Mostra, a cura di Guglielmo Gigliotti, presso la Galleria Aleandri Arte Moderna, via
dei Coronari, 146, Roma, dall’11 ottobre al 3 novembre 2012
Che lo scudo di
Achille descritto nell’Iliade da Omero fosse la più celebre se non la prima descrizione
verbale di un’opera d’arte non è da assumere come del tutto arbitraria cornice
di riferimento se parliamo dell’opera di Franco Fanelli, che di arte si occupa
anche da un punto di vista verbale. Le sue prime opere hanno come oggetto,
infatti, uno scudo (Delfica, 1988-89;
Eritrea, 1988) ove però accadono
singolari cose: non si distingue nulla, se non la linea ovale o tonda del contorno, mentre al centro, al posto
della descrizione, vi è una pugna da cui si alza un polverone segnico, un cozzo
brutale d’armi, un clamore che annebbia la vista. Nessuna figura, nessuna
città, nessuna gigantomachia (le figure che normalmente istoriavano gli scudi)
è nettamente distinguibile. Siamo nel vivo di una straordinaria capacità
visionaria che riesce a farsi non solo immagine, ma suono. Le linee, le
retinature, gli sgraffi, le barbe si addensano come una nuvolaglia di
cavallette, si diradano lasciando trasparire il vuoto, ma mai allignano come riconoscibili
figure. Lo scudo come specchio di quel che avviene nella cruenta realtà e di
cui per analogia si fa indicatore di senso. Fanelli incatena il senso a
immagini mobilissime, metamorfiche, informali attraverso oggetti che divengono
espedienti per meglio catapultare il fruitore nell’azione scenica – sempre
drammatica. In questo senso nessun oggetto è inerte, ma essenzialmente
evocatore di plurime dimensioni temporali e geografiche, giacché in queste
splendide preziosissime acqueforti, il passato, nelle sue evenienze, è l’unica cosa presente: il presente è solo l’atto della lettura o della
visione provocata dall’oggetto evocatore. Il gusto della mescita,
dell’accostamento stordente, di chiara derivazione piranesiana, fra oggetti distantissimi aumenta
vertiginosamente la loro capacità di scompaginare e fratturare le medesime immagini
che concorrono a formare e da cui affiorano e percolano le nuove colate visive,
i sibili e il frastuono del vento o le meravigliose e sensuali palme che crediamo
d’intravedere tra le tre colonne del tempio. E le scimmie che troneggiano sulle
urne, le scimmie che condividono, con il
ribollire di segni ferrosi su cui poggiano, il loro pelo, quasi a indicare una
diretta genesi dal segno. Segno che, fra l’altro, la scimmia condivide con lo
spazio, perché la limatura nera segna e macchia di sé pavimento e fondo,
rendendoli concreti, visibili, ma dunque sempre in funzione dell’alfabeto
originario, diremmo, quello da cui origina il mondo. Si direbbe che è presente
persino una fantomatica scala dei grigi in cui il la finezza della peluria del
mantello dell’animale è accostata a zone in cui una tramatura più grossa
raggiunge rapidamente la saturazione del nero: non trattandosi, nel caso
dell’acquaforte, che della gradazione di un finto grigio, visto che è in realtà
prodotto solo dalla relazione fra nero e bianco.
Sembra che, pertanto, Fanelli indichi
qualcosa attraverso la presentificazione di qualcos’altro. Dalla torre di
Babele, ai vasi cinocefali, dall’Arco di Orange alle lussureggianti palme, le
drammatizzazioni in atto riguardano la lotta mortale tra il nero e il bianco,
lotta metamorfica in cui i contendenti non temono di assumere le sembianze
del nemico, (si notino i palmizi in Orange II, 2011, che risultano contemporaneamente proiettati
alla base del tempio facendo pensare, questa volta, inoltre, che la superficie riflettente, sia
posizionata al posto del fruitore). Il metamorfismo qui diviene un gioco
metafisico, nel senso che è al di là, appartiene all’ordine astratto, all’ordine dei metodi della rappresentazione: ove l’oggetto
è sia proiettante sia proiettato; ma voglio chiudere con una delle immagini a
mio avviso più emblematiche, (anche se tralascio in questa occasione di parlare
delle non meno straordinarie acqueforti raffiguranti uomini di colore che sono
presenti nella mostra): Vaso cinocefalo
II, 2011, in cui l’ombra come una
colata lavica proveniente dal fondo non solo lambisce il piede del vaso, ma lo
ghermisce, ne ingloba la sostanza, la assimila, la desostanzia, annullandone qualsiasi volumetria, e dichiarando
che la materia del vaso non è il marmo, ma l’inchiostro, e la sua volumetria è
solo apparente in quanto appartiene alla bidimensionalità del foglio, poiché è il
segno che dà visibilità al mondo.
Rosa Pierno
Franco Fanelli è nato a Rivoli (Torino) nel 1959. Vive a
Torino, dove dal 1987 è docente di Tecniche dell’incisione presso l’Accademia
Albertina di Belle Arti. Numerosissime le mostre personali e collettiva in
Italia e all’Estero. Affianca all’attività di docente e artista quella
giornalistica, in qualità di vicedirettore de Il Giornale dell’Arte, di curatore della rivista Vernissage e di collaboratore del
mensile Style. E’ autore di saggi
dedicati ad artisti contemporanei.
ciao Rosa: guarda nel mio blog a questo post: http://miolive.wordpress.com/2012/10/17/rosa-pierno-unopera-raffinata/
RispondiEliminasebastiano