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mercoledì 27 marzo 2013

Aldo Chaparro alla galleria Spazio Nuovo, Roma


dal 23 marzo al 4 maggio 2013 in via d’Ascanio, 20, Roma


La Galleria Spazio Nuovo presenta la prima esposizione personale in Italia dedicata ad Aldo Chaparro, a cura di Guillaume Maitre e Paulo Pérez Mouríz, col patrocinio dell’Ambasciata del Messico. La mostra propone un originale percorso tra neon, installazioni site specific, sculture free standing e murali, che contribuiscono a creare uno spazio inedito per l’esplorazione dell’idea scultorea in un gioco irripetibile tra materiali originali - come l’acciaio inossidabile piegato dall’artista stesso con la forza del suo corpo - e la ricerca di colori di una accentuata modernità.

Le opere di Aldo Chaparro partecipano a un cosciente e dettagliato gioco dell’arte. L’artista seleziona, cita e rimescola i pilastri dell’arte contemporanea in una scrupolosa pratica che tende a decontestualizzare le opere dal loro ambito originale. Il suo è un passo ulteriore rispetto agli artisti che hanno utilizzato l’elemento della citazione come tematica ricorrente. Appropriarsi di un’opera altrui solitamente significa attribuire a essa un ruolo di autorità nell’ambito del proprio lavoro con l’intento di raggiungere esiti contigui all’originale oppure con il fine di innalzare il gesto stesso della citazione a opera d’arte. Chaparro, tuttavia, fa di questi due stadi solo il punto di partenza della sua opera. Non si ferma alla meccanica e semplice rielaborazione, ma esplora invece tutte le possibilità che l’originale non è riuscito a soddisfare fino a rompere con la tradizione prescelta, come nel caso degli splendidi lavori in acciaio. In campo scultoreo, dunque, rinuncia al minimalismo di Judd e rovescia la precisione formale di Kapoor, mantiene tuttavia l’elemento di connotazione spaziale del primo e approfondisce la ricerca formale e coloristica del secondo: la scultura caratterizza lo spazio e lo ordina/disordina con la sua presenza. L’acciaio perde il suo rigore formale e, ricoperto dal colore, diventa quasi un elemento fragile, una cristallizzazione dell’attimo irripetibile in cui è stato modificato.

                                           Guillaume Maitre e Paulo Pérez Mouríz

Aldo Chaparro è nato in Perù, nel 1965, ma vive e lavora da 20 anni in Messico. Tra le sue mostre personali:  Sé que te mueres por mí; Galleria Lucía de la Puente (Lima); Hip ahora, mañana who knows, Galleria Casado Santapau (Madrid); Oh Sweet Nuthin’, Galleria OMR (Città del Messico); Solo Project Art Dubai, Madinat Jumeirah Arena (Dubai); Solo Project Pinta Art Fair (Londra); Two Black Monoliths, Museo Experimental El Eco (Città del Messico). Alcune delle sue opere sono presenti nelle più prestigiose collezioni di arte latinoamericana, tra le quali la Fundación/Colección Jumex e la Colección Coppel (Messico).

venerdì 22 marzo 2013

Giuseppe Borrone su “Lincoln” di Steven Spielberg


Regia: Steven Spielberg; Origine: USA, 2012; Durata: 2h 30’; Distribuzione: 20th Century Fox; Genere: Biografico - Drammatico - Storico; Cast: Daniel Day-Lewis, Sally Field, Joseph Gordon-Levitt, Tommy Lee Jones, David Strathairn, James Spader, Hal Holbrook; Sceneggiatura: Tony Kushner; Fotografia: Janusz Kaminski; Montaggio: Michael Kahn; Data uscita in Italia: 24 gennaio 2013


Primi mesi del 1865. La guerra civile di secessione volge al termine, dopo quattro anni di sanguinose battaglie. L’appena rieletto presidente Lincoln spinge per l’approvazione, da parte della Camera dei deputati, del 13° emendamento della Costituzione americana, ovvero l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti. Un provvedimento legislativo di portata storica, che il presidente vorrebbe licenziare prima della fine del conflitto bellico. Ma riuscire ad ottenere la maggioranza parlamentare non sarà impresa facile. E machiavellicamente i fedelissimi di Lincoln si muoveranno per convincere e blandire, con prebende varie e promesse di prestigiosi incarichi di lavoro, i deputati riottosi nelle due settimane che precedono il voto. Il più importante atto normativo del 19° secolo è stato ottenuto attraverso la corruzione, sentenzierà sardonicamente il leader dei Radicali Thaddeus Stevens, principale sostenitore dell’abolizione dello schiavismo.
Dopo “Il colore viola” e “Amistad”, Steven Spielberg torna a riflettere sul grande processo di integrazione della comunità nera nella società americana. “Lincoln” può essere letto come un viaggio nella genesi e nelle radici del fenomeno Barack Obama, primo presidente di colore nella storia degli Stati Uniti. Ma è anche, e soprattutto, una grande lezione di etica e di politica, una lucida incursione nei meccanismi che regolano il governo della cosa pubblica. Fin dove è possibile spingersi quando il fine giustifica i mezzi, può la nobiltà di una causa autorizzare trucchetti strategici e procedure poco trasparenti? E il conflitto di interessi tra le comprensibili preoccupazioni familiari – l’opposizione di Lincoln e della consorte all’arruolamento nell’esercito del primogenito, dopo la morte in battaglia di un altro figlio - e l’uguaglianza dei cittadini davanti ai doveri patriottici come può essere risolto?
Nella sua sconcertante attualità e modernità, il capolavoro di Spielberg sceglie una strada cinematografica alternativa alla facile spettacolarizzazione per smontare i congegni della vita democratica di un paese occidentale, mostrandone limiti e contraddizioni. Lasciata alla scena iniziale di battaglia, che evoca la sequenza di apertura di “Salvate il soldato Ryan”, il contributo di adrenalina alla drammaturgia, il film, sceneggiato dal premio Pulitzer Tony Kushner sulla base del libro “Team of Rivals: The Political Genius of Lincoln”, della storica Doris Kearns Goodwin, inanella lunghi confronti dialettici al posto dell’azione per descrivere la costruzione del consenso. Il rifiuto di ogni artificio retorico lascia emergere le crude considerazioni opportunistiche e i compromessi che ispirano anche le più nobili iniziative. La scontata rappresentazione agiografica è sostituita da una ben più interessante descrizione chiaroscurata di un personaggio entrato nel mito, ma spesso imprigionato in una banale e riduttiva ricostruzione biografica.
La statura morale di Abraham Lincoln, nella superlativa interpretazione dell’attore anglo-irlandese Daniel Day-Lewis, già testimone della nascita della nazione americana in “Gangs of New York” di Scorsese, è superiore alle beghe e agli intrighi calcolati. E basterebbe riascoltare il suo discorso finale, sulla pacificazione del paese, dopo le laceranti divisioni e la guerra fratricida, per averne una lampante conferma. Resta tuttavia la sensazione spiazzante e il paradosso di un film che, nel denunciare il lato torbido della politica, ne dimostra contemporaneamente l’altissima utilità sociale e l’indispensabile funzione di salvaguardia dei baluardi fondamentali di un popolo e di una civiltà. Senza inutili ipocrisie né visioni manicheistiche di una realtà più complessa e sfumata di qualsiasi tentativo di ingenua semplificazione.

                                                         Giuseppe Borrone

lunedì 18 marzo 2013

Mostra di Giulia Napoleone “Misura della memoria” a Viterbo


Dal 24 marzo,  ore, 11.00 al 24 aprile 2013


Palazzo Chigi - Via Chigi 15, Viterbo
orario di  apertura 17.00 - 19.30
Portico della Giustizia - Via S. Lorenzo 57, Viterbo
orario di apertura 10.30 - 12.30 / 17.00 - 19.30
(festivi esclusi)

Composizioni liriche, cariche di emotivo ascetismo si fondono con le strutture analitiche dei lavori di Giulia Napoleone, denotati da razionale progettualità geometrica, a prescindere dal mezzo espressivo utilizzato, e tornano con la stessa determinata coerenza nella serie pittorica Misura della memoria presentata nelle sale espositive della galleria Miralli.
Il titolo della mostra racchiude già in sé l’unione osmotica tra una dimensione incerta e mistica, quella della memoria, e una sistematica esecuzione formale. A partire dagli anni Sessanta Giulia Napoleone ha sempre prediletto la carta; prima i disegni a china, poi la grafica con l’uso del bulino, del punzone e del berceau e solo più tardi arriverà il colore negli acquerelli e nei pastelli realizzati dalla seconda metà degli anni Settanta.
Il passaggio al medium pittorico è stato segnato, prima dai grandi dipinti del 1999, intitolati Deriva, Venilia e Limite d’orizzonte e poi dalla serie che prende il nome dal verso di Orazio Mutano i cieli, titolo che segnala come l’uso di tecniche differenti non ha mai mutato lo spirito profondo del lavoro di Giulia Napoleone, proteso verso una costante ricerca di armonia in uno spazio di quiete delineato, in cui rintracciare le coordinate di sensazioni passate.
Giulia Napoleone ritorna ora a segnare sottili passaggi di gradazioni tonali a volte impercepibili, sottolineate solo da lievissime modulazioni.
Il colore prescelto per i dipinti è il blu, lo stesso degli acquerelli, usato in tutte le sue gradazioni tonali: blu di prussia, indaco, cobalto, oltremare dal lapislazzuli al ceruleo. A cambiare è la resa luministica finale. Negli acquerelli l’assenza di materia fa riaffiorare la luce dal fondo della carta con delicate trasparenze; nei dipinti la luce viene fatta vibrare attraverso una materia densa e corposa che modifica il rifrangersi della luce. La tensione è accentuata da cordoli orizzontali tesi che emergono in superficie segnando linee regolari ed equidistanti lungo i quali la luce scorre ed emana intermittenze di viva elettricità.
Lo spazio cadenzato in una forma di meditata calma, si arricchisce internamente di movimenti dinamici. La monocromia, la perfetta ritmica ripetizione e l’apparente stasi evocano un ordine innato delle cose e dell’universo, qui distratto soltanto dai sottili riverberi di luce che esumano gli spazi nascosti della memoria, come in una magnetica ipnosi.
Giulia Napoleone mantiene in pittura il vigore che denota la sua opera, attraverso un gesto controllato, dominato da un rispettoso rigore estetico e gestuale ai limiti della tensione. Con questi strumenti ottiene la misura di una dimensione per sua natura difficilmente definibile, mantenendo l’entità cosmica e universale di lontane emozioni che la vastità di quei blu è in grado di evocare. Il tempo filtra suggestioni accese da dati fenomenici, Giulia Napoleone coglie quei dati processati da stati mentali, in uno spazio misurabile. La memoria gioca un ruolo importante nel riconoscere analogie con forme e colori, ripercorre sentieri familiari e ritrova impressioni inaspettate.
Il ciclo di dipinti Misura della memoria segna uno spazio temporale chiaramente distinto da un inizio e un punto d’arrivo, per un’esperienza di totale silenzio e meditazione accompagnata dal mutare della luce che, protagonista, crea ad ogni spostamento oscillazioni nuove in grado di cambiare non solo la forma reale delle cose, ma anche la nostra percezione e con essa l’interpretazione che ne diamo, offrendo molteplici possibilità di penetrare la realtà.
La luce riveste una parte fondamentale nel lavoro di Giulia Napoleone.  Nel 1999 realizza i fogli di Al mutare dell’ora, per una scelta di versi di Torquato Tasso: disegni a pastello che segnano un maggiore e incisivo interesse per la realtà immateriale della luce e per il suo variare allo scorrere delle ore. Nota è la sua passione per la poesia, per lei da sempre incessante fonte d’ispirazione; più volte Giulia Napoleone si è confrontata con i versi di poeti antichi e moderni che hanno fatto nascere molteplici libri d’arte pubblicati da importanti case editrici.
                                                    Agnese Miralli



giovedì 14 marzo 2013

Gio Ferri “L’assassinio del poeta. La chair des songes. Canti XXXVI - XLI”, inedito, 2013


Una frattura corre lungo il canto iniziale (Trentaseiesimo) del poema L’assassinio del poeta. La chair des songes. Canti XXXVI - XLI, inedito, 2013, (quinta parte del poema) attestata dagli spazi bianchi che dividono in due ciascun verso, la quale si riverbera nella sconnessione semantica fra concetti che nel canto sono visti come non solubili l’uno nell’altro: l’amore platonico, l’amore carnale. Così l’estasi per la bellezza, per la sfera morale, non compenetrano l’amore fisico e viceversa.  E se invece frattura non fosse nella poesia, ma nella vita, ciò si rivelerebbe più un’imperfezione nella poesia che c’illude, che una carenza nell’esistenza. La poesia consente di sognare che sia possibile ciò che è inconoscibile. Nella poesia parole e carne divengono liquide entrambe e si espandono trascinando il poeta nell’oblio della frattura. E ciò naturalmente travolge anche la creduta possibile verifica compiuta dall’intelligenza al fine di costruire conoscenza. Eppure è un dolce mondo quello in cui la passione si stempera, liberandosi dai suoi bisogni carnali e dalla vanità, dall’imposizione dei sensi. Vi si annullano anche le storie e le violenze: poesia come mondo di oblio, onirico.

Spossato dalla pervicace contrapposizione fra acquietamento dei sensi e brama carnale, il soggetto lirico cerca nella musica tedesca (“Ein Deutsches Requiem” di Brahms) un colloquio rasserenato fra la vita e la morte, ove la vita “è Nulla nel Nulla eterno”, rivisitando le forme della tradizione per ricostituirsi come soggetto attraverso esse. Tale ricerca viene effettuata nel campo dell’astrazione concettuale, seguendone la metamorfosi storica (attraverso le citazioni di vari poeti in un amplissimo arco temporale), ma qui la voce del soggetto lirico somiglia a un coro che riscrive in altra forma la citazione. La riscrittura è, infatti, una delle chiavi di volta dell’intera raccolta dei, fin qui scritti, cinque poemi. Riscrittura che è inevitabilmente risemantizzazione secondo un diverso punto di vista, ma nemmeno questa volta il soggetto sarà identificabile, secondo quella che è l’architettura dei poemi de “L’Assassinio del poeta”. Il soggetto, nutrito di cultura, è per definizione indefinibile, sfugge persino alla categorizzazione di poeta, così come non sarà la poesia né ad averlo ucciso né ad esserne vittima e chi insegue l’assassino o la vittima è al contempo colui che incarna entrambi.

Un magistrale canto ci sembra il Quarantesimo, in cui tramite l’ascolto della Quarta Sinfonia di Arvo Pärt, Gio Ferri dà luogo a un’esplorazione del corpo attuata con l’utilizzo di un lessico prelevato dal linguaggio critico musicale: “la carne s’espande in spazi siderali / l’onda melica batte in risacca / va e viene armonia d’epitelio”. Ove ancor meglio  si coglie che il tema della raccolta è il corpo e l’estasi che produce, di cui si cerca di restituire la totalità delle espressioni nell’esplorazione dei testi tratti da un vasto repertorio di generi. Il costante riferimento alle forme della tradizione è dovuto al fatto che esse sono garanti, per Gio Ferri, di rigore, di ordinata sequenza contro le “presenti irragioni”. Ma in esse la frattura che, questa volta interna, affiora solo in alcuni punti non oppone maggiore resistenza alla scissione, non arresta, ad esempio, l’offesa della vecchiaia.  Imperterrita è però la volontà di non arrendersi a questa chiusa, credendo che mai possa concludersi il viaggio e lo scandaglio dei tesori culturali, i quali si diramano in “spaesati altri labirinti” rinnovando i passi“ di un irrisolto destino, poiché, lo intuiamo, anche nel nulla persisterà frattura tra nulla e carne.       

  
Canto Quarantesimo

Umbro ancora in ascolto delle intime voci carnali, carezzevoli e sublimate che giungono da lontano  con la “Quarta Sinfonia” del compositore ucraino Arvo Pärt. *


teneri seni come diafane dune della rena
affonda le mani nelle sabbie dorate del docile corpo
il battito silente ovattato del grembo
ansia di delizie si tende dal ventre all’inguine
si strugge e par venga da lontano
la carne s’espande in spazi siderali
l’onda melica batte in risacca
va e viene armonia d’epitelio                                                                           8

viscerale pronubo respiro
va e torna alla valle degradante del ventre
svanisce l’ardente tocco all’intimo silente
respiro svuota la passione ma non l’anima
una cupa amorevole quiete di morte
finché solenne il rinato ritocco di campane
e di timpani spinge alla robusta paurosa
andante melodia della pulsante fibra                                                              16

battono al destino l’ondate
crescenti sonore cantabilità sommosse
e disperanti all’ansa puberale
pietoso l’adagio d’ampio grave sospiro
l’irrefrenabile passione
s’alza il canto ansante della diafana bocca
stringono morbide le braccia e invocano
fluente il dirompente piacere                                                                           24

lungo e sconsolante è l’abbandono e triste
percorre con la quiete delle dita lo spazio
intrattenuto del collo e dell’anca e dell’ansa
disperso calore delle sabbie
ma l’interrompe ancora l’ondata invadente
riprende il suono acuto un poco stridente
oltre il melodico languente sgomento
e l’amorosa dispersione                                                                                 32

si riallontana l’onda al sublime cobalto
oltre le dismisure dell’angoscia
quando tacita assenza s’ascolta
ritmico distacco del timpano sommesso
pizzicato battente che s’apre lento
al sovvenir del vento sorpreso dall’ansia
le lunghe pause addensate
di carezzevoli memorie                                                                                   40

emergono dalla rena gli archi del costato
riedono le angosce timorose d’abbandono
stringe protettiva la passione
risuonano le speranze delle percussioni
sommesse fra i coinvolgimenti cantabili
dei sensi e dei sessi e delle sensazioni
misteriche inspiegate irragioni
dell’essere impietoso alle delizie                                                                    48

alla voluttà delle carezze
quando richiama alle tristezze del destino
il battere d’una macabra danza
violenta nei giudizi inani e molesti
lamenti fra i battiti tremori d’amore e di
morte nella tragedia armonica che sopravanza
ma pur teme il ridicolo dell’ingenuità
d’una caducità irremovibile et insensibile                                                      56

ma l’armonico ha pure il suo strappo
acuto e fors’anche risibile d’una fanciullezza
sperduta nella vecchiezza e nell’impotenza
offesa dal rombo cupo dei bassi ritmici
nell’invadenza delle sonore ossessioni
dei pianti nostalgici i diletti impossibili
invissute lasciate tradite mai dimentiche
finché il vago vagare d’improvviso non s’arresta                                          64




* Arvo Pärt “Sinfonia n.4”, CD ECM Records GMBH, München 2010.


sabato 9 marzo 2013

“Codicillo di poetica” di Gilberto Isella


   La poesia è sempre “in avanti” (Rimbaud) e per questo è profezia. O se vogliamo, va dove è sempre già stata, là dove il principio di contraddizione (e dell’irreversibilità del tempo) non ha ancora compiuto i suoi disastri. Al luogo della (o delle) origini(e). Come dice Ossip Mandel’ŝtam: “La poesia è un vomere che ara e rivolge il tempo portando alla superficie i suoi strati profondi più fertili, la sua terra nera torna alla luce”.

  Questa nera Terra  (la voragine che vibra sotto la crosta del mondo e dell’io,   "vibrazione ininterrotta di un'apertura" - seppur nella 'negatività' del suo darsi – in rotta col tempo lineare e lo spazio euclideo), il poeta deve continuare a innalzarla, a illuminarla. Trasformarla, per alchimia verbale, in Thule, in Monte Analogo.

    Il poeta è l'uomo. L’uomo che riporta la terra-frammento alla totalità (perduta) del Cielo. E che esperisce con dolore l'impossibilità 'umana' di quest'atto.

    Ma tutto, di questa terra, dovrà essere offerto alla parola: anche l’afflizione carnale di un popolo sconfitto, le gesta dell’arrogante custode della polis, i suoi giri di trapano nel vivo marmo dell’Areopago. La peste di Tebe si perpetua nel tempo, il poeta lo ripete in nuovi simboli, con la straordinaria fragilità della sua parola.

     Morte sono le magnolie sui viali arsi dell’alleanza. La poesia deve dirla questa morte, ma sempre le manca la metafora-‘vortice’, luogo dell’impossibile.

   Troppo impetuoso il mare della metafora, e al pilota-poeta non è consentito deviare dai sillabari, dall’ordine di rotta, che per un istante.
   L’istante, quella lunetta bianca nel senso, gli basti. Gli basti il suo impeto rovinoso, perché la metafora vive del medesimo splendore  - il senso – che  accieca il poeta mentre accosta la riva.
 
  Viviamo, postumi, di deficienze virtuose: Campana, Artaud, Amelia Rosselli, Cacciatore, Emilio Villa, Blotto e pochi altri. Per delirio empatico, per sottrazioni e vertigini.

 Word in sorrow. Stecchi pure la parola, non importa. Ma ch’essa rimanga – tremando, arrossendo -  come la scala che conduce la Terra a quella sua luce perduta, da molti chiamata Cielo. Si azzoppi, ma il suo claudicare, il suo andare per lapsus faccia brillare fino all’insostenibilità dello sguardo l’oscuro, il sepolto.
Poiché la luce è palpito del nero.

Solitudine dell’essere è l’a-venire del senso.

  L’Essere, che la poesia porta al parossismo dell’apparire, è l’improbabile, l’assente. Come dice Jacques Dupin: “La poesia non respira, non si distende che tesa dal desiderio dell’altro. Poiché l’altro è lo sconosciuto, poiché essa è sempre l’assenza…”

  La poesia, che non ha dimora propria, è ospitalità dell’altro (Jabés).
  Accolto nella parola poetica, l’altro riconosce l’impossibilità del dimorare.

  Il linguaggio non è la casa dell’Essere, ma del suo nomadismo.
  Oppure: è la mutevole pienezza di una faglia.

   Viviamo nell’epoca della desacralizzazione, della nietzscheana morte di Dio. Dove cercare allora l’Altro? “Il coraggio del poeta è nel contempo di portare nella lingua il pensiero di Dio che si è ritirato e di concepire il problema del suo ritorno come una parentesi aperta in ciò di cui il pensiero è ancora capace” (Alain Badiou). È in riferimento a questa condizione epocale che va interpretata la solitudine dell’Essere, o l’esilio al quale l’Essere è condannato dalla scienza, dal linguaggio istituzionale, dai luoghi comuni dolcificanti di cui il magma sociale ci nutre ogni giorno.

   Essere non significa necessariamente Sublime. Tutt’altro: è la pastosità bianca di ogni cosa. L’essere che insorge, minima Lichtung, dalle frange più povere, derelitte e indifese del linguaggio.
   L'Essere si annuncia quando il linguaggio chiede alla poesia di prendersi cura del mondo. Una cura disperata (come in Benn, Celan, Campana), che, se non redime il mondo,  lo porta nondimeno alla sua piena epifanizzazione, elevando le sue lacerazioni, la sua follia, al Senso.
   La poesia infonde “mondo”all’elemento infimo, lo fa essere-mondo
[“la mela povera si carica di mondo”, per citare un mio verso, in Taglio di mondo.]

  Questa gaudiosa povertà del dire (dire l’ombra, l’oggetto rifiutato, la perlina smarrita nella sabbia…il rovescio dunque dell’utile, del monetizzabile) fonda la resistenza dell’atto poetico. La poesia è atto di resistenza contro la  lingua di comunicazione, che ci assale con la sua ‘violenza vuota’: vuota d’anima, vuota di senso. Essa risponderà, ad esempio, con la violenza sottilissima della parola di un corpo che non accetta più la patinata reificazione in cui l’immagine (clinica, societaria, pubblicitaria) la costringe.
   Sarà la violenza euforica del dionisiaco, oppure l’ictus tragico del corpo divelto, violato, massacrato che si ribella. I due sembianti di un medesimo corpo. Reversibili, entrambi, nell’enigma.

  La poesia dice la verità come ossimoro. Dice le verità plurali e contraddittorie.

  La poesia annuncia quell’enigma, o quell’Ossimoro assoluto che è l’esistenza.
                                                
                                                       Gilberto Isella

mercoledì 6 marzo 2013

Thomas Bernhard “Goethe muore” Adelphi, 2013



I quattro geniali testi collezionati in Goethe muore, Adelphi, 2013, di Thomas Bernhard costituiscono l’occasione per mettere sul tavolo la dibattuta questione del suo stile: la variazione della frase che viene presentata in tutte le versioni possibili. Il periodo sarà dato dalla somma delle varianti della frase iniziale modificata secondo i punti di vista dei personaggi presenti nel testo o dei possibili modi di dire la medesima cosa. Se è stato messo in risalto, dalle fonti critiche,  che Bernhard avesse una profonda preparazione musicale, e dunque avesse mutuato analogicamente alcune strutture musicali (la ripetizione, la progressione, il ritmo, la polifonia) nell’elaborazione dei suoi testi, pure ci si deve chiedere in che cosa può consistere l’analogia tra i due campi: qual è il portato semantico della sua trasposizione, quale sia, invero, il valore ermeneutico di una musicalizzazione dei processi linguistico-stilistici. Forse in questo caso, il servigio reso dall’analogia è poco significativo, superfluo, sviante. Gli scrittori adoperano gli strumenti letterari e linguistici, non quelli musicali, i quali non hanno quasi nulla in comune con il linguaggio.

Seguendo il procedimento della variazione messo a punto dallo scrittore austriaco, notiamo che è esso è attuato con modalità differenti in relazione all’obiettivo. Le diverse voci nel primo testo Goethe muore, sono legate a una continua precisazione del soggetto che sta narrando, poiché le voci quasi si sovrappongono (Riemer, Kräuter, Eckermann). Il soggetto, pertanto, si rivela di plateale irrilevanza, vista l’assimilazione del contenuto, e l’autore, infatti, dichiara a chiare lettere che i segretari che s’affollano intorno a Goethe sono dei mediocri. È la forma, indi, ad assumersi l’onere di creare un cortocircuito fra le identità, riunificandole sotto una medesima etichetta: sovrapponibili. Ma il testo ruota intorno a un’altra questione individuabile nell’affermazione su Goethe: “Il Teatro nazionale lo avrebbe rovinato lui, Goethe, così secondo Riemer avrebbe detto Goethe, era stato lui, Goethe a mandare in rovina il teatro tedesco...”. Così come avrebbe annientato Schiller e la letteratura tedesca. Contro Goethe, Bernhard arrota la sua sferzante ironia: l’invito a incontrarsi rivolto da Goethe a Wittgenstein in quanto unica persona a cui egli riconoscerebbe pari valore serve ad arroventare l’attribuzione di megalomane a Goethe.

Nel secondo testo, Montaigne, che ha per oggetto lo scontro tra un figlio e i genitori, ove per il figlio vi è un’unica oasi di pace che consiste nel rintanarsi nella biblioteca a leggere i testi di Montaigne, si assiste al disinnesco della monoliticità della verità: se dapprima si crede che siano i genitori a provare odio verso il ragazzo, il testo nel suo movimento metamorfico, simile ai movimenti di un serpente che si stia liberando della vecchia pelle, finisce con l’iniettare un veleno nel lettore, il quale non può più credere che la verità sia solo quella dell’odio genitoriale. Questi moti di avvicinamento a una verità costruita come inseparabilità del recto dal verso  sono dati ancora dal fraseggiare che cambia continuamente: “Così per tutta la vita mi hanno accusato ora di veridicità ora di mendacio, e molto spesso di veridicità e mendacio insieme, e in fondo è da una vita che mi accusano di veridicità e di mendacio, così come io stesso li accuso di veridicità e di mendacio”. Entrambe le verità emergono in forza di quel rovesciamento che trasforma l’odio ricevuto in odio restituito. In questa situazione non s’innesta nessun paradosso, perché le due verità non si escludono. Non sono verità contraddittorie: non appartengono allo stesso genere. Montaigne diviene, nel testo, il simbolo per il ragazzo di quella libertà e ricerca di autonomia che, appunto, contraddistingue il filosofo, in contrapposizione al comportamento coercitivo dei genitori, indicando la non ineluttabilità dei comportamenti: da rapporti oppressivi ci si può liberare, il cerchio si può spezzare.

Ma è nel terzo testo, Incontro, che si comprendono più dettagliatamente i motivi dell’ossessivo odio maturato dal ragazzo a causa dell’insensibilità e dell’assoluta mancanza di tenerezza, della crudeltà e inutilità delle pretese educative dei genitori, i quali rendono i figli dei carcerati. Nel testo viene utilizzata la variazione della frase, rivoltata e rovesciata in tutti i possibili modi per esaltare l’ingabbiatura del senso, che risulta così non altrimenti declinabile, ferreo come una condanna a morte, mentre la frase si è come dissanguata nello spasmo delle sue evoluzioni. La verità sui genitori è inappellabile, immodificabile. Persino la possibilità del perdono apparirebbe come una futile procrastinazione nel tempo vista l’inesorabilità dell’assunto: il disastro genitoriale si espanderà a macchia d’olio sull’intera vita del figlio.   Abbiamo in ogni caso visto come la variazione sia del tutto consustanziale al testo, ne innervi la struttura e il senso e ogni volta secondo una diversa prospettiva semantica, impedendo che la variazione si fissi come derivata analogica del musicale, sia essa in relazione o scissa dal tema, appartenendo a pieno titolo a una funzione linguistica.

Nel quarto Andata a fuoco è la volta dell’espressione dell’odio per tutto ciò che è austriaco. L’odio per l’Austria è assoluto e la reiterazione conferma ancora una volta che se il significato musicale della variazione è la variazione stessa, non così è in letteratura. Qui, l’insistenza  e la ripetizione  sono misura della repulsione che si prova contro tutto ciò che è oppressione, stupidità, grettezza, asservimento fisico e mentale, rispetto ai quali non bisogna mai deporre le armi. La nausea e il disgusto, così sgorganti e veementi, fungono, appunto, da armi per ribadire differenze e distanze. L’intera raccolta viene a  configurarsi come un battente proclama in favore della libertà, contro l’oppressione da qualsiasi campo essa provenga.    

Rosa Pierno

domenica 3 marzo 2013

Tre poesie inedite di Giorgio Bonacini, 2013



I
Se sono i fantasmi a veicolare le cose sensibili e con esse le sensazioni di colui che scrive,  allora già solo per questo la vita si fa più calorosa e vivida, in una sorta di contraccolpo, che riesce a delineare persino un avvenire. E’ così disegnato da Giorgio Bonacini, con stringatissimi elementi, l’ambiente, la scenografia chiusa e claustrofobica, da esperimento, in cui il soggetto si sente rinchiuso e in cui fa esperienza del fantasma, che parrebbe essere, appunto la vita che si palesa fra spettrali alberi, o contro il buio in cui bisogna risiedere per rincorrere le proprie visioni. Eppure concretissime, capaci di assumere un ruolo, di resistere all’indagine.
II
Da che cosa proviene questa proiezione mnemonica, che sembra volere solo il proprio annientamento? Tenace, inevitabile nel suo imporsi, capace di far risorgere ciò che sta tradendo per meglio farlo emergere. Pura voce altrui, flebile e persistente, “canto futile”, proveniente da non si da dove, “destinato a dire altro / senza lingua”. Se riuscisse a esprimere l’indicibile trascinerebbe inevitabilmente l’idea in un’imperfezione, anche se la poesia vi sarebbe ancora avulsa dalla voce particolare di un poeta.
III
Guardingo, il poeta esamina la pretesa di naturalezza e veridicità della poesia, “l’immediata conoscenza delle cose” che essa sembra conseguire in un percorso che interseca natura e ricordi, rappresentazione e sensazioni, poiché, in ogni caso non assommano esistenza. Il senso che ammanta “insospettisce”, poiché troppo facile appare, vera  e propria illusione, la coincidenza tra ciò che si vive e ciò che viene espresso tramite la lingua e per conto delle cose.  

Le tre poesie disegnano cerchi che si sovrappongono, ma non si saldano, nessun elemento si lega con il successivo, ogni questione vi resta sospesa poiché il poeta riconosce la loro incompenetrabilità. Lo stile utilizzato in questa ultima prova da Bonacini riesce a mantenere un miracoloso equilibrio tra il pessimismo e la levità, complice l’uso di   lessemi che costituiscono coppie oppositive: i ricordi e i gesti,  le nebbie e  i colori, ciò che è immobile e ciò che è fulmineo, ciò che brucia e  ciò che gela, ciò che è lapideo e ciò che avvolge, svelando una struttura che se mette in luce le incompatibilità dei concetti, pure ne fa divampare scintille di attrito, contatti a pieno titolo nell’asciutta brevità del verso. La poesia vi compare in doppia veste: nel ruolo di svelare e di far dimenticare, di dare vita e togliere consistenza, di essere impersonale, eppure di palesarsi con voce e corpo. Un’idea della poesia, alfine, di anelli disgiunti, carnalmente risonanti.

                       Mangiare quella siepe
ridurre la sua immagine a un cervello per la neve

Vedere le voci
toccare i fantasmi
annusare
i ricordi e di colpo
capire anche
i gesti abituali –
le nebbie
e i colori, i deserti
sgomenti in ascolto
di rondini, lacrime e lave.

Dai bordi del viso
alle palpebre
agli occhi
dal mento alle guance
intuisci un disagio
che allinea tra i denti
per rompere
il freddo di qua:
dove ancora di colpo
c’è vita a venire.

E’un’ansia innocente
bianchissima, rara
più densa
del buio che occorre
all’oscuro per darsi
al gigante
e dividere a caso
tra l’albero e il fiume
un attrito avvolgente
e fulmineo di pelle.

Ma il freddo
ora sembra agitare
la trama di un sole
che arriva
alla neve e potrebbe
stupire - diffondere
un brivido, un germe
un’immagine ancora
non vista vedere
né al tatto svanire.


L’aria che ci perde e che ci assiste
il cielo parla senza chiederne la voce


Che memoria sarà mai
quella che attende
di nascosto
l’invasione di un oblio –
specchio di nulla
e decadente
ora riflette un’aria
immobile, deserta
tesa nell’istante
in cui non sai ciò
che ricordi o se hai ricordi.

Ma un voce
anche se fosse uno sbadiglio
nel trapasso, non si perde –
può apparire
in mezzo ai simboli
del caso e intimorire
trascinarsi nel disordine
di un vuoto
più isolato, ma portare
nel contatto di un azzurro
a immaginare
ciò che è o che tradisce.

E sembra sorgere
da un luogo improvvisato
il manufatto
che si piega e si consuma
e incontra il vento
e la parola di chi dice
è un canto futile, dissimile
un inverno
destinato a dire altro
senza lingua, senza luogo
senza niente
di pronuncia e di bruciato.

Cosa importa
un’elegia sopra le nuvole –
anche potendo
reclamarne l’invisibile
a patire, esaurirebbe
in un difetto
la sua idea, la consistenza
di un esempio
di poesia senza l’affanno
o le intrusioni
o l’ingiustizia del poeta.



Non un lamento né un verbo di più
oltre i limiti chiari e spietati

Un grado di calore
mi riveste –
anche buttandomi
nel fiume, anche
stringendomi alle foglie
mi ricopre –
è la misura di un timore  
il sotterfugio
che respinge nella notte
 l’immediata
conoscenza delle cose.

Ma tu lascia che la luce
si diffonda e buchi
e strappi in alto
imprecisata
e rapida – la linea
che descrivi come l’orbita
di un dubbio
o un viso storto
ora discende inalterata
sui ricordi
li nasconde tra la curva
delle labbra e li raccoglie.

Ma il soffio che rimane
assorbe il gelo
porta fuoco senza peso
un sentimento
innaturale tra le palpebre
e le labbra –
il tono dei lamenti
che discende
è inaccettabile, una sabbia
un’ombra inabile
che assorbe e non avvolge.

Fuori la stagione
si prepara – le foglie
che divampano ci scrutano
con fare lapidario
 e il senso che ci avvolge
insospettisce –                        
è la stessa ondulazione
di un sorriso
il ritmo che addormenta
e parla a vanvera                            
per conto
della lingua e delle cose.

                               Giorgio Bonacini