Nati da occasioni diverse, i testi di Maurizio Ferraris contenuti in “Ricostruire la decostruzione. Cinque saggi a partire da Jacques Derrida” Bompiani, 2010, ci danno l’agio di osservare Derrida da un’angolatura a tratti non aliena da caustica valutazione, ma certamente sempre originale e fruttuosa. Soprattutto la profondissima conoscenza, resa possibile anche dall’assidua frequentazione personale, autorizza Ferraris a mostrarci il filosofo non separato dall’uomo, i suoi comportamenti e le sue manie, il modo singolare in cui ha affrontato i problemi.
Uno dei temi importanti che infilzano i cinque saggi è il mai sedato problema della barbarie dei campi di sterminio, che per Derrida non nasce in un deserto e, anzi, affonda le sue radici nel mondo della cultura e delle religioni, nel mondo della politica e della economia. Ferraris, sulla scia derridiana, considerando la battaglia fra Bene e Male, afferma che senza memoria, senza registrazione e dunque senza ontologia non c’è etica. Né ci sarebbero oggetti sociali (Oggetto = Atto Iscritto). La verità “non esiste se non è registrata, espressa e trasmessa” e “senza scrittura non c’è soggetto e non c’è verità”. Così, in questo libro, si assiste a un dialogo a distanza tra il filosofo italiano e il filosofo francese che verte anche sulla necessità rilevata da Ferraris di integrare il testo con il mondo esterno, ossia con “quel mondo di oggetti naturali che, diversamente dagli oggetti sociali, esisterebbero anche se non ci fosse un’umanità”, il quale è il fondamento ultimo che consente di resistere “al nichilismo, alla riduzione dei fatti a interpretazioni”.
La disamina a cui Ferraris sottopone il pensiero di Derrida rileva l’impasto tra vecchio e nuovo, la bizzarra mistura di arcaismi e di cose attualissime, collocandone la posizione all’interno della fenomenologia (che addirittura Derrida fa colloquiare con il materialismo dialettico). In ogni caso, “la condizione dell’idealità sembra risiedere in qualcosa di materiale” che è la scrittura in quanto traccia, memoria, segno, marca: senza di essa non ci sarebbe l’idea. Scrittura che è stata sottoposta a rimozione: il logocentrismo (da Platone a Nietzsche) ha infatti rimosso la materialità a favore dell’Idea e dello Spirito. Riprendendo una nozione di Heidegger, Derrida rispolvera la decostruzione intesa come necessità di sottoporre a verifica concetti ereditati, e divenuti inerti, per restituirli al loro significato vivente”. Questo atto, che tenta costantemente di dissotterrare da cumuli di incrostazioni il significato, rimettendo in moto la possibilità di non chiudere in trappola il senso, consente di attestare una differenza costitutiva. D’altronde, il fatto che sia impossibile giungere a una definizione dell’essere, non vorrà per questo dire rinunciare alla sua ricerca. La pratica derridiana attesta, in quanto forma specifica, la traccia di quanto è rinvenibile. Pratica interminabile, ma non priva di risultati parziali.
Non ci sono che valori relazionali e “la decostruzione deve in primo luogo mostrare questa relazionalità, il fatto che un termine non può esistere senza l’altro, proprio come, nella dialettica di Hegel, in cui il signore non esiste senza lo schiavo”. Introducendo la temporalità, le opposizioni diventano complementari. Nella contrapposizione fra Derrida e Heidegger, Ferraris mette giustamente l’accento sullo sforzo del filosofo francese di “dimostrare che l’animale ha tanto dell’uomo, e che l’uomo, d’altra parte, ha tantissimo dell’animale: in gioco, sullo sfondo, vi è il monolitico idealismo di Heidegger che sfocia nella sua adesione al nazismo. Mentre individua nel primato assegnato da Derrida all’etica rispetto all’ontologia, la necessità di un capovolgimento rispetto al filosofo tedesco: “La giustizia si appoggia su qualcosa di ancora più fondamentale, ed è l’ontologia, quello che c’è, come inemendabile”. Senza un mondo esterno, a cui si riferiscono le nostre azioni non ha senso parlare di etica, “Così come non ha senso parlarne senza epistemologia, cioè senza un sapere riferito a ciò che avviene in quello stesso mondo esterno”.
Maurizio Ferraris prosegue la sua indagine sulla decostruzione, definendola piuttosto uno stile che una teoria: essa coincide con la persona di Jacques Derrida, ma se riconosciamo che esiste una decostruzione all’opera già con la tradizione e una decostruzione ante litteram nella triade Nietzsche-Freud-Marx, allora è possibile “staccare il decostruzionismo dal suo autore e asserire che c’è un senso in cui la decostruzione è una teoria caratterizzata da una tendenza allo smascheramento, all’analisi e alla critica”. Tuttavia Derrida ha teorizzato l’impossibilità di giungere a conclusioni positive e questa inconcludenza (categoria dell’indecidibile) è quella che poi gli consente di prendere una decisione “che si rivela indipendente da tutti i calcoli che l’hanno preceduta. Questa è la superiorità dell’etica” sull’epistemologia, che risulta dunque indipendente anche dalla decostruzione intrapresa. Per Ferraris, il primato dell’etica sull’ontologia comporta che alla filosofia venga attribuito il compito “di dissolvere la realtà, concepita come un’illusione creata dai poteri e dalla scienze, e che la verità costituisca una istanza potenzialmente violenta a cui si tratta di dire addio”. Però se la storia ha dimostrato quali lutti e rovine possano venire dal dire addio alla verità, allora per Ferraris “senza ontologia non ci possono essere né epistemologia né etica, perché la realtà (l’ontologia) è il fondamento della verità (l’epistemologia) e la verità è il fondamento della giustizia (l’etica)”.
Rosa Pierno
Nessun commento:
Posta un commento