposizione che ci mostra come l’arte riesca a stimolare creatività e intelligenza, emotività e fantasia, che è quanto dire a ricollocarci nel mondo in prima persona, a renderci non passivi e immoti ricettori, offrendo, peraltro, un ventaglio di modi in cui l’opera può essere ricevuta e persino elusa.

Lo stile di Robert Walser, tanto semplice, quanto preciso, tanto leggiadro quanto acuto, sa essere scivoloso, superbamente superficiale fino a provocare vertigini o amorevole e accogliente, divenendo grancassa delle amate opere. In  nessun caso, tuttavia, si potrà dire che questo libro non sia prezioso quanto le opere da lui descritte.
                                                                                                          Rosa Pierno

mercoledì 2 novembre 2011

Mario Quattrucci “Da una lingua marginale” Robin, 2011

La piccola antologia che raccoglie alcune poesie tratte dalla produzione poetica di Mario Quattrucci, arricchita da una compagine critica di notevole profondità (Mario Lunetta, Francesco Muzzioli, Marcello Carlino, Filippo Bettini, Tullio De Mauro, Mario Socrate), copre gli anni che vanno dal 1983 al 2010 e fornisce una vista sulla sua produzione poetica in grado di restituire la ricchissima variazione delle forme forgiate a partire dai contenuti venuti a maturazione nel corso degli anni. Ma, cercando di cogliere lo zoccolo duro di tale intensa attività poetica, colpisce  fin da subito l’ancoraggio a ciò che è quotidiano, esperienziale, poiché è in esso che vengono messe alla prova le idee: la partita che viene giocata non prevede astrazione e generalizzazione, cioè non prevede l’inevitabile semplificazione che uno schema produce sulla realtà. Anche spazio e tempo sono come annegati nel percetto: nessuna impressione, nessun intendimento che non siano connotati/deformati da spazio e tempo: “Si stringeva il passo alle cupe facciate ai chiusi androni impenetrabili e tetri alle finestre // prive di vita dietro  cui indovini i saloni deserti gli oppressivi intarsi  dei soffitti: // dalla via lunga escluso il sole velata incenerita la romana luce….”.  E il tempo, oltre a ciò, alterasse, tirando in lungo e in largo l’immagine, e rendendo non confrontabile quel particolare momento con altri momenti tramite analogico confronto, il che ha anche una conseguenza di non poco rilievo sulla metodologia storica con cui s’interpretano i fatti.  

La perlustrazione effettuata non con il solo sguardo, ma con tutti i sensi, è registrata nella poesia “Variazioni n.24”. ove nella notte l’olfatto assurge a senso primario e ai presenti effluvi si miscelano quelli risalenti dalla memoria a disegnare un orizzonte in cui la tecnologia ha preso il posto della natura, ma nemmeno alla natura è concesso il ruolo di madre salvifica poiché “brulica di colera e anòfele lo stagno / (tra Cape Town e Cristiania, lo stagno ) / pullula di nafta l’acquitrino”. Né è possibile avere fiducia nella cultura, poiché dal suo ventre nascono anche armi di offesa. “Ma il melo, pur ultimo, fiorisce / e l’Albero di Giuda ancora sanguina: / aprile mescola come sempre / memory and desire” è constatazione che la doppia natura dell’uomo è eterna. La riflessione, la consapevolezza che non si perverrà mai a soluzione della sofferenza umana, di cui, peraltro, la poesia è ineguagliata portavoce, non pone freno alla meditazione sulla storia umana che può sempre registrare un miglioramento delle condizioni esistenziali.

In questa macchina scenografica mobilissima, assistiamo a incontri, a sguardi, a pensieri, a considerazioni, tutti convocati a formare le ragioni, i moventi, avendo presente utopico obiettivo, non raggiungibile se non per parziali e imperfetti aggiustamenti. E ciò proiettando non solo nel futuro, ma anche retroattivamente, a rendere conto delle scelte per scoprire dove si annidasse lo smacco, se fosse stato possibile evitare l’errore o dove si annidasse l’illusione: “il mondo è la sostanza e un movimento ricerchi / com’è della natura così per la tua esistenza / ma se un bene dà illuminazioni disinganno rende / che sia nel movimento e in fissità”. La ragione non è messa sul banco degli imputati, perché assieme al sentimento è strumento di liberazione, ma mai posta sul podio della sola positività. In controluce, il riferimento è alla Scuola di Francoforte, ma la cultura filosofica del poeta non si riduce mai a mera proiezione nel tessuto poetico, inducendo a una sua costante verifica.  Persino lo stesso linguaggio, innegabile strumento del poeta, è considerato slabbro da cui fuoriescono progetti e delusioni insieme: “tornano / i nessi del passato con lo svariare dei segni / con quei verbi flessi variati sull’inverso / nel senso controverso di questo amaro  / non amato mio tempo”. Di  tale tormentata ricerca e di tale amaro resoconto se ne fa carico la continua variazione del verso, ora prosciugato ora prosastico, come alla ricerca di una modalità ogni volta tagliata su misura,  ora adeguata alle ragioni storiche ora aderente alle verità individuali.   Diversamente dal pensiero di Rousseau che nega valore e importanza alla libertà dei singoli per affermare invece che l’individuo è libero solo quando aderisce alla volontà sociale, Quattrucci non dismette mai l’attenzione, la cura sollecita portata ai singoli e la sua attenzione ci pare rivolta a una società che non venga più ricomposta come un tutto organico, ma come un’associazione di liberi individui. Popolo è concetto ambiguo e ingannevole, poiché non esiste un popolo, come un tutto distinto dalle parti, distinto dagli individui che lo compongono, secondo la lezione di Norberto Bobbio e contro la stessa visione brechtiana.

“Cercavamo risposte al centro di quell’ombra: / non più agevole e in luce era il cammino, / non più certo il domani del domani”. Una tenace melanconia non consente di trarre favorevoli auspici per il futuro.  È come un avvertimento d’inevitabile pondo, un’esperienza che non è stata mai smentita e che dona tinte dimesse anche alla mai deposta ricerca di ulteriori vie da percorrere, più adeguate. Se l’antologia di testi poetici si configura come un diario esistenziale,  di bilanci e di revisioni, non è valutazione che abbia valore solo personale: è poesia civile,  ove il  rapporto con l’altro traccia un metodo: più che dialettico, di verifica costante e messa in discussione, di condivisione e adesione. In altro modo, di questa poesia in cui la filosofia è stata come decantata, assorbita e messa alla prova sul terreno della prassi politica ed esistenziale, ciò che resta si può vedere come in controluce sul fondo di questi versi: una densità corposa, una consistenza elaboratissima raggiunta tramite lunga decantazione. Ove tale decantazione è ottenuta con l’inevitabile  distacco che la riflessione richiede, quasi estraneità al proprio esistere. L’attenzione continua, il monitoraggio della cronaca, dei giornali, dei mezzi di comunicazione, degli eventi politici, scientifici, culturali, in una sola parola della storia, rappresenta il punto focale  e, inoltre, drammatico perché troppo raramente si può registrare un avanzamento nella libertà e nei diritti. Appena flebili speranze, in questa poesia che raggiunge profondità grigie, vellutate, miti e sofferenti, a tratti incenerite e in cui la cifratura lessicale vale come spietata luce.         
 
Rosa Pierno