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domenica 13 novembre 2011

Vittorio Gregotti “L’architettura di Cézanne” Skira, 2011

Non sorprenda che Vittorio Gregotti, che da sempre ci ha illuminato sulla specificità delle arti, in questo densissimo libretto “ L’architettura di Cézanne, Skira, 2011, voglia istituire un parallelo fra le opere di Cézanne e l’architettura.

Tanto più che in molte parti gli agganci tra quadri e architettura tramati per mezzo dell’analogia risultano a volte labili e come disfacentesi tra le mani. Perché dapprima Gregotti tesse fra i quadri di Cézanne e le architetture coeve sia una sorta di concomitanza sensibile sia uno schizzo che riguarda gli eventi culturali che si sono coagulati durante la vita di Cézanne, tracciando un comune orizzonte storico. E questo insieme, tenue aggregarsi di analogico pescato, è reso, alfine, corposo da una sintesi, quella cézanniana stessa, di “quasi mezzo secolo di lavoro sulla condensazione dell’esperienza del mondo come interrogazioni unitaria della sua costruzione” e in cui l’interesse per la tettonica della natura e per la composizione come struttura fondante del quadro sono focali. E, accanto a ciò, la “ricerca della verità nella sua necessità storica come fondamento di ogni atto creativo che opera nella tradizione europea di considerare la natura” in quanto “elemento dialettico rispetto al costruito”.

Non diversamente, attraverso l’analisi dei testi critici su Cézanne, viene a delinearsi il punto nodale dell’analogia su cui s’incentra l’attenzione dell’architetto: “la capacità di rendere poetica la costruzione stessa del fare, dell’uso degli strumenti della propria pratica, della concatenazione delle parti, del loro paziente rifacimento sino al momento in cui esse appaiono reciprocamente connesse, solidificate senza alternativa possibile” e che, inoltre, Cézanne ha perseguito in solitudine, senza cioè minimamente curarsi delle spinte propulsive della sua epoca (dall’impressionismo all’Architettura Art Nouveau, ad esempio).    

Ma è ferreo Gregotti nel situare paletti, nel porre tracciati e punti prospettici,  nel definire teorico apparato: “Non inganni il riferimento alle arti visive: la relazione che penso di poter stabilire tra la pittura di Cézanne e l’architettura non appartiene né alle somiglianze formali, né alla storia della rappresentazione. Si tratta piuttosto della tensione verso la scoperta dei principi che fondano le geologie dei materiali per mezzo dei quali tali principi sono restituiti: nella pittura del quadro e nel costruito dell’architettura”.

Conscio della difficoltà e dei pericoli insiti nella trasposizione allegorica, essi, tuttavia, non sono considerati ragioni sufficienti per demordere, tant’è che proprio tramite analogia Gregotti individua e in qualche modo rende più estesamente leggibili i parametri che riguardano l’architettura: “appoggiarsi al suolo e alla sua qualità, costruire, erigere come modo di riconoscere l’essenza di un luogo modificandolo e ricucendolo, ristabilendone la conoscenza e su di essa fondare il suo uso”. Ciò costituisce apertura  verso i mezzi della pratica artistica dell’architettura e della loro verifica di fronte alle specificità delle condizioni.    

A dire che il comune fulcro di qualsiasi operazione culturale deve essere ricercato e risiedere nella costruzione, solidissima, della propria pratica effettuata avendo presenti i mezzi specifici della propria arte, che per quello che riguarda il tekton dell’architettura vuol dire porla: “in relazione critica da un lato con le condizioni empiriche che lo fissano qui e ora in un luogo, dall’altro con la risoluzione delle esigenze specifiche, ma anche con le ragioni delle loro profondità storiche, cioè con la condizione dell’esistenza necessaria dell’architettura come modificazione di un esistente”. E dove il legame necessità e verità si estrinseca proprio nella distanza critica nei confronti del prodotto.

In questo modo appare evidentissimo come il raffronto non sia da ricercare formalmente, sebbene ogni somiglianza arricchisca e indichi, ma che il proprio frammento di verità, venga come cavato solo da strenua volontà dal caos della contemporaneità. Si chiarisce così d’un colpo solo che quelle affinità di cui parlavamo all’inizio, seppure esistenti e percepibili, non devono essere confuse con l’unico fatto che può essere riconosciuto come comune a due o più pratiche.

E come soltanto a partire da esso sia possibile ricostruire quella rete di analogie, le uniche valide e capaci di valere come strumento di valutazione di un’opera d’arte. Che, peraltro, in un’epoca che ama, come la nostra, scardinare regole e svolazzare a destra e a manca, è discorso quanto mai importante e insostituibile al fine almeno di non perdersi nel vuoto chiacchiericcio, dispersivo e irrilevante, di una convenzionalità della disobbedienza così onnipresente negli elaborati dell’attuale sistema, poiché è solo: “non interpretando l’originalità come una necessità mercantile, che è possibile farla di  nuovo coincidere con la normalità del lavoro anche artigianale del pittore e dell’architetto nel suo compito di modificazione del contesto come interpretazione civile e profonda delle sue possibilità”.
                                                                                             
                                                                                                                     Rosa Pierno   

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