I
Se sono i
fantasmi a veicolare le cose sensibili e con esse le sensazioni di colui che
scrive, allora già solo per questo la
vita si fa più calorosa e vivida, in una sorta di contraccolpo, che riesce a
delineare persino un avvenire. E’ così disegnato da Giorgio Bonacini, con
stringatissimi elementi, l’ambiente, la scenografia chiusa e claustrofobica, da
esperimento, in cui il soggetto si sente rinchiuso e in cui fa esperienza del
fantasma, che parrebbe essere, appunto la vita che si palesa fra spettrali
alberi, o contro il buio in cui bisogna risiedere per rincorrere le proprie
visioni. Eppure concretissime, capaci di assumere un ruolo, di resistere
all’indagine.
II
Da che cosa
proviene questa proiezione mnemonica, che sembra volere solo il proprio
annientamento? Tenace, inevitabile nel suo imporsi, capace di far risorgere ciò
che sta tradendo per meglio farlo emergere. Pura voce altrui, flebile e
persistente, “canto futile”, proveniente da non si da dove, “destinato a dire
altro / senza lingua”. Se riuscisse a esprimere l’indicibile trascinerebbe
inevitabilmente l’idea in un’imperfezione, anche se la poesia vi sarebbe ancora
avulsa dalla voce particolare di un poeta.
III
Guardingo, il
poeta esamina la pretesa di naturalezza e veridicità della poesia, “l’immediata
conoscenza delle cose” che essa sembra conseguire in un percorso che interseca
natura e ricordi, rappresentazione e sensazioni, poiché, in ogni caso non
assommano esistenza. Il senso che ammanta “insospettisce”, poiché troppo facile
appare, vera e propria illusione, la
coincidenza tra ciò che si vive e ciò che viene espresso tramite la lingua e per
conto delle cose.
Le tre poesie
disegnano cerchi che si sovrappongono, ma non si saldano, nessun elemento si lega
con il successivo, ogni questione vi resta sospesa poiché il poeta riconosce la
loro incompenetrabilità. Lo stile utilizzato in questa ultima prova da Bonacini
riesce a mantenere un miracoloso equilibrio tra il pessimismo e la levità,
complice l’uso di lessemi che
costituiscono coppie oppositive: i ricordi e i gesti, le nebbie e
i colori, ciò che è immobile e ciò che è fulmineo, ciò che brucia e ciò che gela, ciò che è lapideo e ciò che
avvolge, svelando una struttura che se mette in luce le incompatibilità dei
concetti, pure ne fa divampare scintille di attrito, contatti a pieno titolo
nell’asciutta brevità del verso. La poesia vi compare in doppia veste: nel
ruolo di svelare e di far dimenticare, di dare vita e togliere consistenza, di
essere impersonale, eppure di palesarsi con voce e corpo. Un’idea della poesia,
alfine, di anelli disgiunti, carnalmente risonanti.
Mangiare quella siepe
ridurre la sua immagine a un
cervello per la neve
Vedere le voci
toccare i fantasmi
annusare
i ricordi e di colpo
capire anche
i gesti abituali –
le nebbie
e i colori, i deserti
sgomenti in ascolto
di rondini, lacrime e lave.
Dai bordi del viso
alle palpebre
agli occhi
dal mento alle guance
intuisci un disagio
che allinea tra i denti
per rompere
il freddo di qua:
dove ancora di colpo
c’è vita a venire.
E’un’ansia innocente
bianchissima, rara
più densa
del buio che occorre
all’oscuro per darsi
al gigante
e dividere a caso
tra l’albero e il fiume
un attrito avvolgente
e fulmineo di pelle.
Ma il freddo
ora sembra agitare
la trama di un sole
che arriva
alla neve e potrebbe
stupire - diffondere
un brivido, un germe
un’immagine ancora
non vista vedere
né al tatto svanire.
L’aria che ci
perde e che ci assiste
il cielo
parla senza chiederne la voce
Che
memoria sarà mai
quella
che attende
di
nascosto
l’invasione
di un oblio –
specchio
di nulla
e
decadente
ora
riflette un’aria
immobile,
deserta
tesa
nell’istante
in
cui non sai ciò
che
ricordi o se hai ricordi.
Ma
un voce
anche
se fosse uno sbadiglio
nel
trapasso, non si perde –
può
apparire
in
mezzo ai simboli
del
caso e intimorire
trascinarsi
nel disordine
di
un vuoto
più
isolato, ma portare
nel
contatto di un azzurro
a
immaginare
ciò
che è o che tradisce.
E
sembra sorgere
da
un luogo improvvisato
il
manufatto
che
si piega e si consuma
e
incontra il vento
e
la parola di chi dice
è
un canto futile, dissimile
un
inverno
destinato
a dire altro
senza
lingua, senza luogo
senza
niente
di
pronuncia e di bruciato.
Cosa
importa
un’elegia
sopra le nuvole –
anche
potendo
reclamarne
l’invisibile
a
patire, esaurirebbe
in
un difetto
la
sua idea, la consistenza
di
un esempio
di
poesia senza l’affanno
o
le intrusioni
o
l’ingiustizia del poeta.
Non un lamento né un
verbo di più
oltre i limiti chiari e
spietati
Un grado di calore
mi riveste –
anche buttandomi
nel fiume, anche
stringendomi alle
foglie
mi ricopre –
è la misura di un
timore
il sotterfugio
che respinge nella
notte
l’immediata
conoscenza delle
cose.
Ma tu lascia che la
luce
si diffonda e buchi
e strappi in alto
imprecisata
e rapida – la linea
che descrivi come
l’orbita
di un dubbio
o un viso storto
ora discende
inalterata
sui ricordi
li nasconde tra la
curva
delle labbra e li
raccoglie.
Ma il soffio che
rimane
assorbe il gelo
porta fuoco senza
peso
un sentimento
innaturale tra le
palpebre
e le labbra –
il tono dei lamenti
che discende
è inaccettabile,
una sabbia
un’ombra inabile
che assorbe e non
avvolge.
Fuori la stagione
si prepara – le
foglie
che divampano ci
scrutano
con fare lapidario
e il senso che ci avvolge
insospettisce
–
è la stessa
ondulazione
di un sorriso
il ritmo che
addormenta
e parla a
vanvera
per conto
della lingua e
delle cose.
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