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lunedì 30 novembre 2015

Da “La creta indocile”, 2015, inediti di Ivano Mugnaini

 

Una incoercibile inclinazione a narrare, in Ivano Mugnaini, che non si riduce nemmeno sotto la lente focale della poesia, la quale necessariamente richiede, in quanto forma specifica, un adattamento. E, difatti, il poeta sceglie  una singolare macchina per affrontare il cambio di scala rispetto a una prosa assiduamente frequentata: genera una reazione chimica incendiaria nel cuore delle cose. Il gioco reclama altissima precisione, pretende nientemeno che sia raggiunta prioritariamente l’individuazione di un’essenza, ma la   verità, attenzione, non dovrà risiederà in essa, bensì soltanto nella sua inversione concettuale. Il concetto è raggiunto metaforicamente, mentre l’inversione erode le sue fondamenta. Entrambi, l’essenza e il suo contrario, sono dichiaratamente un miraggio, non si afferrano se non tramite un fisico mezzo e solo per qualche istante, per cui non si avrà che il tempo di veder affiorare il dubbio, non certo lo sviluppo di una disamina. Nella costellazione, alcune coppie risultano essere più frequenti: il tema del passato assume il ruolo di figura negativa nel mazzo  di carte, quella dei presagi mortali che avvelenano l’avvenire, in quanto è sempre nel presente che non si avverte a sufficienza la minaccia  del baratro. Tuttavia, nel pur tentato dialogo, passato e presente non trovano un tavolo comune, la possibilità di uno scambio, poiché essi si presentano indistintamente. Nella wunderkammer di Mugnaini, dunque, assieme all’accumulo di oggetti materiali, c’è anche spazio per la dispersione e la diffrazione. Il corpo è, al contempo, ciò che fonda/affonda senza saldare nessuna coppia oppositiva. Oggetto fra oggetti, esso appare quasi un’oasi rispetto ai dilemmi posti dalla mente, ma anche fonte di una impossibile soddisfazione, ça va sans dire.



   La stazione

Giunto in anticipo di fronte
a questa stazione, fermo,
senza aspettare alcun treno, non vorrei,
stavolta, che arrivasse alla mente
una poesia.
Vorrei che da quella porta rugginosa
dell'atrio uscisse trafelata la carne
imperfetta di te, accesa, sudata,
rossa di follia.
O, almeno,
su quel vetro polveroso mezzo frantumato
vorrei la pace assurda di un riflesso
di cui non conosco l'origine.
La quiete afosa
del silenzio.


   * * *

   L'età più oscura

  L'età più oscura è oggi, il sole non scalda
l'aria ebbra di furori, la corsa nel petto
non si affianca alla strada, ai passi
di nani impettiti, alle rughe, all'attimo
passato come un grido, una voce che non ci ha
ferito né accarezzato.
  Eppure il foglio che abbiamo davanti è ancora
bianco, immacolato, quasi. Un dono, o forse
una sfida, o solo un segno, un indizio.
C'è, nelle cose, in questo niente che si eterna,
uno sbocco, una via di fuga, un inizio senza fine.
E nulla, neppure l'abisso di giorni e nottate,
dita lente di bambine che pettinano
orride bambole di plastica, potrà strapparci
al nodo vitale del dubbio, la corda del funambolo
o dell'impiccato, l'idea che il passato è un cappio
che non ci ha ucciso, ci ha lasciato ossa e fiato
per respirare, e un presente che non si cura
del tonfo nel baratro.


   * * *

                                                           La Storia, disse Stephen,
                                                          è un incubo da cui sto
                                                          cercando di svegliarmi

                                                                         J. Joyce, Ulysses, cap. I


   Segni scuri

Ci sono segni scuri di corpi su brande
                                    basse e legni consunti di armadi
su cui è scavata l'impronta di dita,
risa, furia vana, richiesta di protezione,
miserie esposte alla polvere e all'aria.
Ogni impronta è la tua, aderisce
al petto, alle gambe, alla schiena,
è sudore, saliva sgorgata anche da te,
nel mistero di una foto sulla calce
di un muro, graffito che scivola rapido
confondendo futuro e passato.
Eppure non tutto è perfetto,
c'è un brandello di stoffa in più
o in meno, un chiodo tenace
lacera solo te, nitido, lucente,
imperscrutabile.

   * * *
  
  Il non amore

Forse proprio quando comprendi meno
scorgi una chiave, ed è consolazione
sapere che niente si apre, nessuno
squarcio di luce; tace il mondo;
solo il tempo si muove assieme al sangue
intravisto in fotogrammi ingurgitati
assieme a un piatto di cibo che scordi
prima di averlo metabolizzato.
Tra foga e vomito, fame a apatia,
diventi silenzio che strozza senza rabbia
la parola, passato che non sai scacciare.
Perdi il senso dello sguardo, la mano,
il sudore. La voce si insinua nella gabbia
e la frantuma, bocca spalancata, schiuma
di folle che sa bene quanto sia amaro
il non amore.


giovedì 26 novembre 2015

Jean-Pierre Vernant "Edipo senza complesso", Mimesis, 2013


Se si potesse dire di un testo di Vernant che è un testo comico, lo si potrebbe dire solo pensando al livello puro e altissimo, stratosferico, di raffinatissima ironia raggiunto da Voltaire e che il malcapitato caduto sotto codesti appuntiti ferri, inoltre, sia Freud è doppiamente gustoso. Naturalmente, Vernant non ha la fantasmagorica fantasia, né l'arguzia irriverente e guascona, del filosofo francese, ma con Freud il suo spirito si arroventa, s'indigna per tanta superficialità, muovendosi a inchiodarlo con argomentate prove; senza scampo lo insegue fino a rintuzzargli ogni manchevolezza, non essendogli più sufficienti le gigantesche, per avere osato tanto ardire nel foraggiare la sua tesi con affermazioni arbitrarie.

Tutto parte con l'iniziale assunzione che il mito di Edipo celi in sé un unico significato: quello che uccidendo suo padre, sposando sua madre egli esaudisca il desiderio presente nell'infanzia di tutti noi. Ora, il brevissimo testo dello storico, nel tracciare gli errori compiuti da Freud nella sua pretesa di ridurre il mito a un solo significato - sempreché poi esso sia esatto e non lo è come vedremo - ci consente di poter anche ripercorrere quelle che sono le domande metodologiche costantemente attive nell'analisi che Vernant effettua sugli oggetti storici. La prima, fondamentale, é: in che cosa un'opera letteraria appartenente alla cultura dell'Atene del V secolo A.C. può confermare le osservazioni di un medico dell'inizi del XX secolo? Freud naturalmente non si è posto la domanda perché per lui non costituiva un problema entrare a gamba tesa in un dominio letterario e irrigidirne il portato semantico fino alla paralisi, trasbordando, oltretutto, tale assunzione a garanzia di universale validità alle sue teorie psicologie.

Ponendosi, dunque, al di fuori di qualsiasi tracciato seguito dall'ellenista e dallo storico, Freud si avvia a millantare come verità un'illazione, la quale, appunto, non ha nessun fondamento. Sia perché la sua costruzione è ottenuta con un circolo vizioso, in cui il testo è "interpretato con riferimento onirico degli spettatori d'oggi" sia perché  proietta sull'opera un senso "indipendentemente dal suo contesto socio-culturale". Il che pone in posizione antitetica la prospettiva freudiana e la psicologia storica. Ricordiamo per inciso che la psicologia storica non costruisce né una conoscenza dell'attuale universalizzato, né quella di una sola civiltà comune a tutti gli esseri umani, né quella di una psiche globale.

Separare dunque l'opera di Sofocle L'Edipo re dal contesto storico, sociale e mentale in cui è maturata vuol dire snaturare irreversibilmente il suo significato ed è esattamente quello che compie Freud. Vernant, passando in rassegna i temi del sogno, della nascita e dell'apogeo del teatro e della tragedia, la lingua, la differenza tra il piano umano e divino, il senso tragico della responsabilità, delinea la complessità del testo letterario in oggetto  e dichiara che  se invece si procedesse, come Freud, "mediante semplificazioni e riduzioni successive di tutta la mitologia greca a uno schema leggendario particolare" con la pretesa, inoltre, che il significato imposto a una valga per tutte, allora si costringerebbe la materia leggendaria a piegarsi alle esigenze del modello psicanalitico.

Vernant smonta passo dopo passo la macchina freudiana sino a giungere alla lapidaria affermazione: "Ci sembra al contrario che le ragioni di Sofocle siano estranee alla psicologia del profondo". Insomma, nessuna di tutte le affermazioni freudiane, nella sua interpretazione del testo sofocleo, risponde a una verità del testo, anzi lo storico francese dimostra che il testo è stato bellamente travisato, soprattutto da Didier Anziau, il quale "tenta di rifare, con i dati del 1966, il lavoro cominciato da Freud all'inizio del secolo".

L'invito conclusivo  rivolto da Vernant: "si potrebbe proporre agli psicanalisti di farsi più storici" è un'altra massima da appendere sopra ogni lettino in cui si pratichi lo smercio di universalizzanti verità. Insomma, Edipo era un uomo senza complessi e questa la si può considerare una fra le battute più folgoranti della storia del Novecento.                          

                                                                                                          Rosa Pierno

sabato 21 novembre 2015

Claudia Zironi “fantasmi, spettri, schermi, avatar e altri sogni”, Inedito



La scena che si svolge su una spiaggia, i moti atomistici o stellari che circondano i corpi come graziosi memento, le tracce e le traiettorie che sono quelle delle parole lanciate come fossero strali capaci di arpionare i pianeti: le poesie di Claudia Zironi paiono risalire dal libro di Lucrezio e condensare il passato col presente, e al medesimo modo il cosmico con il terrestre. Ma uno solo è il sentimento in grado di fare da collante a questi eterogenei elementi e idee, di incendiare, di dare propulsione: l’amore. Naturalmente, è un amore che quasi surclassa il proprio oggetto e riempie di sé l’universo intero. Siamo comunque in presenza di qualcosa che collassa, che non regge all’urto, altrimenti per quale ragione non si resterebbe aderenti alla pelle dell’altro? Una profonda insoddisfazione spinge a cercare un’armonia superiore, la ragione profonda dell’essere. Amore, dunque, come origine e come approdo. Ma a quale stazione? E, in ogni caso, non è l’artista che si rende simile al dio, ma colui che ama. La separazione dei piani è una costante almeno quanto la consapevolezza che pensarli uniti, coestensivi è un paradossale obiettivo. Forse, più dissipazione ha l’uomo in sorta e più  l’amore appare come lo strumento atto a rimarcare l’anelito e lo smacco. Eppure, perdita e smacco divini!


soli iscritti tra raggi o soli
velati, tengo le scorze strette
tra brillamenti e derive dove
tu. siamo assoluti d'assurdo,
paradossi di condanne, amori
e ancora. rotiamo torno torno
all'asse
imperscrutabile, inverso. sei bello.
e unico ti sgretolo, traccio un solco
cavo, ti raggiungo sul confine

limpido animale

***
nominami, dì il mio nome.
poi pronuncia il tuo

un diverso dire propongo
scollegato dalla ragione
proprio di divino amore.
non ripetere od usare
bensì ex novo, dal vecchio

nominare.

***
utensili naturali
conficcati nella carne
siamo pure storia
d'un'evoluzione
che lascia inermi
spoglie sulle spiagge
lucore d'ossa
che sognano altre ossa
ché non possono star sole
a farsi sabbia.
***
parliamo di un'ontologia a un'ape
citiamo l’essere guardando il cielo
con un telescopio. pensiamo
a un dio che a propria immagine
crei un batterio.
guardiamo al tempo
se ne siamo capaci.
consideriamo l’etica e la morale
per la loro durata e il loro effetto.
contempliamo l’inesistenza
poi, produciamo arte.
***
sfuggendo alla storia
aliteremo sulla cenere scopriremo
veri corpi arroventati nell'inerzia
saranno baci statici a piacerci
senza uno scopo in espansione
una meccanica infinita, attorno a noi.

non ce ne accorgeremo.

***
davanti alle vetrine Socrate
avrebbe saputo cosa dire.
balbettando io ne bevo
senza morire d’aspra luce
di un saldo entro le facce
degli automi. ma tu prendimi
- che nessuno ha davvero voglia
di esser solo – prendimi,
portami nella derisione
del tuo amore oltre un dio
di morta plastica e i manichini.
montiamo in vita a una spiaggia
di ciottoli roventi, stellari, scalzi
per danzare
ogni cara ipotesi di salva distruzione
della razza. poi restiamo lì,
penetrati, ceneri abbracciate
come inerti, frantumate ossa
per millenni, in felice dissipazione.

lunedì 16 novembre 2015

"Quale poesia oggi?" di Ennio Abate


Orbilius* vs Samizdat e viceversa. Narratorio



Orbilius –

Samizdat mi parlava continuamente di questi *moltinpoesia*. Sì, sì, gli dicevo, è vero che sono spuntati come funghi dopo che nel tuo Paese – in ritardo, eh! - c’erano state (quasi insieme) scolarizzazione di massa e acculturazione provocata da giornali, radio e televisione. E posso anche ammettere che questa gente comune non è più analfabeta o semianalfabeta come lo erano i loro nonni e spesso i loro genitori. Ma che novità è mai questa? Scribacchiano come possono, rovistano tra le vaghe memorie che gli restano del mondo contadino e artigiano. O si perdono nelle pieghe del loro *io* alle prese con la vita quotidiana e sentimentale. Che poi non è neppure più quella dei piccoli borghesi di una volta. Almeno quelli erano vicini alle élites politiche e culturali (Chiesa, Partiti) e capaci di un certo contegno e stile. Ma ora, che sbracamento! Tutti scrivono, tutti scrivono “poesia”, tutti vogliono pubblicare! Quanti ne avevo visti di questi “bassi cetomedisti” alle presentazioni di libri, ai reading di poesie, nelle redazioni di riviste e rivistine o, più tardi, nelle “foto-santini” sui social network (blog, siti, FB, ecc.). Che ridicoli, servili e spesso presuntuosi imitatori! Entravano in questi “bazar della Cultura” come prima andavano a messa o nelle sezioni dei partiti. Coltivando micragnosi e petulanti i loro minuscoli sogni di riscatto! E sempre pronti a farsi solleticare i cuoricini dall’ultima novità editoriale, dall’ultimo film vincitore a Venezia o a Cannes. O a sorbirsi seminari, convegni, conferenze, apparizioni fulminee di *maîtres à penser*, di cui annotavano – sempre ossequiosi! - anche le sputacchiate. Per citarle subito dopo su FB.
A me non parevano un granché. Anzi, a tirar fuori il rospo, proprio non li sopportavo. Non avevano idea di cosa fosse stata, e non solo in questo Paese, la Poesia! Ne avevano appena intravisto il Seno, appunto, sui banchi di scuola, mostratogli da insegnanti bacchettoni e pure loro sempre meno preparati. Eppure, dopo quella Visione, si ostinavano a masturbarsi e a produrre surrogati rimasticati. «Simil-poesia», «righe a capo», «parapoesia»: ah, quanto lungimiranti erano stati Raboni, Majorino e Kemeny! Che, sì, incontravano questa pletora di sgomitanti ogni tanto, ma con discrezione, concedendosi solo per qualche ora ai loro corteggiamenti. E perciò davo ragione a tutti quelli che con giusto sprezzo li definivano *sottobosco * o *ceto medio semicolto*. Per me era chiaro che il loro destino sarebbe stato quello di rimanere sulla soglia della Vera Cultura. A orecchiare, commentare, fare magari anche la domandina intelligente o provocatoria a quelli che davvero di Poesia se ne intendevano. Ed era del tutto giusto che, di fronte alla pressione di tale marmaglia, i Veri e Pochi Poeti adottassero la strategia del custode kafkiano di «Davanti alla legge»: tenerli a bada, tenerli nell’incertezza; e, allo stesso tempo, lanciargli di tanto in tanto anche qualche cifrato invito. (Si «potrà però entrare più tardi. – È possibile, dice il custode, - ma ora no -»).
Samizdat, secondo me e malgrado i miei avvertimenti, si era mescolato troppo con loro e prendeva sul serio quei loro confusi bisogni. A volte mi pareva davvero uno di loro. Miope e sciocco come loro, insomma. E, pur considerandolo mio amico, sentivo che cedeva alle loro bassezze. Non aveva la postura giusta! S’immaginava cose ingenue, infantili, utopistiche, fuori dal mondo. Pensava che quella gente comune potesse *maturare*! E prima o poi produrre qualcosa di buono e di suo, *in proprio*. Magari pure con l’aiuto dei Veri e Pochi Poeti, che secondo lui non dovevano chiudersi nelle loro Case della Poesia. Ma potevano mai quei malcapitati esercitare le stesse funzioni – studiare, immaginare, ideare, oggettivare in opere, divulgare - dei Veri e Pochi Poeti, cioè di quella èlite necessariamente ristretta e iperselezionata che il nostro Sistema – l’unico esistente e reale - assorbe e riconosce e giustamente onora (e paga)? Impossibile. Samizdat proprio non capiva certe cose! Che, ad esempio, era un bene che quei suoi *moltinpoesia* rimanessero ai margini, in armonia con le loro condizioni economicamente precarie o fragilmente garantite; e che esaurissero il meglio delle loro energie per nutrirsi, pagare le loro abitazioni, amoreggiare e fare, sì, anche i “poeti”, ma al massimo la domenica. Né intendeva che era sempre un bene che fossero alla mercé dei Veri e Pochi Poeti (e dei Veri e Pochi editori), che li tirassero invano per la giacca e che invano li scegliessero come santi protettori, guide, guru, maestri. A forza di sgomitare e magari lavorare gratis prima o poi avrebbero imparato la lezione: che erano troppi a scribacchiare, che dovevano stare al loro posto e che solo ogni tanto si poteva pescare in mezzo a loro il beniamino degli Dei da cooptare. Per dimostrare che anche dalla marmaglia può sorgere miracolosamente il Meglio e che il Sistema era sano, realistico e persino generoso. Ma a patto che i restanti rimanessero buoni buoni, cioè pubblico (possibilmente pagante).
Come s’illudeva il povero Samizdat a pensare che da questa gente comune sarebbe uscita prima o poi quella che lui – un’altra sua fissa! - chiamava *poesia esodante*. Ma dove voleva esodare, andare, migrare? Non capiva che non c’era più nessun *fuori*? Che non era più neppure pensabile una “comunità altra” o più “civile” (neppure di soli poeti)? Ancora attaccato alle defunte idee comuniste dello Scriba, riteneva irrinunciabile la *funzione critica universale* della poesia! Che in passato sarebbe stata svolta - diceva - dagli antenati dei *moltinpoesia* (quali poi?); e che ora essi avrebbero dovuto ereditare come compito. Che “cattivo soggetto” s’era inventato! Questa gente comune, questi “bassi cetomedisti”, più o meno poetanti e scribacchianti, mai avrebbero preso il posto dei mitici Soggetti ritenuti in passato “forti” (quali la classe operaia o “i lavoratori” o “il Partito” e – loro complementare – gli “intellettuali”)! Io glielo ripetevo: ma non vedi che i tuoi stessi amici e conoscenti hanno tutti ripiegato su forme di collaborazione con le Istituzioni che volevano “abbattere” o “cambiare”? Io di questi *moltinpoesia* decisi ad esodare (o che avessero maturato il bisogno di farlo, staccandosi dalle Istituzioni) proprio non ne scorgevo. E poi: per andare dove? Qual era la Terra Promessa che Samizdat indicava? Dov’erano i Mosè e compagnia bella? Infine se - pensa un po’! – Samizdat stesso ammetteva che di Terra Promessa non se vedeva all’orizzonte e che la strada da imboccare bisognasse costruirsela da soli (sì, magari al buio, perché non se ne vedeva né la direzione né lo sbocco!) sai che incoraggiamento passava alla sua pigra marmaglia!
* Ho rubato il personaggio di Orbilius a Carlo Oliva (1943-2012), che avevo intervistato sulla sua «Lettera a una studentessa». (Cfr. Immigratorio.wordpress: Su Carlo Oliva. Lettera a una studentessa)
 Samizdat -
«Questa nostra dottrina sarà forse accolta con un sorriso da coloro che, riservando alla massa del popolo i vizi propri di tutti i mortali, dicono che il volgo è in tutto sregolato, che fa paura se non ha paura, che la plebe o serve da schiava o domina da padrona, che non è fatta per la verità, che non ha giudizio, ecc. Invece la natura è una sola ed è comune a tutti… è identica in tutti: tutti insuperbiscono del dominio; tutti fanno paura se non hanno paura, e ovunque la verità è più o meno calpestata dai cattivi o dagli ignavi, specie là dove il potere è nelle mani di uno o di pochi che nell’istruire i giudizi non hanno di mira la giustizia o la verità, ma la consistenza dei patrimoni».

(Baruch Spinoza, «Trattato politico»)

Orbilius, cazzo! Dal tuo Olimpo di cartapesta proprio non vuoi uscire! E vabbè sputare sulle ebbrezze rivoluzionarie del ’68-’69. Che mente sobria e solida la tua! Costruitasi ben prima e lontano da quel casino. In cenacoli ristretti, fianco a fianco dei grandi Maestri. Coi quali analizzasti, ancor prima che venissero pubblicati, versi divenuti famosi. Che privilegio rispetto a noi! Come Faust hai letto tutti i libri, tu! E ora che in tanti (sempre «troppi» per te!) abbiamo preteso non solo di leggere e scrivere ma di affannarci nel sacro pomerio della Poesia, per te è davvero troppo. Ti capisco! Ci puoi accettare nella tua Casa della Poesia solo come pubblico, come dilettanti, come «scriventi versi». Cioè dopo aver messo bene in chiaro che dobbiamo restare là in basso - tre o quattro gradini - rispetto al piedistallo dove tu traffichi con gli Scrittori e i Poeti «veri».
«Nebulosa poetante? Ma di che cianci?» mi dicevi. Soltanto stelle e stelline meritano la tua attenzione. Eh, sì, la tua filosofia! La selezione della specie (non solo poetica) da secoli procede secondo natura ed esalta le qualità di pochi individui, i Migliori. Gli altri,– consapevoli o inconsapevoli, ingenui o furbastri – tramerebbero (ahi, Nietzsche!) per appiattire i Migliori sulla propria condizione di mediocri! Piaccia o meno, le cose stanno così anche in poesia, borbottavi sornione. Ci sono individui le cui opere hanno un alto valore poetico (e intellettuale e morale) e tanti che sono e saranno mediocri, conformisti, scribacchini, imitatori, epigoni, ripetitori, gregari in ogni caso. Sei rimasto fermo lì: le masse possono essere plasmate, mai plasmare il mondo.
Non sai nulla delle modifiche prodotte (anche in poesia) da quelli che chiami ‘masse’, soltanto perché a te lontani e in fondo ignoti. E figurati se potevi dare credito ai miei argomenti: che il Novecento è stato il secolo del risveglio delle masse; che nell’arte e in poesia le avanguardie hanno pur dato voce alla mentalità e alla sensibilità dei molti (io poi che ho in mente sempre la Bauhaus!); che la psicoanalisi ha svelato un inconscio (cioè la parte sommersa dell’iceberg, come dire: i molti, gli anonimi, gli ignoti) addirittura più importante del conscio (la punta, come dire: i pochi); e che in politica individui e collettività si sono scontrati proprio come adesso facciamo noi due - io, Samizdat, e tu, Orbilius – gli un contro l’altri armati. L’asservimento dei molti col fascismo-nazismo? Macché, fu rivoluzione! Il tentativo di liberazione dei molti nell’ipotesi del socialismo/comunismo? Rovine da dimenticare! Tanto si sa come sono finite queste cose. Coi totalitarismi, come si dice adesso. E il discorso sarebbe chiuso per sempre.
Eppure, malgrado contraccolpi e tragedie del secolo concluso, i molti non me li cancellerai per tornare a imporre il primato dei pochi. Ho cercato di farti ragionare. Ti ho chiesto: «Lo vogliamo affrontare anche in poesia questo conflitto tra pochi e molti?». Ti ho proposto persino un’alleanza. Sì, pensavo che potessimo ritentare assieme un incontro tra i filosofi – mettiamo quelli come te - e i tonti - mettiamo quelli come me. Come diceva pure il Vecchio Scriba. Anche in poesia? E perché no. Quando te lo proposi, mi rispondesti schernendo: «Ma se fu lo stesso Scriba a dire che «non esiste il Petrarca per tutti!». «L’avete mantenuta voi aristocratica! Ma non è detto che spadroneggerete sempre», ti ribattei. E chiudemmo lì. Insomma, da un certo orecchio non ci senti. E allora, stufo delle tue crestomazie, dei tuoi canoni, dei sottili distinguo fra maggiori e minori di cui ti diletti, stufo di sentirti proclamare in astratto il valore universale della Grande Poesia, della Bellezza, della Parola e subito dopo vederti intrigare nei giochi sporchi delle cooptazioni, dei favoritismi, dei nepotismi, della mafiosità a favore di alcune cordate e ai danni di altre (altro che Geni e Grandi! L’orticello della Poesia, lo gestite tribalmente!), ti ho salutato, te e i tuoi Grandi.
Sì, me ne resterò nella nebulosa che tu neppure vedi. Dove tutto è difficile da chiarire, certo. Cosa significa *stare coi moltinpoesia* (la mia scommessa!). E *essere moltinpoesia*? E quanti modi di esserlo ci sono? Ah, sì, sì, quante ambivalenze anche nei *moltinpoesia*! Altro che *Quarto Stato scrivente e poetante che avanza come nel quadro di Pellizza da Volpedo verso il Sol dell’avvenire della Poesia Futura!* Appena ho invitato *alcuni dei refusés* (quelli che incontravo e che a me parevano così classificabili, eh!) a staccarsi dalle tue conventicole o dalle Case della Poesia, eccoli traccheggiare o sparire per non compromettersi con le cattive compagnie. E dopo qualche anno ecco i nomi di uno o due di loro nella tua “prestigiosa” collana di Poesia o tra gli ospiti d’onore di non so quale Festival della Poesia. La tua nefasta influenza, Orbilius, continua e non è facile scalzarla! Eh, sì, di individualismo, di boria, di micromafiosità ce n’è sia tra i *moltinpoesia* che tra i tuoi *pochinpoesia*!
Ma allora - mi dirai - se la stoffa umana è questa, che senso ha scegliere a favore dei *moltinpoesia*? Sta’ con noi. Lascia correre storto il mondo, che è così e sempre sarà così! Pentiti! (Qui musica dal «Don Giovanni» di Mozart…). No, caro il mio commendatore, non mi arrendo e non te la do per vita! Rimuginerò da solo o con pochi. Scandaglierò i segnali contraddittori che manderanno i miei *moltinpoesia* e i tuoi *pochinpoesia*. Vi seguirò uno per uno e come insiemi. Interrogherò pure i *moltinpoesia* e i *pochinpoesia* che si dibattono dentro di me. Ci vorrà tempo. Prima o poi si riuscirà a capire meglio le ragioni profonde che ci fanno azzuffare. Non sputerò mai però, come fai tu, sulla vitalità sgangherata, grottesca, persino oscena dei molti. (Quella che Pasolini mostrava ne «La ricotta»; quella degli affamati che arraffano il cibo da cui sono stati a lungo esclusi e rischiano un’indigestione o perfino di crepare). Insistendo nell’esercizio del fare poesia, fosse pure condotto in modi infantili o a casaccio, diventeremo più saggi ed accorti, meno sregolati e caotici. Scaveremo più direttamente e da vicino nei bisogni, desideri e problemi, che tu hai ridefinito esclusivamente dal tuo punto di vista elitario. Continuereremo - pedagogici e militanti come Gianmario Lucini - a far salire i *moltinpoesia* sulle zattere di fortuna (blog, siti, riviste, piccole case editrici) che riusciremo ad approntare.
Ci vorrà tempo. Ma perché tutte queste trasformazioni del mondo attorno a noi e delle forme del lavoro umano (impresa a rete, telelavoro, ecc.) dovremmo lasciarle nelle mani tue e dei tuoi simili? Se il linguaggio stesso sta diventando elemento produttivo, come dicono, non potrebbe venirne qualcosa di buono - un arricchimento comunicativo e conoscitivo - anche per i *moltinpoesia*? Al tuo «Sveglia! Comandiamo (come sempre) noi pochi!» rispondo ancora con un «Bisogna sognare e svegliarsi», perché abbiamo bisogno di entrambe le cose. E perciò il mio sogno da sveglio in poesia sia questo: che fra riuscito e non riuscito, fra livelli qualitativamente alti, medi, bassi, ci possano essere continui rimandi (da sviluppare, non da isolare, staccando di netto l’eccellente dal mediocre, come tu fai); che si costruiscano altre gerarchie, diverse però dalle tue sempre e solo elitarie; che ci sia un ordine del discorso costruito sui molti e non sui pochi; che ‘eccellenza’ e ‘mediocrità’ possano avere un senso includente e non escludente; che si arrivi a un linguaggio comune (ma non semplificato e inerte, come quello dei mass media); che la storia della letteratura e poesia italiana faccia i conti con quelle di altri popoli e, tanto per cominciare, con le figure – reali e mentali - dei migranti, che c’interrogano (e interrogano il nostro passato) tenendo a mente le ferite che portano sulla pelle e nella memoria; che si avvii, malgrado le enormi resistenze da parte loro e da parte nostra, un grande esercizio di traduzione reciproca.
So una cosa, Orbilius: persino nei poeti classici e non, morti o viventi, noti e meno noti, è possibile rintracciare questa necessità di *essere molti in poesia* che tu neghi. Persino nella «Commedia» Dante! Che pur con una tensione tutta medioevale, voleva condividere con quante più persone possibili il suo «pane degli angeli». Il suo io era già, nei modi possibili ai suoi tempi, un io-noi. Toh, non sarà stato per caso un antenato del *moltinpoesia*? Concludo. Resto acrobata su un filo. Tra i realisti-realisti come te, che vanno sempre “al sodo” e mi vorrebbero tirar giù con domande del tipo: «Ma adesso dovremmo lasciar perdere Dante o Zanzotto e metterci a leggere le pseudopoesie scritte da gente ignota e comune?» e i *moltinpoesia* limacciosi che salivano appena tu parli, Orbilius, perché tu sei amico e mentore dei «veri Poeti» presenti sul Mercato. Io intanto riprendo in mano «L’Italia sotto la neve» di Roberto Roversi, che tutta la vita diffuse i suoi versi (allora ciclostilati) rigorosamente «fuori commercio». E me la rido di te, Orbilius, e dei tanti che si sono “buttati in poesia” solo per cancellare le tracce del loro passato di “innovatori” o di “rivoluzionari” in un indecente *autodafé* per ottenere un loculo nella tua postmoderna corporazione-fortezza.
                                                                                           Ennio Abate


lunedì 9 novembre 2015

Gilberto Isella “Da un nulla imperfetto, lo sguardo”. Fotografie di Daria Caverzasio


“MIRA”, ti sussurrava uno di loro. E tu anagrammavi “ARMI”.
Ma era armato il tuo occhio, o in disarmo la sua mira?

Un vigile disarmo,  chiarori d’alba sospesi.
Qualcuno varca il cancello, col senso  di colpa nascosto sotto le palpebre.
Non saprà di averlo varcato, siccome il cancello è cancellazione, sfaglio di  presenze. Nemmeno una  frontiera, il suo cigolare è tra i carboni bianchi di uno spazio illimite. “Entrare e uscire, una sola cosa”, dice. Porta negli occhi metallo stracciato.

Il passaggio, se avviene, è verso luoghi dove ogni testimonianza si riduce ad attriti minimali, vicenda di un nulla imperfetto.
Un vibrare, allora? Ma per quale punto generante, per quale tardivo erompere della materia?
Prevalgono emulsioni, creme lattee colate da sequenze di iridi che, infittitesi ormai, misconoscono l’ebbrezza dell’inoculazione.
Punteggiature d’insetti vibrano, è vero, nel reciproco compiacersi.  E tuttavia  creano  stalli, attratte dai teleri del fosco. Polverina che rimane sulle ciglia.

Lanciano occhiate, i luoghi, simili a quelle dei fiori che stanno per esaurire il loro viatico. Spandono pannelli di immagini fuggitive, che appena insorte si fondono in gocce lunghe, pendenze speculari.
Navicelle cromatiche nel vento. Ne rimane l’ambiguo arcobaleno, il vagabondare entro festoni di paesaggio in divenire, per un osteso succedersi di  fiati e umori.
Qualcosa che ha a che vedere con la magia: il vedere dei morti. Armato, in disarmo.

Qualcuno varca il cancello, un’ipotesi. Volti trapassati,  maschere algide prese da un gioco che soltanto loro padroneggiano.
Hanno occhiaie riverse nel notturno, concavità impregnate di aglio passo, sgomento. Risibili astuzie per scansare figure armate, incombenti piaghe.
E in quell’oscuro s’indovinano transiti,  promesse di profondità ignote,  visioni che bruciano ovvietà.

Volti scaturiti da terre vischiose, o ricoperti di pellicole e piume, e che talora lingueggiano come memorie ondulanti. Il pensiero li caccia, li dispensa.
Sembrano fare a meno di profili e margini, quasi a difesa dell’imponderabile.  Emanazioni, vien da dire, del corpo vitale e amoroso d’un tempo, adesso affidato all’intermittenza del visibile. Simulacri, entità che in ogni modo non divorzieranno dalla luce. Ectoplasmi fotografici.

 “Una sorta di piccolo simulacro emesso dall’oggetto, che io chiamerei volentieri lo Spectrum della Fotografia, dato che attraverso la sua radice questa parola mantiene un rapporto con lo ‘spettacolo’ aggiungendovi quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto”. (Roland Barthes)

Facce puntellate da lampade, votive gibigianne. Carnee trasparenze applicate a marmi concavi, rientrati. I seni posticci della vista? Il retrattile artificio di un’ovulazione?
Nulla supporre. L’Altro si limita a svolgere il suo corpo etereo, affidandone minuti fiocchi a pedine che scivoleranno su liquide scacchiere di riflessi.
Sguardi moltiplicati, l’infinitezza di un unico sguardo diffuso. Poiché l’occhio del morto si dilata, crea aloni e luminelli che si propagano alle cose d’intorno, e nel contempo conquista a sé la loro onnivora superficie riverberante.

A ore alterne, nelle periferie del viso s’installa un porticato, un campanile, perfino il cancello che ancora rimugina, entro reticoli violagrigio, l’enigma della vita. La vita in collusione con la morte.
Memorie, leggende di rivisitazioni. Candelabri per fiamme smozzicate. Prisco cenobio espelle opalescenze, velature.

Uno spicchio di cielo fa breccia nella testa, un’infilata di colonne risucchia nella sua prospettiva la mente  assopita. Dove l’antica peste del tempo depone una guaina: lamento di macchie, l’involversi della bellezza.

Il tranquillo fluire e rifluire di larve, rese iridescenti dalla contiguità, disegna l’interfaccia tra il qui e i panneggi che  avvolgono il lontano.
Panneggi che spingono ai margini il volto defunto, e allo stesso tempo ne fanno il loro complemento più prezioso.
Cancelli fluenti, emblemi di quel nulla imperfetto intorno al quale la vista inventa i suoi anagrammi. Armeranno, per commutabili prove, il vuoto.

                                                                Gilberto Isella





 Il testo, in altra versione, è apparso in “Ticinosette” 44, 30.10.15