venerdì 28 novembre 2025

Mostra di Rosella Restante “Latitudine”, hyunnart studio, 03/10-08/11 2025, Roma

 


Qualcosa esplode all’intersezione di quattro fogli di carta Amatruda, depositando un pulviscolo di pigmento acrilico nero e un nugolo di piccole macchie argentee; qualcosa che un istante prima non c’era, ma che si rivela ogni volta che si osserva l’opera, lasciando una macchia indelebile. Non vi è modo di risalire alla scala dell’evento, potrebbe essere uno di quegli accadimenti immortalati dalla macchina fotografica di un quanto di energia, mentre trasportato su grande scala equivarrebbe a una bomba di cannone su una muraglia. E in fondo per la legge analogica non vi sarebbe differenza. Cosicché salta la necessità di riferirsi a una scala nella mostra di Rosella Restante che ha titolo Latitudine. Una marca geografica, dunque, già destituita di senso, seppure appena issata. Allora non dovremmo cercare nemmeno l’esistenza di una cartografia, come motore semantico delle installazioni.

D’altronde, se gli eventi fossero quelli interiori, non sarebbe che una paradossale analogia quella che pretende di definire, nel confronto territoriale, l’interiorità come luogo. Allorquando si sia deposto questo paragone, il riguardante potrà avvedersi che il luogo interiore è privo di coordinate spazio-temporali. Per rinforzare tali concetti, si guardi al libro d’artista Latitudini (Eos Libri d’artista, 2024) che riporta due latitudini (41 48’ 0’’ N e 41 43’ 55” N), non a caso dal significato esistenziale: la località  di nascita dell’artista, Guarcino (FR) e la località dove l’artista vive, Ostia. Un rimando insistito a qualcosa che vacilla, poiché siamo appunto nel cuore di un’analogia paradossale. All’interno delle pagine è presente una prima elaborazione con traiettorie procurate da graffi sulla carta, ove, nell’intersezione delle pagine, un batuffolo di candido kapok si situa al centro dell’area dispiegata, mentre nella seconda elaborazione vi è una partitura graffiata ordinata e perfettamente parallela e in cima ad essa una nuvola di kapok che non manca di aggettarvi un’ombreggiatura. Il materiale viene certamente utilizzato per la sua leggerezza, l’aerea spugnosità e il fitto incrocio di trame. È, di fatto, un volume, proietta ombre, sembra sollevarsi dal suo alloggiamento; schiacciato, ritorna alla forma primigenia, appena si aprano le pagine, nel suo stato di maggiore enfasi. È una macchina adescatrice di spazio. A dimostrazione che lo spazio viene creato. Il tempo potrebbe essere catturato dalla linearità, dallo sviluppo del processo ritmico che le linee graffiate sulla carta recano in sé. L’occhio ne segue l’andamento e riconosce il tempo.


Conoscendo da anni il lavoro di Rosella Restante, le sue installazioni che si addentrano come gangli ferrosi nello spazio reale delle sale espositive, comprendo che, ciò nonostante, debbo abbandonare l’aggancio all’inesistenza delle caratteristiche spaziali afferenti allo spazio reale. L’artista lavora come se esse fossero realmente innervate nella mente umana, come se fossero reali  le solide basi precategoriali di Kant. Dunque, è necessario cercare di valutare tutti i lavori presenti nella mostra per tentare di trarne qualcosa che consenta di uscire dall’impasse. Trattasi di paradosso con cui venire a più miti consigli.


L’installazione realizzata con un tubo di cartone dipinto di nero che appare sezionato per tutta la sua lunghezza, affinché si veda l’imbottitura realizzata col kapok, è strettamente collegata all’opera in cui la partitura è creata con travi di legno a sezione quadrata dipinte di nero, discontinua in alcuni tratti, ove le masse di kapok si distribuiscono come un rampicante sulla parete della galleria e sulle barre. Le due opere contribuiscono a rendere tremuli e instabili i concetti di duro e di morbido. Di fatto la loro separazione è ineludibile, ma il fatto che esistano i concetti di realtà esterna e interna, che si abbia a che fare con la durezza del tubo e con la morbidezza del kapok, induce al ripescaggio di una medietà da non scartare. Analogicamente, ancora una volta potrebbe voler dire che aspetto esteriore (scorza, corpo, rivestimento) e materia interna (linfa, viscere, polpa) di fatto costituiscano un organismo oppure un qualsiasi corpo materiale che deve essere valutato nella sua complessità, ossia non deve essere scisso. A questo punto, è il concetto di spazio che si rovescia, che da esterno diventa interno, nello stesso modo che avviene visitando un’architettura. 

Nell’opera a parete, che consta di 10 disegni, un arco, una trave posta in verticale e un arco con una trave aggettante, tutti rigorosamente neri, intersecano le partiture graffiate sulla carta, a rimarcare la visione sempre architettonica e spaziale dell’artista. Un altro splendido libro, Non ancora e già, con testo di Mimmo Grasso per le edizioni Eos, 2012, presenta nella prima pagina un cerchio stellato proiettante una sua orma striata, mentre nel secondo foglio un segno nero si assottiglia via via che procede verso il bordo in alto della pagina, gettando adeguata ombra. Tali proiezioni istituiscono un mancamento all’interno della materia stessa. La materia può svanire, ma non trascina con sé l’annullamento dello spazio.

Il colloquio tra le righe che la carta graffiata offre come struttura ordinata e l’elemento che instaura con la sua sola presenza il contraddittorio rimena, a mio avviso, nella palude delle interferenze. Quanto gli elementi dell’architettura hanno in comune con il concetto di linea retta o curva? Qui a soccorrermi è proprio il canale che l’incisione procura, giacché la carta, installata sulla parete, non si offre più come piano, ma come volume essa stessa. Pertanto è con spirito positivo, costruttivo, che Restante affronta le questioni spaziali. Lo spazio artistico è sempre costruito dall’uomo. Esattamente come quello architettonico. Siamo nell’ambito della rappresentazione e dunque della finzione, ma ivi lo spazio è ineludibile. Ecco che forse qualche dado è tratto. Non di spazio interiore, non di spazio reale, ma di spazio creativo si tratta, ossia di spazio immaginato che, quando si travasi nell’oggetto d’arte, è spazio reale per antonomasia. Se si avesse il dubbio che lo spazio interiore sia coincidente con lo spazio immaginato si cadrebbe in una risibile questione, giacché come afferma Wittgenstein, lo spazio interiore non esiste che nella convenzione della sua espressione (nel linguaggio o nell’arte). Sicché è proprio il concetto di interiorità che va eliminato. Col che si chiude il cerchio, una delle amate figure di Rosella Restante, ossia l’elaborazione artistica dello spazio è il dato più limpido che si trae dalle installazioni e dai libri d’artista, presentati come capitoli di un unico grande libro, nella mostra.

Al modo in cui una partitura struttura il suono donandogli una posizione, allo stesso modo Rosella Restante dà corpo allo spazio, lo rende una realtà esperienziale, ci dona la possibilità di sentirlo non interiormente. Di condividerlo con lei in un oggetto d’arte.


                                           Rosa Pierno





giovedì 20 novembre 2025

Mostra di Beatrice Meoni “Fuoriscena”, galleria z2o Sara Zanin, Roma, 19/9-8/11 2025

 


Beatrice Meoni, Fuoriscena, 2025, olio su tavola, cm. 150 x 150. Courtesy of the artist & z2o Sara Zanin



Visitando la mostra delle opere ad olio su tavola di Beatrice Meoni, Fuoriscena, tenutasi presso la galleria z2o Sara Zanin, Roma, dal 19 settembre all’8 novembre 2025, si ha la sensazione di entrare, grazie a ciascun quadro, in uno spazio dilatato, riverberante e dissuasore al contempo, tramite punti di accesso privilegiati: fondali e tende sembrano creare un punto di contatto con il restante spazio, non come un dritto e un rovescio, ma come un suo prolungamento imprevedibile e radicalmente diverso, se non altro perché una scenografia è una rappresentazione, mentre l’ambiente in cui si dispongono gli oggetti quotidiani – sia esso una galleria d’arte, uno studio, una casa, un giardino – è un luogo che si situa al di fuori della raffigurazione pittorica. Parlo di qualcosa che somiglia a una scenografia perché è l’ambito nel quale si muove professionalmente Beatrice Meoni e ne resta qualche residuo nelle immagini da lei create. Mentre si è dinanzi a queste tavole vi è, dunque, come un surplus interpretativo affiorante, poiché gran parte della superficie lignea è chiamata a raffigurare un fondale, un lontano, mentre, in primo piano si stagliano alcuni eventi o cose. L’opera Alcune parole guidano oltre (2025) fa pensare a un possibile proseguimento, addentrandosi nella selva o nel bosco, che sfocia in un oltre. In basso, un paio di scarponi, prelievo diretto da Van Gogh, una tavolozza e un quaderno con una penna, ossia gli strumenti rappresentativi per antonomasia (pittura, scrittura e memoria della tradizione). Fuoriscena (2025) mostra in maniera esemplare come sono concepiti questi oggetti/eventi. Sono accadimenti situati sul limine della riconoscibilità: oggetti spesso smembrati che non hanno un contorno. Sono frammenti di cose in fieri. Macchie di colore che pulsano, occupando i due stati della materia e della forma, ma quasi mai contemporaneamente. Vi si possono riconoscere il piede di una statua, il braccio di una bambola, un cappello, un vaso e, al di fuori della finestra, colline e prati, ma, nel marasma generale, nessun elemento iconico assume una posizione trainante. Il figurativo vi resta impigliato per qualche secondo e poi prevalgono la ricomposizione e la scomposizione continue che impediscono si formi una stabile figura. Ecco, perché li definisco cose/eventi: è proprio dell’evento ciò che accade, che può essere già avvenuto o potrà avvenire. Le opere di Beatrice Meoni pretendono una lunga osservazione, chiedono allo sguardo di ripartire e di sostare, di vagare e di affossarsi, in un oscillante andirivieni. L’insieme cromatico si snoda fra colori prossimi e adiacenti, distanti e opposti, tutti accomunati da una leggerezza e da una mancanza di profondità, da cui l’ombra sembra per sempre interdetta. Le cromìe si schiariscono e si scuriscono, non per una preminenza di parti ombreggiate nella stanza, ma per moto autonomo: per memoria. Sicché quello dipinto è un paesaggio interiore. E che sia un movimento esclusivamente mentale, lo conferma il titolo dell’opera, Risacca (2025), che ci rammenta il movimento permanente e ritmico delle onde. Ma è un moto che riconduce anche al movimento della memoria, la quale ci riporta virtualmente agli occhi brani visivi. L’immersione nelle tonalità presenti nelle opere (crema, giallo paglierino, verde pistacchio, grigio-azzurro, ocra, pervinca), tutte rese più aeree e vacue, vanno a delineare oggetti desostanziati: l’artista è certamente una grandissima colorista. Suppellettili, occhiali, vasi e tendaggi riemergono e si disciolgono come tesori che l’onda è restia a depositare sulla rena. I tendaggi, poi, creano accessi delimitati, vietati allo sguardo. Eppure sappiamo che l’estensione esiste anche al di là di essi. Anzi, sono segnalatori della presenza di uno spazio a prescindere dalla costruzione bidimensionale dell’opera. Le tende sono, pertanto, il primo segnale dell’incombenza di una tridimensionalità sottaciuta. Ma penso anche a quei meravigliosi teli di lino che si sollevano con i refoli di aria provenienti dall’esterno ne Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Non solo tendaggi, ma biancheria da toeletta, lini, cotoni rigati. Essi testimoniano che la pittura di Beatrice Meoni non è su tela, ma che la tela è un elemento ineludibile (simbolo della pittura), così come i tappeti, all’interno della casa (si vedano In studio, bandiera bianca, 2025, e Le mie bandiere, 2025). Questi ultimi segnalano aree, porzioni inattingibili o, all’inverso, gli unici luoghi esistenziali dove trova collocazione il corpo assente. Solo mentalmente proiettabile. I tappeti, con i loro disegni floreali, costituiscono il punto d’unione tra l’oggetto di uso quotidiano e l’oggetto artistico (in particolare, ci sovvengono Matisse e Klimt). Le superfici si presentano con una vibratilità imperterrita nel lavorìo incessante delle frequenze cromatiche che trascorrono sulla superficie. Tonalità paiono sovrapporsi o trasparire in alcuni punti o sono attraversate da tocchi fugaci come un branco di alici. Corpuscoli aggallanti di colore, con moti inesausti, in correnti traverse, designano gli oggetti come se fossero intrappolati in un flusso. Da segnalare è anche l’aspetto sontuosamente opaco della superficie: il colore ad olio vi appare come non avente più spessore; uno scorrimento di particelle senza volume; salvo in alcuni casi, allorquando le sporgenze del pigmento servono a segnalare, per diretta contrapposizione, la soave scivolosità delle cose l’una nell’altra: la loro immaterialità. A volte, si ha l’impressione che il dettaglio sia più essenziale della linea di contorno, la quale, in genere, consente il riconoscimento dell’oggetto rappresentato. È la caratterizzazione della materia a rivelarsi più importante dell’oggetto, ma subito questa peculiarità si risolve in instabilità. La preminenza della sostanza non può inficiare la continuità della superficie. Nondimeno, tale superficie è mossa dalla frammentazione del colore. 

A riprova, si osservi il caso contrario, in Passacaglia degli oggetti (2024): quando la superficie è bloccata dal nero, le suppellettili si presentano rafferme, prive di vibrazioni e moti, acquisendo una sfocatura  lacustre, da immagine riverberata in un’acqua stagna. Gli oggetti acquisiscono i riflessi del fondale: un teschio, un limone, una statuina, un busto, un divano-sarcofago, un’automobilina divengono rammemorativi di un passato atemporale.

È preponderante l’uso dei dettagli cromatici qualora vi sia qualcosa di difficile da mettere a fuoco, come ne I bulbi di Ottobre (2024) e ne Il capanno, costruzioni (2025), ove è il titolo a guidare l’osservatore. La cromatica tessitura di fatto istituisce l’ambiguità della superficie che in alcune aree è deformata dalla tridimensionalità occasionale. Poco importa, difatti, che solo alcuni utensili sembrino patire i dettami della prospettiva o che, come accade in Coltivare il tempo (2025), l’intero spazio sia ridotto a un’unica superficie e solo un oggetto, come in alcuni quadri rinascimentali, è poggiato su una simulata cornice aggettante, designante l’unica area tridimensionale. Beatrice Meoni utilizza l’area del figurativo con una libertà sensazionale, rendendo anche un costante omaggio alla tradizione. Le splendide nature morte annegate in tali superfici, coi vasi dall’ineffabile eleganza giapponese, i ventagli, le spazzole, i cactus, gli utensili per il trucco, trattano lo spazio come un foglio per appunti. L’intimità di Schiele, le superfici disomogenee di Kandinskij illuminano diversi punti nella vastità della mente di chi osserva e subito si spengono, per sfolgorare in altri, ricordandoci che la pittura è appunto il miracolo della compresenza di tutte le opere. Come non ricordare in Ausflug Volo fuori (2025) la pervasiva presenza di Bonnard: si tratta di un vero e proprio omaggio al pittore anche attraverso i temi condivisi (la donna in giardino dinanzi a una tavola apparecchiata). L’aggiunta di una piccola tavola incollata sulla tavola stessa, come un quadro nel quadro, alla maniera shakespeariana, ha la medesima origine, ma tradotta nel medium utilizzato da Meoni. 

Una serie tematica riguardante la casa sull’albero, all’interno della mostra, indica quella che appare come una modalità dell’anima. La casa è ovunque la persona si trovi a proprio agio e, per Beatrice Meoni, l’albero sembra profilarsi come una casa d’elezione. La figura ha un aspetto fantasmatico, quasi che il soggetto non si vedesse mai vivere mentre vive, e tuttavia se la memoria cancella i tratti somatici, si sforza, al contempo, di riportare con esattezza i valori cromatici: vividi e motili; insopprimibili. Un autoritratto fenomenale: nebbioso, fantasmagorico e preciso!


           Rosa Pierno




mercoledì 12 novembre 2025

Marina Bindella “Gli occhi del cielo”, spazio espositivo Blocco 13, Roma, dal 18/10 al 18/11 2025

 


Nella mostra di Marina Bindella Gli occhi del cielo, allo spazio espositivo galleria Blocco 13, l’opera principale, che rappresenta la carta del cielo, introietta e sussume  tutto lo spazio espositivo. Ora è ad essa che si attribuisce l’estensione spaziale. Come a dire che il vasto cielo coincide con la sua rappresentazione e non con la realtà, che è stata solo un pretesto per la sua concezione. Nessuna mimesi; una sostituzione esemplare. Ad essa d’ora in poi si rivolgerà il fruitore per percorrere lo spazio, per farne esperienza.

Se la relazione fra il macrocosmo e il microcosmo appare una concezione culturale inamovibile, tant’è che la mostra si intitola, appunto, Gli occhi del cielo, dove gli astri equivalgono a pupille e le orbite dei pianeti alle palpebre, si deduce che le analogie recano con loro, a grappolo, altre analogie, variamente annidate in quelle che appaiono caselle cilestri e caselle tinte di rosa antico. Ne offriamo solo qualche accenno: tali similitudini sono solo apparentemente coppie di opposti; in realtà, designano relazioni che si dipanano senza soluzioni di continuità, ma hanno la forma discreta che è tipica della griglia. Cosicché forma/colore, materia/fantasma, opacità/trasparenza, rilievo/superficie piatta si distinguono per la loro posizione, ma non si distinguono nella loro opposizione. Sono appunto analogie, non concetti.

L’opera è formata da otto pannelli quadrati costruiti mediante un cartone ondulato incollato su tela. Alle regolarità parallele del cartone ondulato, Marina Bindella ha imposto linee verticali che si susseguono sviluppando dei multipli, le cui dimensioni diverse segnano la scala della rappresentazione. Equivalgono a porzioni diverse di un medesimo oggetto visto da distanze differenti. Ciò sembrerebbe far pensare che l’infinito sia richiamato dal finito: basterebbe allontanarsi per vedere sempre di più. Tuttavia, esiste il finito tra due numeri finiti e Achille raggiunge la tartaruga. Ma l’effetto è che il concetto dell’infinito è così evocato; ora è interno al quadro; è stato intrappolato come da una carta moschicida, al modo stesso dello sguardo. 

Le scansioni verticali e orizzontali prefigurano la presenza della geometria come se essa fosse quell’intervento, tutto umano, che incredibilmente quadra col mondo, individuando un ennesimo paradosso. Le vasche, intrappolate in codeste griglie, ricevono colore, ma intercettando le linee curve, che tracciano orbite e astri, si arricchiscono di ulteriori confini al proprio interno. La superficie che possiede rilievi mimimi non sembra più averne dal punto di vista visivo: essi sono rilevabili solo al tatto. Ecco una realtà nascosta all’occhio che osserva l’opera e questa volta l’occhio non è quello del cielo, ma del fruitore. 

Nondimeno, l’artista è sempre in agguato e mediante la creazione dispone del suo personale creato. È il mondo ideato, quello che infilza analogie e si pone al posto delle cose stesse. È il mondo della variazione seriale, ove se le ombre calano è per via dell’intensificarsi di puntini, un nugolo imprecisato con estensione nulla che si dispone come una nuvola di gas nei cieli iperurani. Il colore stesso è celestiale: scelto fra una gamma di celesti intensi o labili e di rosa carmini che impallidiscono fino allo svanimento. Anche il colore, dunque, crea un’oscillazione tra questi estremi cromatici e batte un tempo come se si trattasse solo di segnalare la sua stessa presenza o assenza, scansionato, a sua volta, sui ritmi precisi e ineludibili delle verticali. Il colore a questo punto oppone pulsioni alla scansione ritmica delle verticali. Il pigmento (acrilico o acquarello), a cui è stata sottratta la forma, avendogli donato l’artista una struttura per le variazioni cromatiche, si neutralizza assumendo solo una delle due variabili a sua disposizione: puro colore o forma colorata.  L’oscillazione celeste/rosa, serve a dotare di  profondità l’interno della casella, variazione che opera a livello strutturale. E, a un altro livello, funziona come un codice a tre valori: variazione susseguente, variazione precedente, a cui si aggiunge la variazione cromatica. L’occhio s’incapsula nelle cellette, mentre un meccanismo a grande scala lo trascina nelle orbite ellittiche del meccanismo che richiama quell’orologio a cui spesso è stato paragonato il cosmo. 

Il tempo, esaltato dal ritmo geometrico, pure, si stempera in relazione alle diverse distanze da cui può essere rilevato. Non c’entra il concetto di reversibilità; è semplicemente qualcosa di relativo a un contesto, a una distanza. L’emotività assume lo stesso valore: sempre attiva, ma la sua punta si presenta arrotondata, addolcita dall’erosione a cui il tempo l’ha sottoposta e tuttavia persistente quanto il respiro. Non sfugge, certamente, il lavoro, durato un anno, necessario alla realizzazione dell’opera.

Resta la meraviglia per un’opera che di sicuro rivela come la sua costruzione  sia incernierata a concetti filosofici specifici. C’era uno scavo ancora da compiere a partire da Dorazio, qualcosa da recuperare per mostrare che cosa farsene della variazione. Come costruire letteralmente mondi, anziché lacerti; visioni anziché paradigmi.


                  Rosa Pierno


giovedì 6 novembre 2025

Marco Palladini “Noi siamo altri. Materiali per una diegesi familiare”, Zona 2025

 


Un’autobiografia costruita attraverso la storia della propria famiglia, a mosaico, come precisa l’autore, Marco Palladini, è Noi siamo altri. Materiali per una diegesi familiare, Zona 2025. Essendo lo scrittore, oramai, l’unico superstite del nucleo familiare, sono i documenti, le videoregistrazioni e gli oggetti a innescare una memoria che è la vera protagonista del romanzo. Palladini, però, ci avvisa immantinente che «come l’Io, pure il Noi è una finzione, e che il rammemorare è poi anche, pur sempre, un inventare, un immaginare una o più storie in cui credendo di vedere noi stessi, in realtà vediamo altri da noi, pur se in qualche modo essi ci concernono o riflettono». A complicare la faccenda è, nel romanzo, il soggetto, il quale si scinde in autore, commentatore, critico, storico. La serie di modelli che si possono enucleare dal testo, difatti, si riassorbono in una fisionomia indeterminabile. E, pur tuttavia, l’impossibilità di definire l’informe Io non è che il risultato di una posizione, poiché, in altri momenti, da altre specole, si potrebbe capovolgere l’aforisma di Wilde e proclamare che solo gli imbecilli cambiano sempre idea, come ci rammenta Palladini in difesa di una coerenza d’impianto teorica con cui di fatto lo scrittore redige, ciò nonostante, l’Io e che vale come postura etica. 

Nell’universo letterario palladiniano, le regole mitiche della fiction letteraria non corrispondono a quelle immaginarie della tradizione. Il testo non identifica né lo stato di coscienza individuale dello scrittore né l’opera stessa, la quale dovrebbe esistere come oggetto estetico che persista nella coscienza di tutta la collettività. Ma anche quest’ultima appare fantasmatica. Vi è un susseguirsi di notizie storicizzate, vi è il loro sviluppo, vi sono protagonisti che, di volta in volta, vengono ritagliati in funzione del ruolo: il padre antifascista, il fratello che soffre di schizofrenia, la madre sfuggente, la nonna capace di comprenderlo più della madre.  Rispetto ai fatti storici, l’individuo sembra avere a sua disposizione solo due stati: aderisce o non aderisce empaticamente  alla persona che gli sta dinanzi? Dai doveri alla liberalità, dal seguire la Chiesa al manifestare, ogni presenza familiare sembra essere determinata dallo sfondo, dal contesto. Interrogare gli oggetti, le fotografie, i video che i parenti hanno prodotto si rivela a tratti deludente: non sempre se ne trae qualcosa di significativo. È come se la vita fosse non interpretabile: stare al sole, nuotare, correre nel prato, abbracciare la mamma o stare a cavalcioni del papà sembrano essere solo quello che sono: istanti di vita. Soltanto la memoria può ricamarci sopra, credendo persino a quello che non è stato ovvero che esistesse qualcosa che non si è potuto decifrare. Palladini pensa che la filosofia marxiana non serva a «penetrare nelle latebre della psiche individuale e collettiva»: con essa non si può spiegare la malattia mentale o l’anaffettività di una persona. Il richiamo alla catena filogenetica familiare appare come l’elemento che non può mancare, ma che attesta più dell’esistenza di un mistero, acuendolo, che di una soluzione.

Anche il rifiuto di escludere le illusioni fa parte della ricchezza complessiva del quadro composto da Palladini. Una rigida adesione a ideologie, pratiche e prassi di taglio scientifico, più rigide e settarie soprattutto quando sono veicolate come insegnamento da elargire alle masse (ossia il lato peggiore della scienza) risultano per lui inadeguate e censorie. Si veda il giudizio sulla legge Basaglia: «benemerita per un verso, per avere abolito i manicomi lager, disastrosa per un altro verso per avere indotto a credere che i malati di mente sono vittime della società e che, liberati, potessero guarire da soli. Pazzia su pazzia mi verrebbe da commentare». 

Il romanzo di Marco Palladini è costruito utilizzando generi diversi: l’autobiografia, l’intervista, il saggio storico, la poesia, il resoconto di viaggio, la critica letteraria, il testo teatrale. Con tutte queste forme, lo scrittore cerca di assediare il vero, a tratti, accerchiandolo con una sorta di movimento panoramico da cui sparare le sue cartucce come se avesse di fronte anziché il padre, diversi bersagli: l’uomo che ha vissuto durante il fascismo, che è stato prigioniero di guerra, il genitore, il marito, il libertario, lo studente, il lavoratore. È una sorta di assonometria esplosa. Vi si possono vedere contemporaneamente aspetti esterni (politici, sociali, culturali) e aspetti interiori. Tuttavia, la sensazione finale è la persistente fuggevolezza del risultato. È un uomo di cui il lettore, ora, ritiene alcune informazioni, anche molto dettagliate, ma mai sufficienti a fargli affermare di conoscerlo. A dare questa sensazione di indeterminatezza è proprio l’analisi spinta fino al minimo dettaglio, la successione dei punti di vista, la maniacalità della ricerca. È come se il giocattolo romanzo venisse rotto per vedere che cosa c’è dentro. Romanzo non come mera registrazione dell’esistente. Difatti, quel che deve essere decifrato è lo stile dell’opera letteraria (scritture, forme retoriche, modi di  narrazione, tecniche di percezione), in quanto scienza dell’espressione e in quanto caratterizzante l’individuo mediante l’insieme dei tratti formali con cui l’autore sceglie di strutturare la sua opera: sono le libertà che egli si prende all’interno del sistema lingua. Lo stile è la variante messa in atto dallo scrittore. L. Spitzer, in Stilistica e linguistica, scrive che: «Lo stile linguistico è l’estrinsecazione biologicamente necessaria dell’anima individuale». Forse è questo il punto focale dell’autobiografia palladiniana. Indagine biologica di un’anima. Se, per restare ancora con Spitzer, si ritiene che a ogni stato psichico normale corrisponda nel campo espressivo uno scarto nell’uso linguistico, ecco che allora se redigessimo un elenco di tali scarti, in Noi siamo altri, avremmo un’autobiografia dello scrittore, molto più concreta.


Il mezzo per ricostruire il funzionamento o il senso di qualsiasi analisi, ossia la conoscenza, è specificatamente letterario. È la letteratura lo strumento per interpretare; con essa si sceglie e si enumera, si dispone e si svolge. Per quanto realistico, il resoconto è sempre insufficiente e non risponde se non con la sua stessa evidenza. Il libro è tutto votato alla psicologia collettiva, all’interrelazione tra serie di eventi, più o meno correlati in una cornice a volte geografica, a volte culturale, a volte storica. Sono dunque porzioni che creano, anche per sovrapposizione, un’idea di totalità, ma sempre relativa a un quadro specifico. Lo scrittore viene rimandato da se stesso alla limitatezza antropologica della sua cultura, alla sovradeterminazione del proprio operato, al suo fare storia, ma una storia inconsapevole, nel senso marxiano per cui gli esseri umani fanno la storia, ma non sanno di farla.

Marco Palladini costringe il lettore a essere la sua memoria. La memoria se non è condivisa sembra inutile, non funzionale. Idea prettamente politica. Il lettore non deve spazientirsi dinanzi alla mole di informazioni del tutto inutili al prosieguo della narrazione. Deve sentire il peso dell’accumulo,  di ogni cosa nell’esistenza. Non è esattamente un inno d’amore per la memoria; è più il racconto dell’ossessione del ricordare, del non saper rinunciare al dettaglio, del tenere tutto lì, in ordine, sul tavolo. È in questo modo che Palladini pensa di poter conoscere se stesso  ovvero l’Altro da noi: «Potrei dire che questo è il senso del mio essere scrittore e, quindi, pure di questo libro che è rampollato fuori quasi da solo, obbedendo a un impulso iniziale che mi induceva a chiedermi a che punto ero della mia esistenza». La dose di casualità di un testo fa parte per dir così della sua necessità. È qualcosa che si può chiamare sia caso sia destino. Non è il dubbio a essere il protagonista a latere di questo romanzo per frammenti; è la consapevolezza di non sapere e di non volersi censurare. Il dettaglio insignificante, così come l’esistenza di cose a cui non diamo valore, che eppure risiedono nell’universo, richiede rispetto, accoglienza e cura. Ogni scrittore, in fondo, scrive per oggettivare la storia. L’esistenza e la conoscenza vi appaiono alla fine solo per accantonamento dell’aver fatto, letto, scritto, viaggiato, dialogato, collezionato. Null’altro si potrebbe dire. A null’altro si potrebbe lasciare spazio, dopo che si è così saggiamente lasciato spazio all’imponderabile di accadere. La costrizione biologica, familiare, sociale, economica, culturale, costituisce certamente una sponda, un parapetto da cui, però, guardare verso l’oltre.


La memoria deve valere, come nel caso dell’intervista al padre, antifascista e prigioniero di guerra, in quanto recupero testimoniale di un’esperienza ancora utile, ancora appartenente all’attuale orizzonte di vita, soprattutto poiché, oggi, ogni prospettiva storica appare annebbiata da una revisione correttiva di giudizi consolidati che hanno come scopo il raggiungimento di un moderatismo omologante: deve, insomma, valere come atto educativo. Tal che, quando non scrive di vicende che coinvolgono le persone del proprio nucleo familiare, Palladini sembra trascrivere dati e notizie, reperendole direttamente dai giornali dell’epoca in una volontà testimoniale che travalica l’azione distruttiva del tempo. Allo stesso modo, ciò  vale per quel riguarda la memoria delle sue scritture sceniche e delle sue performance vocali.


Se la classe borghese sceglie dal reale solo ciò che giustifica le sue pretese idealistiche, lungi dal portar con sé un’autocritica, e se gli scrittori ribelli, dichiarando ciò che la borghesia vuole nascondere, compiono un atto morale, il realismo socialista trasforma la morale in politica, cogliendo la struttura profonda di una società, ossia trascrivendo solo le cose importanti. «Il realismo è l’arte delle significazioni giuste», annota R. Barthes in Scritti. Naturalmente, vanno cercati i modi per descrivere la continuità stessa del reale, la sua superficie, senza cadere nella descrizione idealista borghese. Ci sono stati vari tentativi: il surrealismo ha cercato la moltiplicazione del senso degli oggetti; l’esistenzialismo ha tentato di rarefare la significazione e la corrente del nouveau roman ha provato con una letteratura della pura constatazione. Per Barthes il dilemma si risolve partendo dal realismo socialista e cercando significazioni che non siano quelle borghesi. Su codesta via, si collocano le opere di Palladini, poiché egli è alla ricerca di ciò che ha valore e che sia, insieme, intimamente connesso con quanto è non borghese. Il problema della storia, che il romanzo a frammenti di Palladini eleva a soggetto, è già risolto in quanto l’opera è il prodotto della storia e, al contempo, è la resistenza a questa storia. La scelta della forma-romanzo, per frammenti, per stralci in sé autonomi, per ricicli, per appunti diaristici e per interviste, in Palladini, è prima di tutto messa in discussione del romanzo stesso (personaggio, intreccio, psicologia, bello stile). Tale forma non appartiene, per Lukács, alla forma tragica o epica, ma è la storia di una ricerca di valori autentici in un mondo inautentico. Attesta di un percorso che può dar luogo a una nuova rinascita, giacché una delle funzioni della letteratura è di presentare agli esseri umani l’immagine vissuta dell’altro. Solo in questo frangente si rende visibile la collettività, come comunità di lettori (giacché persino nel nucleo familiare, istanze, esigenze, cultura, desideri sono inconfrontabili).


Unico valore rimasto come residuo della tradizione umanistica è l’esibizione dei segni della comunicazione letteraria o del loro accumulo, sicché la letteratura somiglia sempre di più a una gigantesca risorsa per le discipline più varie: la filosofia, il teatro, la musica, la psicanalisi, la società. Vengono chiamate in causa categorie che sembrano collidere: abbiamo già visto come, da una parte, Palladini ricostruisce doviziosamente la storia e la cronaca di un periodo che abbraccia la famiglia dell’autore fino ai nonni e, dall’altra, il lettore è avvertito che si tratta di una restituzione inventata. L’apparente contraddizione è sufficiente a far uscire il lettore dalla credulità: egli è così  sempre consapevole che si tratta della forma-romanzo. Ritengo, pertanto, che il miglior lettore di codesto libro di Palladini sia quello che non lo legge come una mera autobiografia, immersa nell’attualità contemporanea, bensì quello che non crede a Palladini pedissequo narratore delle proprie vicende labirintico-esistenziali, non fosse altro perché ciascuno ha una propria visione dell’attualità o delle vicende storiche, ma che va a guardare sotto al tappeto, ritrovandovi una forma letteraria particolare. È essa che restituisce significatività agli eventi e alle persone. Che ricostruisce qualcosa di comune. Che è critica attuale allo stato di cose esistente.

Così, in finale, se Palladini ammette il naufragio del tentativo dell’autobiografia, così come della scrittura storica, non lo fa per azzerarne il valore, o mortificare il tentativo di narrare, bensì per aprire all’esistenza di tesi complesse, affinché si veda il retro delle cose, l’esistenza di altre facce della medaglia, la fallacia delle tesi a buon mercato, l’importanza di restare nello stallo con consapevolezza e non crederlo il migliore dei mondi possibili.


Rosa Pierno