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lunedì 29 ottobre 2012

CONVEGNO DI ANTEREM: POETICHE DEL PENSIERO

Come ogni anno, nell’ambito delle cerimonie di premiazione del Premio Lorenzo Montano, la rivista “Anterem” promuove in collaborazione con la Biblioteca Civica di Verona un importante Convegno di poesia.

Sono in cartellone quattordici appuntamenti nel corso dei quali la poesia incontra la filosofia, la musica, la psicoanalisi e l’arte. Tali eventi si svolgono da sabato 10 novembre a domenica 18 novembre 2012 negli spazi della Biblioteca Civica di Verona, via Cappello 43.

Il Convegno ha per titolo “Poetiche del pensiero” ed è curata da Flavio Ermini e Raniri Teti. La finalità è far emergere l’intima relazione che unisce la poesia e le complesse problematiche del nostro tempo. Tra i relatori: Lorenzo Barani, Stefano Baratta, Alfonso Cariolato, Agostino Contò, Paolo Donini, Stefano Guglielmin, Tiziano Salari, Carla Stroppa, Vincenzo Vitiello.

Questa manifestazione muove da un’identità poetica molto precisa, caratterizzata dalla posizione concettuale e dal percorso di conoscenza della rivista “Anterem”. L’intento è di far amare a un numero sempre più vasto di lettori la grande poesia contemporanea e della modernità.

Con questa iniziativa “Anterem” vuole dare una visibilità critica sempre maggiore alle opere dei poeti vincitori, dei finalisti e dei segnalati per tutte le sezioni in cui il Premio Lorenzo Montano si articola: “Raccolta inedita”, “Opera edita”, “Una poesia inedita”, “Una prosa inedita”, “Poesie scelte”.


Per ulteriori notizie: www.anteremedizioni.it

sabato 27 ottobre 2012

Francesco Osti “Viale Orobie” Edizioni L’Arca Felice, 2011





Se leggendo non siamo all’interno di un testo epifanico è soltanto perché non c’è rivelazione della realtà – sebbene essa sia tratteggiata nei suoi aspetti più insignificanti e privi di senso, facciano cioè parte di tutto ciò che ci accade d’insignificante in una giornata, che all’improvviso si accenda rivelandoci aspetti sorprendenti, come indicava Joyce – ma solo il suo riconoscimento o il riconoscersi in essa. Un ritrovarsi nell’umile che diventa sensuale tramite una percezione pittorica, diremmo, uno sguardo esperto nel disporre i fiori nel vaso e nel saperne godere. E Francesco Osti, in “Viale Orobie” Edizioni L’Arca Felice, 2011, (prefazione di Mario Fresa, disegni di Michele Mazzanti) non si trattiene nemmeno dall’adulterarla la realtà, dal renderla artificiale, prestandole ciò che non ha tramite analogie visuali del tutto immaginarie. Così le piccole celle divengono “abbandonate alla lievitazione” e il viso di una donna si trasforma in un “volto di cartone pitturato”. L’autonomia dal reale non potrebbe essere più sbandierata, perché altra, mentre ne cogliamo soltanto gli aspetti già interpretati, atto creativo per eccellenza, così come il ricorso alla pittura e alla rappresentazione in genere testimoniano, dove appunto l’artificiale è il culturale. Ecco dunque che il ricorso all’interpretazione del dato reale diventa un salvagente in grado di salvare dall’insignificanza di una realtà altrimenti inadeguata e insufficiente per colui che la abita, poiché priva del soggetto.

Le lasse inizianti sempre con alcuni puntini sospensivi rammentano che esse appartengono a un flusso riflessivo in cui ogni cosa viene tolta dal nulla, liberata dall’anonimato, e viene dotata di uno spazio di risonanza a tratti misterico, in cui si è in presenza di un enigma da sciogliere, una sapienza intravista o immaginata a cui accedere. Osti appunta l’intera sua attenzione sull’aspetto estetico, vera via di conoscenza. Colui che ne percorre le vie è capace di ordinare e collocare, di discernere e di attribuire significato (liberando così l’estetica da chi la vuole via alternativa alla conoscenza raggiunta per via razionale).

Attenzione agli aspetti estetici della realtà in grado di produrre poesia (“Figure continueranno a sonnecchiare nella saletta ristoro ingessate al loro sogno”). Ed è una poesia dove la visionarietà è sottile come un filo di seta e resistente quanto un tessuto. Ciò che sembra dimesso e flebile ha in realtà  forza: sulle pagine le analogie e le osmosi hanno duttilità e precisione per penetrare in materie differenti e per modificarne la sostanza: quella del soggetto percepiente.

…la banda del forno è l’arte di ferro e tela, quando esce finisce la cottura ed il tamburo la riavvia; sul momento è talmente calda che le mie ossa arroventano e i miei nervi legano con l’orzo e l’avena…

Siamo di fronte a una dichiarata alchimia in cui è divenuto finalmente congruente ciò che ci si ostina a voler tenere, in altri luoghi, separato: ragione e passione, reale e mentale, vero e falso.

…l’idea si è ancorata, è diventata il punto fermo della lavorazione: sì, l’ho bevuto alla fine quell’alchemico intruglio di fiamma e oro, malto e assenza di rima…

                                                                                 Rosa Pierno



Francesco Osti (1976). Suoi testi sono apparsi su alcune riviste e antologie.  Ha pubblicato le raccolte di poesie Errore di sintassi, Lietocolle (2005); Itinerari, Stampa2009, 2010.

La pregevole collana “Coincidenze”, diretta da Mario Fresa viene proposta in esemplari numerati a mano, con litografia.

martedì 23 ottobre 2012

Silvia Bordini “Appunti sul paesaggio nell’arte mediale” postmedia data, 2010



Se il paesaggio nell’arte mediale determina senz’altro un dialogo tra i temi della natura e dell’artificio, della rappresentazione e della imitazione, dei modi in cui ci rapportiamo alla natura e ci rappresentiamo, è anche vero che  nella verifica delle singole opere si assiste statisticamente a un affollamento delle occorrenze pressoché totale intorno ai temi dell’ecologia e dell’uso del mezzo mediale, ove quest’ultimo modifica non solo la percezione, ma la struttura, il linguaggio, divenendo parte integrante della narrazione. Silvia Bordini parte, per la sua disamina, dalla Land Art, in cui la registrazione è il modo in cui si testimonia l’accaduto: con essa si mostra che si è proceduto con un’azione effimera di cui si possono esporre solo prove documentali come progetti, disegni, foto, filmati.

In questione è il problema del rapporto con la natura dopo che la pittura è sparita dalla linea dell’orizzonte. La Bordini, riferendosi agli studi di Garraud, il quale sostiene che “almeno dagli anni Sessanta, non si può più pensare al rapporto tra arte e paesaggio in termini di pittura soltanto” poiché “è altrettanto vero che in generale l’arte non pensa più a se stessa in termini di pittura”, sottolinea che, inoltre, si insedia in quegli anni “un concetto di opera come luogo di sperimentazioni percettive e dinamiche e come esperienza legata al comportamento dell’artista e dello spettatore”. In tali opere, eppure, se la natura sembra essere l’oggetto della rappresentazione, ricercare una costellazione di significati e di relazioni che nascano da questo dialogo pare del tutto infruttuoso. Al massimo se ne potrà trarre qualche considerazione ecologica, sociale, politica, tant’è che la Bordini specifica giustamente che in generale, l’attenzione ecologica verso il paesaggio è assolutamente predominante e segue sostanzialmente le seguenti tipologie: “il documento di denuncia e la metafora, l’immagine del degrado e quella della nostalgia, il disastro presente e futuro e il sogno di un mondo incontaminato di cui l’arte rincorre la memoria e l’utopia”.

Silvia Bordini evidenzia anche l’esistenza della polemica relativa al neologismo greenwashing che “indica le attività promozionali di aziende e industrie che si dedicano all’ambiente per far dimenticare il ruolo che svolgono nell’inquinamento”  commissionando o sostenendo artisti che raccontano il saccheggio delle risorse, la deforestazione, la devastazione apportata dall’uomo e che hanno come obiettivo, “supportato anche da contributi teorici nei cataloghi”,  di sollecitare una riflessione critica sul rapporto uomo-natura. Si utilizzano a questo fine materiali effimeri come le piante, sostanze riciclate, si installano orti e piccoli vivai, “a volte sperimentando forme di energia alternativa”. Questi autori mostrano “contraddizioni tra istanze estetiche ed etiche, e tra l’adesione alle regole del mondo dell’arte e la radicalità richiesta dall’impegno di una cultura ecologica”.

In ogni caso, la parte del leone la fa il mezzo mediale. La gamma è ampia: si va dalla citazione di quadri pittorici (dunque opere non immemori della tradizione pittorica)  all’accelerazione o rallentamento del tempo di ripresa, dall’introduzione di suoni, rumori, musica (la soundwalk è la passeggiata sonora) alla dilatazione, sovrapposizione e intersecazione di  spazi, dallo “stabilire legami con un ‘altrove’ personale e culturale” al “salvare luoghi e icone di un’epoca precedente”. Silvia Bordini sintetizza con grande chiarezza e lucidità che tali opere sarebbero improntate “dall’idea di una seconda natura artificiale, identificabile con la natura del medium”, potendosi individuare in tali esperienze sospese tra suggestioni, disorientamento, e una simulazione immersiva e interattiva - in cui la realtà è esorcizzata da” una stratificazione di riferimenti simbolici” e la sua restituzione viene affidata a “una sorta di visioni fuggitive che non richiedono di essere spiegate” - un altrove perturbante, una mobile zona di confine tra artificio e natura”.

                                                                       Rosa Pierno

venerdì 19 ottobre 2012

Franc Ducros su "La tâche terrestre des mortels" di Flavio Ermini

Premessa di Franc Ducros al volume di Flavio Ermini, La tâche terrestre des mortels, Lucie éditions, Nîmes, 2012



Da dove è uscita la voce che ha dettato questo libro?
Giunta forse da un tempo immemorabile a posarsi, viva e attiva, non proprio alla nostra portata, poiché occorre andarle incontro, tendere l’orecchio per udire – tentare di udire – ciò che da essa ci viene, e continua a venire: la parola.
Che per aver trovato e superato ogni identità soggettiva, non è più la voce di nessuno, e tutte le trascende. Parola universale.
Mitica, essa detta. E non dice tutto. Della sua originaria provenienza lascia intendere o ha conservato solo frammenti sopravvissuti a un mondo per sempre ignoto, cui non abbiamo accesso. Ma che è il luogo indecidibile da cui essa proviene e da dove, qui giunta, ci parla.

*
Come tutti i testi sacri, essa dice la Legge. Che esige, per essere rispettata, di essere anzitutto intesa, e compresa.
Ma questa Legge, imperativo morale, non è, come altre, dogma. È in primo luogo, addirittura esclusivamente, conoscenza in atto. Decifrazione all’opera abbagliante, sicché il senso nel suo fulgore vi si cela. Esigendo così da ogni lettura di essere infinitamente reiterata.
La ragione di questa inesauribile risorsa sta nel fatto che siamo noi questo mistero, ciascuno e noi tutti insieme, nell’inestricabile rapporto con noi stessi e ancor prima con la materia di cui siamo fatti, che ci sostanzia e costruisce, ci avvolge, sostiene e pervade. Di questa materia universale, la voce dice, dalla sua remota infinitezza, ciò che di essa ci richiede, e da noi esige.
*
Quale scriba, che non poteva esser altro che un maestro, ha dettato o trascritto le rivelazioni di questo libro, piegandosi all’imperativo di comporle, di ri-comporle persino, secondo un ordine a posteriori anch’esso dipendente dalla Legge? Del cui senso costituisce anche l’esplicitazione simbolica. Infatti, a partire dagli «elementi indecifrabili della materia», il libro si costruisce in quattro tempi, anch’essi disposti come un chiasmo: il primo (sulla terra) e il quarto (la casa terrestre), all’insegna della cifra quattro, cifra della Terra che ci sostiene e ci accoglie, ognuno composto di sei testi, sotto il segno dell’evento imminente che sarà il settimo a venire; il secondo (sotto il cielo) e il terzo (la guardia celeste) sono invece composti ciascuno di cinque testi, raffigurazione del cielo che ci circonda, noi mortali marchiati dalla cifra cinque.
*
Con questo libro Flavio Ermini approfondisce la sua meditazione poetica iniziata con Poema n. 10 Tra pensiero (2001), poi sviluppata nel 2006 in Il moto apparente del sole e nel 2009 con L’originaria contesa tra l’arco e la vita, in cui si intrecciano racconti, argomentazioni, canto. Questa meditazione culmina qui in un estremo affinamento della lingua, espressa dalla voce anonima che dissimula la sua complessità sotto un’impeccabile nudità.

                                                            (tr. Anna Chiara Peduzzi)

domenica 14 ottobre 2012

Franco Fanelli, acquafortista


Mostra, a cura di Guglielmo Gigliotti,  presso la Galleria Aleandri Arte Moderna, via dei Coronari, 146, Roma, dall’11 ottobre al 3 novembre 2012  

                                          
Che lo scudo di Achille descritto nell’Iliade da Omero fosse la più celebre se non la prima descrizione verbale di un’opera d’arte non è da assumere come del tutto arbitraria cornice di riferimento se parliamo dell’opera di Franco Fanelli, che di arte si occupa anche da un punto di vista verbale. Le sue prime opere hanno come oggetto, infatti, uno scudo (Delfica, 1988-89; Eritrea, 1988) ove però accadono singolari cose: non si distingue nulla, se non la linea ovale o tonda  del contorno, mentre al centro, al posto della descrizione, vi è una pugna da cui si alza un polverone segnico, un cozzo brutale d’armi, un clamore che annebbia la vista. Nessuna figura, nessuna città, nessuna gigantomachia (le figure che normalmente istoriavano gli scudi) è nettamente distinguibile. Siamo nel vivo di una straordinaria capacità visionaria che riesce a farsi non solo immagine, ma suono. Le linee, le retinature, gli sgraffi, le barbe si addensano come una nuvolaglia di cavallette, si diradano lasciando trasparire il vuoto, ma mai allignano come riconoscibili figure. Lo scudo come specchio di quel che avviene nella cruenta realtà e di cui per analogia si fa indicatore di senso. Fanelli incatena il senso a immagini mobilissime, metamorfiche, informali attraverso oggetti che divengono espedienti per meglio catapultare il fruitore nell’azione scenica – sempre drammatica. In questo senso nessun oggetto è inerte, ma essenzialmente evocatore di plurime dimensioni temporali e geografiche, giacché in queste splendide preziosissime acqueforti, il passato, nelle sue evenienze,  è l’unica cosa presente:  il presente è solo l’atto della lettura o della visione provocata dall’oggetto evocatore. Il gusto della mescita, dell’accostamento stordente, di chiara derivazione piranesiana,   fra oggetti distantissimi aumenta vertiginosamente la loro capacità di scompaginare e fratturare le medesime immagini che concorrono a formare e da cui affiorano e percolano le nuove colate visive, i sibili e il frastuono del vento o le meravigliose e sensuali palme che crediamo d’intravedere tra le tre colonne del tempio. E le scimmie che troneggiano sulle urne,   le scimmie che condividono, con il ribollire di segni ferrosi su cui poggiano, il loro pelo, quasi a indicare una diretta genesi dal segno. Segno che, fra l’altro, la scimmia condivide con lo spazio, perché la limatura nera segna e macchia di sé pavimento e fondo, rendendoli concreti, visibili, ma dunque sempre in funzione dell’alfabeto originario, diremmo, quello da cui origina il mondo. Si direbbe che è presente persino una fantomatica scala dei grigi in cui il la finezza della peluria del mantello dell’animale è accostata a zone in cui una tramatura più grossa raggiunge rapidamente la saturazione del nero: non trattandosi, nel caso dell’acquaforte, che della gradazione di un finto grigio, visto che è in realtà prodotto solo dalla relazione fra nero e bianco. 


Sembra che, pertanto, Fanelli indichi qualcosa attraverso la presentificazione di qualcos’altro. Dalla torre di Babele, ai vasi cinocefali, dall’Arco di Orange alle lussureggianti palme, le drammatizzazioni in atto riguardano la lotta mortale tra il nero e il bianco, lotta metamorfica in cui i contendenti non temono di assumere le sembianze del nemico,  (si notino i palmizi in Orange II, 2011,  che risultano contemporaneamente proiettati alla base del tempio facendo pensare, questa volta, inoltre, che la superficie riflettente, sia posizionata al posto del fruitore). Il metamorfismo qui diviene un gioco metafisico, nel senso che è al di là, appartiene all’ordine astratto,  all’ordine dei  metodi della rappresentazione: ove l’oggetto è sia proiettante sia proiettato; ma voglio chiudere con una delle immagini a mio avviso più emblematiche, (anche se tralascio in questa occasione di parlare delle non meno straordinarie acqueforti raffiguranti uomini di colore che sono presenti nella mostra): Vaso cinocefalo II, 2011,  in cui l’ombra come una colata lavica proveniente dal fondo non solo lambisce il piede del vaso, ma lo ghermisce, ne ingloba la sostanza, la assimila, la desostanzia,  annullandone qualsiasi volumetria, e dichiarando che la materia del vaso non è il marmo, ma l’inchiostro, e la sua volumetria è solo apparente in quanto appartiene alla bidimensionalità del foglio, poiché è il segno che dà visibilità al mondo.

                                                                    Rosa Pierno


Franco Fanelli è nato a Rivoli (Torino) nel 1959. Vive a Torino, dove dal 1987 è docente di Tecniche dell’incisione presso l’Accademia Albertina di Belle Arti. Numerosissime le mostre personali e collettiva in Italia e all’Estero. Affianca all’attività di docente e artista quella giornalistica, in qualità di vicedirettore de Il Giornale dell’Arte, di curatore della rivista Vernissage e di collaboratore del mensile Style. E’ autore di saggi dedicati ad artisti contemporanei.

giovedì 11 ottobre 2012

dalla nota di Gilberto Isella su "Artificio" di Rosa Pierno

LIBRERIA NERO SU BIANCO

Via degli Spagnoli 25 ─ Roma, 17 OTTOBRE ore 18

Nell’ambito delle serate di poesia Cartapesta cartacanta: dichiarazioni clandestine
a cura di Mariangela Mincione e Mario Quattrucci

presentazione del libro di ROSA PIERNO "ARTIFICIO" Ed. Robin 2012

presenta GILBERTO ISELLA


Un estratto dall’introduzione a Artificio / Amore fossile di Gilberto Isella

Cos’è l’artificio se non l’ars concepita nel suo splendore fenomenico ‘innaturale’? La passione vale in quanto tékhne, ogni gesto poggia su un intrico strutturale ordinato da un invisibile Altro. Come dire: se qualcosa si libra nell’immaginario (“fantastica visione”) deve anche formare dispositivo, matema in progress (“carta geografica”, “diagramma”, idest testo) . Ci soccorrerebbe a questo punto l’ipotesi di macchina desiderante, avanzata da Deleuze e Guattari, ma già la trattatistica d’amore manieristica e barocca ne aveva, coi suoi congegni retorici replicanti, anticipate ambizioni e mosse. Per lo scrittore barocco, come per Rosa Pierno, il mondo-testo o il mondo-teatro (vedi Calderòn) è produzione dell’ars, capace di ricreare un simulacro di vitalismo cosmico coniugando l’agudeza della forma con la meraviglia dei sensi.

“Assoluto artificiale coincide con la più vivida realtà” (Artificio).

Dove il modus operandi fa tutt’uno con la sottigliezza degli strumenti. Una ratio phantastica abilitata a promuovere compattezza entro il diffuso, ma che abolisce, proprio per il suo potere metamorfico, peso e staticità strutturali. Grazie alla regia di Rosa, la struttura non si prostra all’immobilità; diviene al contrario onda viva, mobile serra affidata a una sorta di gaia scienza. I cui fiori più teoretici crescono in Amore fossile, i più affabulanti in Artificio. Ma senza l’affanno dei ‘distinguo’, siccome tutto sembra posto in circolo e fluidificato da quello Spieltrieb di cui Schiller aveva scoperto l’essenza.

“Di questa cartografia d’amore si tenta, qui, di ricostruire il perduto testo attraverso un mosaico composto con citazioni prelevate da varie fonti: testi classici e memorie personali, il tutto impiantato in un terriccio misto a detriti e reperti, in cui ciò che è antico è riportato alla luce e ciò è attuale proviene da atavica memoria. Passato e presente senza distinzione” (Artificio). Portando alla luce svariate stratificazioni del tempo, lo scavo archeologico paradossalmente abolisce il tempo. O, se si preferisce, lo affida alla riabilitante, misteriosa mappatura della memoria, quindi a un’altra scena, la scena a più dimensioni del “perduto testo” in via di risarcimento. E allora la diacronia s’invera in sincronia, che fa sedimentare le narrazioni in figuris e distribuisce ogni tappa ‘figurata’ in numerosi loci (capitoletti) secondo un criterio tematico ‘rapsodiante’ (soprattutto in Artificio). E secondo un itinerario di scrittura che, evocando i loci mnemotecnici di Giulio Camillo, s’appoggia alla ricorsività tramite il refrain musicale (esaltato da giochi di ritmi e assonanze) e, in generale, alle corrispondenze biunivoche tra i due insiemi - Amore fossile e Artificio - siano esse palesi o occulte.

Dalla memoria irradiante, ideale patrimonio di un meta-soggetto che inalterato trascorra gli eoni, questa speciale mappa riceve, in mezzo a “detriti e reperti”, la sua geometrica legittimità. Irradiamento a più vettori: vi contribuiscono sia l’ermeneutica virtuale (e virtuosa) custodita dalla cultura nei secoli – sufficiente a destituire l’illusoria ‘naturalezza’ del cosiddetto mondo fenomenico, nel contrapporvi un conflittuale-ludico dispositivo di segni ‘pensanti’ – sia l’anamnesi e l’autoscandaglio di un soggetto inteso, nella fattispecie, come singolarità: “Come se fosse uno specchio, il soggetto riflette l’intero universo” (Amore fossile). Sapienza antichissima, codificata fin da Ermete Trismegisto: “Tutto ciò che è in alto è come ciò che è in basso, tutto ciò che è in basso è come ciò che è in alto. E questo per realizzare il miracolo di una cosa sola da cui derivano tutte le cose” (Tabula smaragdina). La mappa è dunque, in qualsiasi parte vi cada lo sguardo, luogo d’incontro di linee o grafi che connettono micro e macro, alto e basso, dentro e fuori, visibile e invisibile. Labbra del cielo e della terra ne muovono le parole, mentre il suo ‘codice di caccia’ si evince da quella teoria dell’analogia universale già formulata da Campanella: “Infilo corridoi e sparisco dietro angoli. Oscure simpatie collegano le nostre membra” (Artificio). Analogie fecondate da spiritus phantasticus, cariche al punto di condurre al parossismo l’ordine speculare chiamato a supportarle, fino a rendere disorientanti le sue manifestazioni, tra corpi anamorfici e sfasature assiali. Sta di fatto che lo speculum originario è perduto. I frammenti che se possono reperire giacciono nelle segrete degli artificialia: pròtesi umane di uno smarrito sguardo dell’Altro, quanto però basta per ricomporre uno specchio d’amore. Mutevole vibrare d’onde, eco d’incrinamenti, cliname per così dire sospeso nel nulla. Il resto va ascritto alla mera oscurità, al non vedere: “Stato del non amore è vuoto teatro, polveroso palco” (Amore fossile).

Sull’immane deposito dei sedimenti memoriali vigila, con dispotismo, Amore. Ossia il dio-prolegomeno sotto le cui ali l’agire creativo esibisce innumerevoli partiture, proprio mentre dichiara l’insensatezza del loro intricato volvere e involvere dentro vortici di sinestesie. V’è dunque un grano di follia negli stratagemmi con cui l’opera attira su di sé il demone sinestesico? “Parole e musica, nella loro insopprimibile autonomia e irriducibile diversità compongono il testo della insensata storia d’Amore” (Artificio). Rosa sa gestire in maniera ammirevole il dis-senno, questa insensatezza paradossalmente produttiva che dà vita ai microcosmi segnici, altrettante anticamere dell’amore. Produttiva, perché l’accumulo intravisto dentro gli abissi visitati dall’horror vacui – reperti inorganici, astrazioni concettuali, figure, segni e segnali posti in ‘enumerazione caotica’ – non è dispersione, supplementare sparpaglio di vuoto, ma stimolo per necessarie relazioni ontologiche. Amor sicut coniunctio: “A gettare segni nel fossato di cui non si percepisce il fondo, e qualsiasi cosa, ritagli, lacerti di stoffa, conchiglie, foglie, vocaboli, lettere e figure, ellissi e vortici, si crea un’inusitata via, non visibile a occhio nudo, con cui si ristabilisce una rinnovata relazione tra ciò che è separato” (Amore fossile).

L’”inusitata via” corrisponde al sentiero che nei labirinti del confuso-irrelato porta a relazioni di livello superiore. Suo contrassegno è il figurale (nel senso di ‘altro spazio’, ‘spazio del desiderio’ avverso al linguaggio lineare, secondo Lyotard) mediante il quale la conoscenza si amplia, complessifica. Accogliendo senza condizioni il magnetismo del sensibile – dove a garantire è sinestesia - la ratio umana si equipara alla bellezza: “Oh, meravigliosi fiori in musicali accenti nominati!” (Artificio). Ma già il mitografo antico sapeva che ogni forma alta di conciliazione, nell’arte, passa attraverso il fascino “disdicevole” dell’ibridarsi: donna-pesce, uomo-cavallo, persino maschio e femmina incerti nei loro sembianti sessuali. Creature disdicevoli ma potenti, artefici di repulsione ma nello stesso tempo di eros. Di riflesso, l’artista consapevole che “fantasia e natura sono inclini a scambiarsi di posto” (Artificio), e soprattutto che nulla, more naturae, si concilia, sintonizza il suo desiderio su ciò che, facendosi corpo al di là degli ‘schemi di natura’, testimonia in modo verace la coincidenza degli opposti.

E così avviene l’incontro con il monstrum, dentro e fuori di noi. Il mostro-attore-maschera che calca il palcoscenico artificioso della vita, colui che sperimenta il ludus malinconico (quel navigare, fin dall’età barocca, tra reliquie oggettuali umanoidi), in un irrequieto concerto di tropi dove la sinestesia sposa l’ossimoro e ogni creatura si scopre entità ana- e metamorfica. Il mostruoso non è che effetto del mostrare, evidenza portata all’eccesso, mentre l’eccedere, da parte sua, declina l’accadere in forma di turbolenza: “Amore è moto turbinoso di schizzato concorso, di commistamento”. E ancora: “Dialogo, lotta, caduta e trionfo senza soluzione di continuità” (Artificio). Si tratta comunque di eccedenza euforica, non raccapricciante, intrisa dello stesso logos spermatikòs che feconda le metamorfosi salvifiche, in ultima istanza l’arte: “Vi è un’arte della metamorfosi che è strumento di salvezza in un mondo privo di sospiri e ambiguità” (Amore fossile).

                                                                             Gilberto Isella

domenica 7 ottobre 2012

Ida Travi “Il mio nome è Inna”, Moretti&Vitali, 2012




Prima ancora che con gli essere umani, il rapporto principale è con le cose, è con esse che si cerca disperatamente un colloquio. Nonostante, infatti, ne “Il mio nome è Inna”, Moretti&Vitali, 2012, (postfazione di Alessandra Pigliaru), ultimo lavoro di Ida Travi, ci siano quattro personaggi, è la sola Inna  che sembra parlare, con voce accorata, agli altri (vogliamo effettuare un breve riferimento al fatto che la donna, l’adolescente, il bambino, la vecchia sono personaggi iconici che ritroviamo anche negli altri libri di Ida Travi e che in quanto pure immagini hanno valenza mitica); tutti e quattro però si relazionano con le cose (oggetti o elementi naturali), attendendone una risposta risolutiva. Parrebbe trattarsi di un vero e proprio panteismo, un ritorno a un sentire naturale, organico al mondo circostante, se non fosse che contemporaneamente la voce di Cassandra si sovrappone a quella di Inna per affermare che nemmeno a questo bisogna credere o per dire che bisogna credere e non credere contemporaneamente: poiché questa è la doppia natura affettiva e inaffidabile delle cose. Ci riferiamo al fatto che la proiezione di sé negli oggetti quotidiani non è mai ingenua, è sempre già macchiata dall’umano,  come anche la pochezza delle parole, la loro insufficienza è da mettere al bando, a tal punto che si potrebbero usare soltanto i gesti, le azioni.

Questo assumere i caratteri delle cose, addirittura l’identità: “eravate la pietra ardente”, questa personificazione degli oggetti: “La maniglia piangerà sotto la mano” e “sotto il tavolo arrossisce / lo sgabello a tre gambe”,  questo attribuire una finalità alle cose: “Non c’è dubbio, non c’è dubbio / queste cose sono qui per noi” vuol dire avere creato un elenco delle relazioni che è possibile stringere con gli oggetti –  e non solo quelle istituite alla luce del sole, ma anche quelle tessute nell’ombra – poiché a tratti sembrano più importanti della presenza degli esseri umani, fra cui, lo ripetiamo, non c’è dialogo, ma solo un appello che ciascuno rivolge all’altro senza mai ottenere risposta. Persino la nostalgia di non essere cosa entra a far parte dell’elenco: “Volevo crescere con loro / volevo vivere con loro / tra gli attrezzi” giunge a una trasformazione del soggetto in cosa: “Piove sull’acqua, piove sul ferro / il petto è più freddo della schiena”.

C’è, però, accanto al terrore di perdere le cose, o che non più funzionino, il terrore di diventare un oggetto: “ – bisogna vivere da umani, lo capisci? –“. In ogni caso, se vengono meno anche gli oggetti viene meno il fondamento del soggetto, il quale non può fare affidamento su nessuna trascendenza. Nessuna ricerca dell’essenza, nessuna metafisica. A suffragio della nostra ipotesi anche  la mancanza totale del simbolo: un libro che è un ammasso di oggetti e in cui mai si determina la prolificazione di un senso astratto. E immediatamente a ridosso si rileva che i mezzi linguistici messi a punto dalla Travi sono limitati all’uso di sostantivi e di verbi: pochissimi aggettivi. I versi hanno un andamento prosastico, ridotti all’osso gli strumenti retorici della poesia.

Il corto circuito fra gesti e cose sarebbe sufficiente a tracciare il fondo oscuro da cui provengono gli umani e il chiaro albume verso cui si dirigono. Ma del resto proprio al linguaggio è affidato il compito di designare le terre, il percorso, le cose, le relazioni, sebbene si preferisca la parola detta a quella scritta, la quale è guardata con maggior sospetto, quando non respinta con ribrezzo (e si tenga conto di questa posizione che è agli antipodi rispetto a quella di Jacques Derrida).

“Ogni grido è uguale al silenzio, ogni cosa / è uguale al silenzio // Anche l’occhio lo sa / anche il piede lo sa // anche il letto / è diventato bianco”. La parola, le cose, il soggetto collassano nel silenzio: sembra un’agglutinazione, un rendere alfine appartenenti al medesimo comune fondo anche le cose più differenti. Pure il tempo è sottoposto alla medesima personificazione: “Un’ora se n’è andata / È uscita dalla porta” e “l’orologio ti guarda / l’orologio capisce tutto”. Il tempo sembra utile a porre le tacche distintive, quasi una misura scientifica a cui appellarsi nel paradosso della propria posizione umana; serve forse solo a tracciare le apparenti coordinate di una storia, di una narrazione, di cui, peraltro, si sono rigettate tutte le  convenzioni: prima e dopo, causa ed effetto, inizio, svolgimento e fine, in una completa perdita di riferimenti.

E’ davvero come stare a osservare una mosca imbottigliata di cui si possono osservare i moti che la sfiniranno. Si salta la frattura solo con gli occhi chiusi, solo dimenticando ciò che si sa e persino le profezie di cui il testo è disseminato. A tutto togliendo credito, a ogni cosa credendo. Eppure, si direbbe che la natura qui abbia ruolo autonomo rispetto agli oggetti: “Tu metti il fiore nell’acqua / e il fiore si riprende / Il fiore non sa quel che fa / ma quel che fa è meglio”. È la natura che garantisce la continuità: “Il sole sorgerà un’altra volta, te lo giuro /  cresceranno le mele rosse”. Miracolo dell’esistere. Di cui peraltro i figli sono il testimone più concreto di qualsiasi parola: “I figli sono fiori / un giorno si levano il berretto / e parlano come mai avresti sperato”.

Abbiamo fin qui seguito pedissequamente il libro per ritrovarci all’ultimo capitolo “Ur il ferramenta” in cui i fili vengono tirati e quello che poteva definirsi come un continuo smottamento tra angoscia e speranza, tra un ritrarsi e un aderire del tutto genericamente riferibili all’esistenza umana, ora si mostra – come se con una lente si fossero restituite le giuste proporzioni alla figura dipinta in maniera deformata, (celebre l’esempio  presente nel quadro “Gli ambasciatori” di Hans Holbein) – un luogo dove l’angoscia ha raggiunto il massimo grado dell’esperienza umana: il lager, ma anche il luogo in cui la speranza per rinascere può solo ricollegarsi alla natura. Disseminati nel testo i termini campo, filo spinato, baracche, non lasciano dubbi e risucchiano come in un imbuto senza fondo il senso dell’intero testo. 

                                                                Rosa Pierno 

martedì 2 ottobre 2012

Maurizio Ferraris “Ricostruire la decostruzione. Cinque saggi a partire da Jacques Derrida” Bompiani, 2010

Nati da occasioni diverse, i testi di Maurizio Ferraris contenuti in “Ricostruire la decostruzione. Cinque saggi a partire da Jacques Derrida” Bompiani, 2010, ci danno l’agio di osservare Derrida da un’angolatura a tratti non aliena da caustica valutazione, ma certamente sempre originale e fruttuosa. Soprattutto la profondissima conoscenza, resa possibile anche dall’assidua frequentazione personale, autorizza Ferraris a mostrarci il filosofo non separato dall’uomo, i suoi comportamenti e le sue manie, il modo singolare in cui ha affrontato i problemi.

Uno dei temi importanti che infilzano i cinque saggi è il mai sedato problema della barbarie dei campi di sterminio, che per Derrida non nasce in un deserto e, anzi, affonda le sue radici nel mondo della cultura  e delle religioni, nel mondo della politica e della economia. Ferraris, sulla scia derridiana, considerando la battaglia fra Bene e Male, afferma che senza memoria, senza registrazione e dunque senza ontologia non c’è etica. Né ci sarebbero oggetti sociali (Oggetto = Atto Iscritto).   La verità “non esiste se non è registrata, espressa e trasmessa” e “senza scrittura non c’è soggetto e non c’è verità”. Così, in questo libro, si assiste a un dialogo a distanza tra il filosofo italiano e il filosofo francese che verte anche sulla necessità rilevata da Ferraris di integrare il testo con il mondo esterno, ossia con “quel mondo di oggetti naturali che, diversamente dagli oggetti sociali, esisterebbero anche se non ci fosse un’umanità”, il quale è il fondamento ultimo che consente di resistere “al nichilismo, alla riduzione dei fatti a interpretazioni”.  

La disamina a cui Ferraris sottopone il pensiero di Derrida rileva l’impasto tra vecchio e nuovo, la bizzarra mistura di arcaismi e di cose attualissime, collocandone la posizione all’interno della fenomenologia (che addirittura Derrida fa colloquiare con il materialismo dialettico). In ogni caso, “la condizione dell’idealità sembra risiedere in qualcosa di materiale” che è la scrittura in quanto traccia, memoria, segno, marca: senza di essa non ci sarebbe l’idea. Scrittura che è stata sottoposta a rimozione: il logocentrismo (da Platone a Nietzsche) ha infatti rimosso la materialità a favore dell’Idea e dello Spirito.  Riprendendo una nozione di Heidegger, Derrida rispolvera la decostruzione intesa come necessità di sottoporre a verifica concetti ereditati, e divenuti inerti, per restituirli al loro significato vivente”. Questo atto, che tenta costantemente di dissotterrare da cumuli di incrostazioni il significato, rimettendo in moto la possibilità di non chiudere in trappola il senso, consente di attestare una differenza costitutiva. D’altronde, il fatto che sia impossibile giungere a una definizione dell’essere, non vorrà per questo dire rinunciare alla sua ricerca. La pratica derridiana attesta, in quanto forma specifica, la traccia di quanto è rinvenibile.  Pratica interminabile, ma non priva di risultati parziali.

Non ci sono che valori relazionali e “la decostruzione deve in primo luogo mostrare questa relazionalità, il fatto che un termine non può esistere senza l’altro, proprio come, nella dialettica di Hegel, in cui il signore non esiste senza lo schiavo”.   Introducendo la temporalità, le opposizioni diventano complementari. Nella contrapposizione fra Derrida e Heidegger, Ferraris mette giustamente l’accento sullo sforzo del filosofo francese  di “dimostrare che l’animale ha tanto dell’uomo, e che l’uomo, d’altra parte, ha tantissimo dell’animale: in gioco, sullo sfondo, vi è il monolitico idealismo di Heidegger che sfocia nella sua adesione al nazismo. Mentre individua nel primato assegnato da Derrida all’etica rispetto all’ontologia, la necessità di un capovolgimento rispetto al filosofo tedesco: “La giustizia si appoggia su qualcosa di ancora più fondamentale, ed è l’ontologia, quello che c’è, come inemendabile”. Senza un mondo esterno, a cui si riferiscono le nostre azioni non ha senso parlare di etica, “Così come non ha senso parlarne senza epistemologia, cioè senza un sapere riferito a ciò che avviene in quello stesso mondo esterno”.   

Maurizio Ferraris prosegue la sua indagine sulla decostruzione, definendola  piuttosto uno stile che una teoria: essa coincide con la persona di Jacques Derrida, ma se riconosciamo che esiste una decostruzione all’opera già con la tradizione e una decostruzione ante litteram nella triade Nietzsche-Freud-Marx, allora è possibile “staccare il decostruzionismo dal suo autore e asserire che c’è un senso in cui la decostruzione è una teoria caratterizzata da una tendenza allo smascheramento, all’analisi e alla  critica”. Tuttavia Derrida ha teorizzato l’impossibilità di giungere a conclusioni positive e questa inconcludenza (categoria dell’indecidibile) è quella che poi gli consente di prendere una decisione “che si rivela indipendente da tutti i calcoli che l’hanno preceduta. Questa è la superiorità dell’etica” sull’epistemologia, che risulta dunque indipendente anche dalla decostruzione intrapresa.  Per Ferraris, il primato dell’etica sull’ontologia comporta che alla filosofia venga attribuito il compito “di dissolvere la realtà, concepita come un’illusione creata dai poteri e dalla scienze, e che la verità costituisca una istanza potenzialmente violenta  a cui si tratta di dire addio”. Però se la storia ha dimostrato quali lutti e rovine possano venire dal dire addio alla verità, allora per Ferraris “senza ontologia non ci possono essere né epistemologia né etica, perché la realtà (l’ontologia) è il fondamento della verità (l’epistemologia) e la verità è il fondamento della giustizia (l’etica)”.    

                                                                                 Rosa Pierno