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martedì 27 ottobre 2015

"Lunedì o Martedì" di Virginia Woolf tradotto da Federica Galetto



                 
                  
                   Lunedì o Martedì

Pigro e indifferente, nello scuotere disinvolto lo spazio dalle sue ali, sicuro del suo andare, l’airone passa sopra la chiesa, sotto al cielo.
Bianco e distante, assorto in sé stesso, copre e scopre incessante il cielo, si sposta e rimane. Un lago? Cancella le sue rive! Una montagna?  Oh, perfetto – il sole dorato sui suoi pendii. Dietro questa si eclissa. E poi felci, o piume bianche, per sempre, per sempre –
Desiderare la verità, attenderla,  laboriosamente distillare poche parole, per sempre desiderare – ( un grido si leva da sinistra, un altro da destra. Ruote stridono divergenti. Conglomerati di Omnibus in conflitto) – desiderare per sempre – (l’orologio assevera con dodici rintocchi che è mezzogiorno; la luce emana lame dorate; bambini sciamano) –
per sempre desiderare la verità. Rossa è la volta; monete pendono dagli alberi;  il fumo si trascina su per i camini; latrati, urla, il grido “Ferro da vendere”- e la verità?
Irraggiati in un punto, piedi di uomo e di donna, incrostati di nero o d’oro – (Questo tempo nebbioso – Zucchero? No, grazie – Il Commonwealth del futuro) - il caminetto lancia dardi di luce e arrossa la stanza,  ma non le figure scure e i loro occhi lucenti, mentre fuori un autocarro scarica, Miss Vattelapesca beve il tè al suo tavolo, e la vetrina preserva cappotti di pelliccia –
Ostentata, leggera come una foglia, accumulata negli angoli, soffiata tra le ruote, schizzata d’argento, a casa o non a casa, raccolta, sparpagliata, frantumata in singole scaglie, spazzata su, giù, strappata, affondata, composta – e la verità?
Ora accanto al fuoco ricordare sulla bianco riquadro di marmo. Da profondità d’avorio parole in crescendo diffondono la loro nerezza, sbocciano e penetrano. Caduto il libro;
nella fiamma, nel fumo, nelle scintille fugaci – o viaggiando ora, il quadrato di marmo a pendere, minareti al di sotto e mari dell’India, mentre lo spazio corre azzurro e le stelle splendono – la verità? Contentezza della vicinanza?
Pigro e indifferente l’airone ritorna; il cielo vela le sue stelle; poi le scopre.

Virginia Woolf, Monday or Tuesday, traduzione di Federica Galetto

domenica 25 ottobre 2015

John David O’Brien alla galleria d’arte La Nube di Oort, Roma




Nelle trame  ottenute o rappresentate per via scultorea, con l’inserto di oggetti quotidiani su vassoi sovrapposti, il gioco è ancora quello della sovrapposizione/connotazione di molteplici ramificazioni semantiche, ove la linea nera tracciata sul piano vitreo di ciascuna mensola dice ‘segno’ per via difettiva, ricordandoci in John David O’Brien, artista americano di formazione italiana, ritorna a Rom, fra compagni di strada e maestri in un omaggio che è tanto grato quanto generoso. Se, dunque, su una delle pareti della galleria si possono ammirare le opere di Bentivoglio, Botta, Calavalle, Colazzo, D’Alonzo, Napoleone, Porcari, Predominato e Strazza, come di Adest, Habenicht, Hudson, Santarromana, Ripple, Roden, Tse, Wedemeyer, che in mirabile colloquio formano una ragnatela di rimandi e suggestioni con le opere di O’Brien, dall’altra rimarcano anche, inevitabilmente,  la specificità dell’opera dell’artista americano.

Dalla passione per l’incisione o per il segno ossessivamente perseguito, quando si tratta di riprodurre una carta urbanistica, si passa alla derubricazione di tale tecnica o della cartografia con un atto inequivocabile, significativo di per sé, perché del segno, O’Brien traccia fin da subito, non il suo grado zero, ma la moltiplicazione del significato. Così le trame del senso sono quelle realmente rappresentate, ancor più di quelle del significante, il qualetal guisa che il segno vive di questa  doppia natura di veicolo del senso, spesso non avente di per sé spessore o materia. A riprova, piccole sculture volanti (metallo tagliato col laser) testimoniano del triplice gioco istituito tra figura, pieno/vuoto e ombra proiettata. Apparendo evidente che le determinazioni denotative,  così bellamente sparse, a loro volta si affidano per la loro fissione a uno spettatore non ingenuo,  che ama essere sorpreso e divertito, poiché meraviglia non vuole separarsi da arte, in gioco effettivamente colto e avvertito.

Una disposizione che si coglie anche nelle affascinanti opere che replicano le piante urbanistiche di famose città (Napoli, New York, Roma, San Diego), interamente tracciate con un rapidograph, ma dove il segno generatore è una sorta di quadratino che assemblato in varie disposizioni mima le diverse realtà metropolitane. Qui, il gioco scoperto della mimesi è sabotato: la pianta è solo apparentemente rappresentativa della realtà della città. L’assemblaggio/lego è una sorta anch’essa di accumulo e dislocazione variamente distribuita: se ne ottiene un senso, ma non è quello giusto, non, almeno, quello canonico! A correggere l’impressione, intervengono piccole sculture giustapposte che potrebbero essere le superfetazioni tecnologiche di un futuro di là da venire o, allo stesso modo, elementi che non necessariamente possono essere attribuiti a un intervento urbanistico: in fondo, il segno palesemente si accompagna con ghirigori colorati: macchie che di quel segno divellono il significato e aprono al gioco linguistico.

                                                                                Rosa Pierno      

dal 22 ottobre al 16 novembre 2015 in via Principe Eugenio 60, Roma

  

giovedì 22 ottobre 2015

Stefano Iori “ Tre poesie inedite” 2015




Appena un delicatissimo aroma che si sparge da una boccetta aperta, è quanto ci è dato avvertire dalla lettura delle poesie inedite che Stefano Iori ci ha concesso di conoscere in anticipo e che faranno parte della sua  prossima silloge. La delicatezza è quasi una sua cifra stilistica, ma ci sembra qui ancor più esaltata dalla rastremazione dei mezzi: rare voci verbali, nomi collezionati nei pressi del corpo e della natura, i quali creano più un diradamento che una semplificazione, più un’evaporazione, appunto, che una raccolta di oggetti. Vi è presente non solo l’accumulo, ma anche l’alternativa, il sentirsi messi ogni volta di fronte a un bivio dinanzi al quale si debba scegliere, ma che sul momento annichilisca. La poesia di Stefano Iori,  partendosi dal contingente, tenta dapprima di approdare all’idea. Alla presa salda che sul reale può effettuare soltanto la formulazione di un concetto, ma forse questo è messo in dubbio in un successivo frangente, ove parrebbe si opti per l’azione.  Spesso, raggiunta tramite una sorta di esaurimento dei sensi connotativi di un tema, più spesso ancora mirante a individuare una sola nozione che riesca a rovesciare il senso della costellazione semantica, così come si rovescia un guanto. C’è sempre un modo di guardare che  sfrutta lo stato delle cose per rifonderlo in nuova progettualità. Non importa se illusorio potrebbe apparire l’atto di trasformare il reale: è certo che l’azione, la disposizione mentale a vedere diversamente racchiude in sé valore autonomo. Con tale prospettiva, la poesia dischiude a se stessa un’area di agibilità fattuale, apre persino a uno spazio di condivisione lì dove non esplicitamente si fa riferimento a una collettività.  Ci accorgiamo, infatti, che essa è in qualche modo presente tramite l’umanizzazione degli oggetti: il tavolo lacrima, le carte mordono, il ricamo si fa turpe: sorta di socializzazione,  la quale rimanda a una folla di astanti, anche se seduti in platea. Centrale, per il poeta risulta il lavoro condotto su di sé, lo scavo inesausto che però presenta il frutto del proprio lavoro in relazione a un pubblico. Tre poesie… soltanto… ma restiamo in attesa dei restanti profumi…




6

Viso di vento
o piglio leonino
ghigno sfondato
o guance di seta
È diritto abete
É sbilenco ulivo
A volte maschio
altre femmina mancina
Vien cantando
con la falce in spalla
vien ridendo
con passo d'ombra
Mi vede e saluta
mi tocca e sfiorisco
Dopo poco
risorgo in forza
con cuore d'atleta
e lucida mente
Solo la pelle mia
tradisce l'inganno
Trama fitta e dolente
di sfregi passati
rude scrittura
turpe ricamo
Nessuna evidenza
di fine sutura


9

Accolgo distratto
quel tanto che basta
a carpire schegge                        
di voci chiassose           
Annullo toni
enfasi
e bersagli
Trascrivo parole
di seguito
sole
lavate dal tanfo
di nomi scaduti
Le conto e le canto
pulite infine
Salmo negato
se l'udito è corrotto
ghiotto di lusinghe
bramoso d'illusione


10

Notte
Legni si piegano
sotto il peso dei libri
Macchine e carte
mordono il tavolo
che piange nel buio
con gemito sottile
Notte
La sedia respira
senza il mio peso
Leggerò domani
ciò che non ho scritto



Stefano Iori, mantovano, è giornalista professionista. In gioventù ha recitato per il Teatro Autonomo di Roma e poi fondato la compagnia Ipadò (otto regie). Si è rivelato alla critica e al pubblico con la monografia critica I Grandi del Cinema: Tinto Brass (Gremese Editore, 2000). Varie le sue collaborazioni, tra cui quella all’Editoriale Giorgio Mondadori. Ha firmato tre sillogi poetiche: Gocce scalze (2011), Sottopelle (2013, con prefazione di Gio Ferri) e L’anima aggiunta (2014, edizione italiano-inglese con prefazione di Beppe Costa). Numerosi i premi e le segnalazioni nel suo curriculum poetico. È presente in numerose antologie, fra tutte l’Enciclopedia di Poesia Contemporanea (Fondazione Mario Luzi, 2013). La giovinezza di Shlomo è il suo primo romanzo.

venerdì 16 ottobre 2015

Manlio Monti: Pittura



Nomade, si aggira tra materie incongruenti, sul limitare della loro accostabilità e, simile al dio Vulcano, trova il modo di forgiare il loro innesto.

La carta sulla tela ha sempre un che di precario per i lembi mal disposti all’adesione, l’umidità che erutta bolle, le fibre che si torcono e si rigonfiano secondo leggi contrastanti. Ma la coesione deve essere raggiunta poiché resistere deve all’onta del tempo e aver ragione, con la costrizione, dell’ibrida unione.

Sulla tela la carta incollata costruisce profondità e spessori proprio mentre offre il minimo appiglio. Vi si formano sacche di penetrabilità, sottolineate da ombreggiature di pigmento nero: sorta di colla tirata per la manica.

La carta, trattata, indica una tendenza mistificatoria: non vuole apparire come tale, ma come sostanza avente caratteristiche appartenenti ad altre materie, trascinando la tela in una comune sorte artificiale.

Foglio incartapecorito, pergamena pronta ad accogliere figura che non verrà: assenza che desidera presenza e pone come visibile solo il supporto che la implora.

È simile a un innesto che resista nonostante si  percepisca estraneo al contesto, pure se è sostenuto da asfalto nero che equilibra le masse. Bitume vi appare come colore, persino trasparente, rispetto all’opaca carta.

L’inserzione del foglio è un espediente per introdurre una forma, la quale a sua volta è il pretesto per inserire un colore che subisce una trasformazione su un differente supporto. Tuttavia, la sua immissione è bacata da tramature: quasi una tela lasca, il colore deposto su una carta!

La ponderatissima disposizione di pigmenti insistenti sulle forme ritagliate determina la loro calibratura. Giacché, se in natura il contorno non esiste, la forma è visibile proprio sul limitare fra figure, supporto e pigmento colti in un dialogo  esacerbato che si sia appena placato.

Tra obliati verdi, antichi, e cobalti che si pongono come trapasso tra il verde e il blu, simili ad acquoree vegetali ricorrenze, stanno iridescenze di ghiaccio o brumose velature, ad accordare alla terra e al cielo, l’etichetta di marcescibili oggetti. 

Persino imponendo una lumeggiatura al colore, un suo sfinimento mostrante la superficie sottostante,  giungente fin quasi alla sua elisione, la rappresentazione resiste assieme al dato metapittorico che vuole che l’illusione sia il portato principale della metamorfosi materiale. Quadro non è che specola di supposta intimità.

Con cielo e bituminoso ocra forgia le membra dell’essere che più non riesce a permanere integro. Tra l’azzurro profondo e risonante per le alte sfere e una brunita pelle in controluce, riconosco un pene, un arto, lo snodo delle gambe.

Son corpi di Icaro in libera caduta. Son busti, tornite bronzee membra gettate nell’acqua da vertiginose altezze. Uomo si volle dio nella regola divelta, nella libera devianza.

Di siffatto alfabeto corporale, qui si declina poema primordiale, di cosmico originario afflato, forgiato nel bronzo, non ancora patinato. Non integro né completo, forse già precipitato dallo smaltato cosmo.

Colloquio solitario, riverberante fra due soli colori,  e solo fra alcuni rigidi tronchi o rugginosi arti, ha però i barbigli della terra vista da lontano, in uno splendore non intaccato dai particolari.

Dalle vertiginose altezze alle catramose interiorità della terra, nessuna mediazione: se non la forma, la zolla da plasmare. L’atto è simile a quello che traccia lineari rotte fra le stelle, quelle che, fra le tante possibili, determinano arbitrarie figure e solo quelle.

Nelle interiorità del cosmo, il ghiaccio ricopre le forme e le conserva, blocca ogni corruzione, anche delle più volgari materie. Lì si congela ogni categoria, si bloccano cerniere, ogni dialettica tensione fra contrari. Solo pittura mette a nudo, fuoco appiccando.

Corpo resta riconoscibile anche se sottoposto a deformazioni, tirato  a destra e a manca come canovaccio; deposto o issato come un cristo morto. Dal corpo si formano per erosione, arcipelaghi e lastroni di ghiaccio, isole e lingue di rossa terra.

Ossa e denti di narvalo che hanno perso la loro tornitura, delfini, busti e pietre, paesaggi marini e quarti di bue, in stringatissima sintassi, di fangosa o carnale sostanza. Sembrerebbe natura, invece è bituminosa pittura, sfolgorante ideazione.

                                                                                                Rosa Pierno



Manlio Monti e' nato a Locarno l'11 maggio 1948. Dopo le scuole dell'obbligo ha seguito per tre anni il Centro Scolastico per le Industrie Artistiche di Lugano. A Losanna ha frequentato per quattro anni l'"Ecole Cantonale d'Art et d'art appliqué". Dal 1971 insegna nelle scuole secondarie del Cantone. Vive e lavora a Locarno, dove ha un centro per l’incisione e una casa editrice.

mercoledì 14 ottobre 2015

Paolo Di Capua a Photissima Art Fair Venezia 2015



Le opere di Paolo Di Capua offrono una risposta alla questione del fare. L’artista utilizza delle forme ed il loro potenziale comunicativo per ripiegarle su una dimensione a suo avviso molto più essenziale: la loro natura di atti, di comportamenti, di exempla. È un pò come dire che l’artista sostiene che il problema basilare per l’arte è appropriarsi di una forma, che è anche il nucleo da cui si origina un’immagine, e trasformarla in un atto: la forma perfetta di un comportamento, l’immagine di una moralità. Le sue opere si presentano quasi come atti grezzi, non lavorati, anche quando la loro realizzazione ha richiesto dosaggio di mezzi e soprattutto lunga elaborazione. È il caso di Crescita di piante notturne (2001-2003) che ha richiesto un lungo lavoro di preparazione per riunire in un’unica arena, più che una foresta, un orto botanico di “possibili-impossibili piante di ogni e vario tipo”.  L’autore sembra piuttosto interessato alla fluidità, al mutare sia dei significati di ogni singola opera a seconda di cosa sta loro accanto e di dove sono, sia dello sguardo dei suoi osservatori. Esempio chiaro e lampante Crescita di piante notturne: la sua moltitudine di steli, virtualmente infinita, altera quasi completamente la leggibilità dei motivi, che quasi scompaiono nel reciproco accostamento e frastuono: si trasformano non appena si crede di averli identificati e forse riconosciuti, lasciando un'idea molto concreta di equilibri e confini vaghi. Soprattutto di una infinita moltitudine di diversità nell’identità.  L’insieme produce una spazialità assai sofisticata ed altrettanto complessa generata dalla difficoltà, o impossibilità, per lo spettatore di assumere un punto di vista definitivo rispetto sia alla posizione di quanto riesce a vedere sia alla propria personale posizione. Qui, come in numerosi progetti antecedenti, la distinzione tra ciò che è e ciò che potrebbe essere - o mai sarà, se non simbolicamente -, tra astrazione e immaginario trova il suo senso più compiuto.

                                                                                                Mario de Candia



PHOTISSIMA ART FAIR VENEZIA 2015, “This is Contemporary Art”

Archivio di Stato, Chiostro dei Frari - Campo dei Frari, San Polo,
3002 – 30125 Venezia, dal 18 settembre al 30 ottobre

sabato 10 ottobre 2015

Jacques Le Goff e Jean-Pierre Vernant "Dialogo sulla storia" Laterza, 2015


Il dialogo in cui i due grandissimi studiosi, Jacques Le Goff e Jean-Pierre Vernant, si affrontano, sull'onda del pretesto dell'intervista condotta da Emmanuel Laurentin, non può che essere salutato dal lettore che come un rinnovato incontro con amici insostituibili, con i quali anche una conversazione é foriera di rinvenimenti, rielaborazioni, determinando una spinta a nuove letture e approfondimenti. In questo senso, l'ammissione di Vernant di non essere stato lui a infrangere le barriere disciplinari, ma i suoi maestri: Louis Gernet, Ignace Meyerson, mentre Le Goff afferma che "il Medioevo di Marc Bloch è il mio", determina lo scorrere sulle pagine di tantissimi nomi a cui i due studiosi tributano la loro riconoscenza, ricalcando traiettorie che il lettore é invitato a seguire (anche se molti di loro non risultano tradotti in italiano):  Maurice Lombard, Georges Jamati, ma anche i propri allievi: Françoise Frontisi-Ducrox, François Lissarrague e Claude Schmitt.

E, in particolare, per questi storici provenienti dalla scuola delle "Annales", la professione rinnovata a ogni svolta, nella libertà e apertura della ricerca, nella trasversalità degli studi che affrontano l'oggetto da svariate e inusitate prospettive,  assieme a quella dei limiti presenti e la speranza che si possano nel futuro abbattere, caratterizzano una modalità di approccio che ha ancora nel passato e nel futuro due boe di riferimento, non accettando di annegare nell'indifferenziazione temporale. La cronologia diviene non solo uno strumento con il quale valutare oggetti affondati sotto la fangosa coltre, restia a restituire, del passato, ma è al contempo modo rivoluzionariamente anacronistico, in quanto non si perita di partire dal presente per affrontare il passato: "Ritengo che certi anacronismi siano creativi, o comunque illuminanti" (Le Goff).  Vernant gli fa eco: " Noi poniamo all'oggetto dei nostri studi le domande che il presente pone a noi. É per questo che esiste una storia degli avvenimenti storici: ogni periodo li vede in maniera differente, perché si modifica l'orizzonte di riflessione".

Non bisogna temere le questioni che nascono dalle contraddizioni del presente, ma tentare di verificare come siano stati affrontati i problemi in un  determinato tempo e luogo, perché altro punto fondamentale, istituito dagli storici delle "Annales" é proprio la questione della negazione del concetto di atemporalità di Levi Strauss, il quale apriva, pertanto, la porta all'innatismo: non importava che si fosse africani o amerindi, a tutti veniva attribuita la produzione di oggetti mentali uguali fra di loro. Indistintamente, a qualsiasi latitudine o epoca appartenesse. Sia Le Goff che Vernant sono assolutamente solidali nello sbarazzare il campo da codesto  annerente vetrino, la qual cosa, alla fine,  costituisce la vera impalcatura della costruzione da loro innalzata: la ricerca delle differenze, il riconoscimento delle specificità e proprio mentre si ampliano i metodi di ricerca inserendo le competenze maturate in ambiti diversi, dalla psicologia all'antropologia, dalla sociologia all'arte.

Per Vernant, "sa di  kantismo l'idea che esistano delle regole a priori dell'intelligenza". Come, d'altronde, non si può non  "far riferimento all'idea che esistono cambiamenti, soglie, rotture, modificazioni nella logica, nella scienza, nella sensibilità" e che, dunque, anche la psicologia sia storica. E ciò vale come critica al modello linguistico, applicato da Levi-Strauss, "che ha tentato di trasformare  quelle che erano conoscenze approssimative in una scienza nel senso proprio del termine". Le lodi e le critiche all'antropologo accomunano Le Goff e Vernant che condividono all'unisono i pareri, infatti, per Le Goff la concezione della storia di Levi-Strauss è che " la storia era per lui un elemento di disturbo che impediva il movimento circolare da lui affermato", mentre Fernand Braudel asseriva che "il tempo non era mai sospeso".

E in riferimento alla lunga durata, concetto introdotto, appunto, da Braudel, Le Goff ritiene che compito dello storico sia quello di "scoprire e spiegare, all'interno di questa lunga durata, i cambiamenti, il movimento". Anche all'interno dello storia nuova delle "Annales" si riconosce la presenza di qualche eccesso. Bisogna dire che "La storia politica é, a mio avviso, il grosso problema" poiché "essa avrebbe potuto benissimo non soltanto sopravvivere ma anche avere un posto essenziale in seno alla storia nuova". Per entrambi gli storici, la loro disciplina è un cantiere aperto: ora ammettono di mostrare maggiore attenzione per le immagini, per le lotte politiche e gli antagonismi e, d'altra parte, per Vernant, inoltre, si deve affrontare il problema dell'evento e del presentismo: "Non c'é avvenimento che non ci diventi ben presto contemporaneo, in un presente che peraltro si cancella immediatamente". Ma se "L'uomo diviene un problema, e non esiste risposta", noi lettori confidiamo nella ricerca libera e intraprendente di siffatti studiosi per tentare di comprendere almeno i contorni del problema, sapendo comunque che sono mobili, come le Goff e Vernant ci insegnano.

                                                                                                  Rosa Pierno


lunedì 5 ottobre 2015

Gilberto Isella "Liturgia minore" Lietocolle, 2015



Fantasmagorica scatola teatrale, quest’ultimo libro di Gilberto Isella, Liturgia minore, Lietocolle, 2015, dove Ariel sembrerebbe avere forma di stella che diviene baco da seta. Creare passaggi tra le figure letterarie o immagini, facendo agire su di esse l’operatore metamorfico non equivale soltanto a creare nuovi personaggi, nuove figure, ma la scatola stessa. Come se la metamorfosi qui fosse il segno, appunto, di se stessa, ciò che si mostra e che mostra il meccanismo in cui ha luogo. Diciamo scatola perché quello che ci viene in mente è la teca di vetro dei musei di storia naturale, ove accanto a organismi disseccati, stanno meteore e strane incenerite concrezioni e dove la mano che agisce  è sicuramente quella del mago-astrologo-poeta che dà avvio all’incessante trasmutazione delle cose:

il baco celeste caduto sul palmo
parla alla mano:
“muoviti amica larva a cinque punte!”
poi la vede ascendere
evolvere in stella
con innocente foga compiangerlo dal cielo 

D’altronde, verso questo inusitato declivio ci aveva già indirizzato Gilberto Isella col suo precedente volume, Mobilune,   qui replicato nella prima sezione e realizzato in colloquio con le immagini di Loredana Müller, artista ticinese. Questa volta, senza poter usufruire del binario delle immagini, possiamo seguire con i soli occhi della mente le evoluzioni fantasmatiche  e oniriche che Isella insegue con straordinaria sottigliezza, diafana capacità di rendere la trasparenza delle sue visioni. Le parole stesse paiono essere dotate della medesima struttura delle ali di farfalla, giacché lo scheletro sintattico deve supportare un cangiante polimorfismo. Infatti, la parola è intaccata dal nulla che deve esprimere o per lo meno dalla sua impalpabile sostanza, e, tuttavia, deve al contempo sostenerne l’impalcatura che s’innalza a dismisura:

o memoria! Disattenta camera d’aria
che ha gusci di paesaggio
dove un solo uovo
siepe curva assodata
risuona

D’altra parte quest’ultimo stralcio poetico ci serve anche per mostrare come alcuni elementi astratti, nell’esempio una curva, figurino sempre in controcanto con la coppia oppositiva materia/non materia: ciò costituisce l’archetipo formale da cui discende la costruzione delle strofe.  Nel caso specifico, la curva genera le assonanze figurative tra camera d’aria, uovo, siepe, ma l’elemento che viene convocato a fronte della curva è un suono. Avevamo avuto già modo di osservare questo processo nella raccolta di poesie sull’architetto Antoni Gaudì, ove, nella selva di elementi organici, Isella cercava la forma astratta, primigenia, da cui tutte le opere erano generate, almeno concettualmente. 

Dunque, la sintassi appare anch’essa avere ruolo di operatore attuante equivalenze tra campi diversi, apparentemente inaccostabili o accostabili solo tramite essa, il che è lo stesso. Ed è a caccia di corrispondenze assurde che si getta Isella, rilevando come certe similitudini, che si penserebbe impossibili da istituire, sono di fatto visibili in opere d’arte:

sperma angolare
cozza col garretto dell’orsa
e conferma così nell’universo
falsi connubi
ineludibili contraddizioni
ma ne allevia la fatica
di una prova scientifica

Se il metodo analogico che agisce nelle creazioni artistiche non richiede prove scientifiche (e d’altronde ciò non esclude che in campo scientifico l’analogia non sia presente nel campo ideativo e nella costruzione d’ipotesi) è pur vero che esso costituisce il precipuo funzionamento dell’attività immaginativa (dove “assioma”, dal poeta, può essere definito  “il canto dell’asso di picche tra due mani”). Parrebbe dunque più una ricerca, un’analisi condotta sul piano della genesi poetica tout court che una critica alle opere prodotte dall’ingegno artistico.

Cosparso il terreno ci appare da citazioni immaginarie prelevate dai mistici, dai presocratici, dai testi letterari che sono alla base di dipinti di tema religioso, ma anche dai testi scientifici. Tutto il materiale incongruo, messo così a  interagire, può essere ricondotto alla favola e il reale divenire per questa via approssimativo, rendendo i plurimi mondi concetti meno concreti di bolle di sapone.

Nella sezione del libro eros / anteros, il tema affrontato è alchemico, e  strettamente collegato al mondo filosofico di Giordano Bruno, con le sue navi dagli stendardi incendiati che solcano l’universo.  Il sole è figura disegnata con i raggi, il mondo ha solo balaustre  e l’amore, quello sensuale,  vi appare convocato dalla medesima analogica connessione che tutto lega con tutto. Amore come alchemico motore! Ma lasciamo a Isella l’ultima parola:

trasversale all’aureola, l’antica freccia
rimbalza dall’astro più teso
lassù, del desiderio
e stride
nel quadrilatero di carne:


                                                                               Rosa Pierno

venerdì 2 ottobre 2015



Trasversale riprende la sua attività volta a scoprire le vie trasversali che attraversano le arti, l’attività critica, la filosofia, la scienza, la storia, seguendo il loro dipanarsi o aggrovigliarsi, senza cedere a impulsi di categorizzazione. Tuttavia, non cadendo però in una sorta di semplice accumulo che trasbordi da fattore quantitativo a qualitativo, ma seguendo un principio di sconnessione, quasi di arbitrio nell’inevitabile restituzione: ricostruendo, cioè, una mappa in cui non è presente nessuna omologia profonda tra i diversi fenomeni, ma una serie di rivoli che non si mescidano. I diversi tasselli, se non delineano un quadro del tutto coerente, sono in ogni caso la possibile immagine di un fenomeno colto nel suo divenire, nella sua complessità e nelle potenziali aperture. A questa ricerca - a cui si dedicano da diversi anni in maniera autonoma - Mario Fresa, Gilberto Isella e Rosa Pierno hanno deciso di dare un contributo anche tramite il blog Trasversale, unendosi nella direzione che ne presiede le scelte editoriali.