Nomade, si
aggira tra materie incongruenti, sul limitare della loro accostabilità e, simile
al dio Vulcano, trova il modo di forgiare il loro innesto.
La carta sulla
tela ha sempre un che di precario per i lembi mal disposti all’adesione, l’umidità
che erutta bolle, le fibre che si torcono e si rigonfiano secondo leggi contrastanti.
Ma la coesione deve essere raggiunta poiché resistere deve all’onta del tempo e
aver ragione, con la costrizione, dell’ibrida unione.
Sulla tela la
carta incollata costruisce profondità e spessori proprio mentre offre il minimo
appiglio. Vi si formano sacche di penetrabilità, sottolineate da ombreggiature
di pigmento nero: sorta di colla tirata per la manica.
La carta,
trattata, indica una tendenza mistificatoria: non vuole apparire come tale, ma
come sostanza avente caratteristiche appartenenti ad altre materie, trascinando
la tela in una comune sorte artificiale.
Foglio
incartapecorito, pergamena pronta ad accogliere figura che non verrà: assenza
che desidera presenza e pone come visibile solo il supporto che la implora.
È simile a un
innesto che resista nonostante si percepisca estraneo al contesto, pure se è sostenuto
da asfalto nero che equilibra le masse. Bitume vi appare come colore, persino trasparente,
rispetto all’opaca carta.
L’inserzione
del foglio è un espediente per introdurre una forma, la quale a sua volta è il
pretesto per inserire un colore che subisce una trasformazione su un differente
supporto. Tuttavia, la sua immissione è bacata da tramature: quasi una tela
lasca, il colore deposto su una carta!
La
ponderatissima disposizione di pigmenti insistenti sulle forme ritagliate determina
la loro calibratura. Giacché, se in natura il contorno non esiste, la forma è
visibile proprio sul limitare fra figure, supporto e pigmento colti in un dialogo
esacerbato che si sia appena placato.
Tra obliati
verdi, antichi, e cobalti che si pongono come trapasso tra il verde e il blu, simili
ad acquoree vegetali ricorrenze, stanno iridescenze di ghiaccio o brumose
velature, ad accordare alla terra e al cielo, l’etichetta di marcescibili
oggetti.
Persino
imponendo una lumeggiatura al colore, un suo sfinimento mostrante la superficie
sottostante, giungente fin quasi alla
sua elisione, la rappresentazione resiste assieme al dato metapittorico che
vuole che l’illusione sia il portato principale della metamorfosi materiale.
Quadro non è che specola di supposta intimità.
Con cielo e bituminoso
ocra forgia le membra dell’essere che più non riesce a permanere integro. Tra
l’azzurro profondo e risonante per le alte sfere e una brunita pelle in
controluce, riconosco un pene, un arto, lo snodo delle gambe.
Son corpi di
Icaro in libera caduta. Son busti, tornite bronzee membra gettate nell’acqua da
vertiginose altezze. Uomo si volle dio nella regola divelta, nella libera
devianza.
Di siffatto
alfabeto corporale, qui si declina poema primordiale, di cosmico originario
afflato, forgiato nel bronzo, non ancora patinato. Non integro né completo,
forse già precipitato dallo smaltato cosmo.
Colloquio
solitario, riverberante fra due soli colori,
e solo fra alcuni rigidi tronchi o rugginosi arti, ha però i barbigli
della terra vista da lontano, in uno splendore non intaccato dai particolari.
Dalle
vertiginose altezze alle catramose interiorità della terra, nessuna mediazione:
se non la forma, la zolla da plasmare. L’atto è simile a quello che traccia lineari
rotte fra le stelle, quelle che, fra le tante possibili, determinano arbitrarie
figure e solo quelle.
Nelle
interiorità del cosmo, il ghiaccio ricopre le forme e le conserva, blocca ogni
corruzione, anche delle più volgari materie. Lì si congela ogni categoria, si
bloccano cerniere, ogni dialettica tensione fra contrari. Solo pittura mette a
nudo, fuoco appiccando.
Corpo resta
riconoscibile anche se sottoposto a deformazioni, tirato a destra e a manca come canovaccio; deposto o
issato come un cristo morto. Dal corpo si formano per erosione, arcipelaghi e
lastroni di ghiaccio, isole e lingue di rossa terra.
Ossa e denti
di narvalo che hanno perso la loro tornitura, delfini, busti e pietre, paesaggi
marini e quarti di bue, in stringatissima sintassi, di fangosa o carnale sostanza.
Sembrerebbe natura, invece è bituminosa pittura, sfolgorante ideazione.
Rosa Pierno
Manlio
Monti e' nato a Locarno
l'11 maggio 1948. Dopo le scuole dell'obbligo ha seguito per tre anni il Centro
Scolastico per le Industrie Artistiche di Lugano. A Losanna ha frequentato per
quattro anni l'"Ecole Cantonale d'Art et d'art appliqué". Dal 1971
insegna nelle scuole secondarie del Cantone. Vive e lavora a Locarno, dove ha
un centro per l’incisione e una casa editrice.