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giovedì 29 marzo 2012

Flavio Ermini “Anterem”

Cominciamo da questa affermazione: il pensiero che parla dalla poesia è un pensiero non filosofico, non religioso ecc., ma una provocazione a pensare altrimenti.
Non è sbagliato indicare nell’alleanza tra parola poetica a parola cognitiva una strada percorribile per l’esperienza di pensiero del poeta. Ma ulteriori e decisivi spostamenti vanno compiuti. Utili a introdurci in una tonalità poetica complessa e rischiosa. In una pratica della scrittura di cui non  è agevole immaginare i contorni e gli esiti. Uno scrivere che della parola sconvolga i margini, alteri i limiti e mostri le irrisolte contraddizioni. Uno scrivere che si volga alla produzione di segni di nascondimento, dove la parola produca i termini del silenzio da cui trae origine.
Ogni opera milita sempre per una certa parte: prende partito, insomma.
In generale, la poesia è un’obiezione contro “questa” realtà.
Partendo da queste considerazioni nel 1976 alcuni poeti hanno promosso una rivista di ricerca letteraria che si chiama “Anterem”.
Questo nome, “Anterem”, porge esplicitamente attenzione al valore prelogico della parola, chiamata a d essere il luogo di raccordo fra percezione e sensibilità. Si riferisce alla parola che non è ancora il corrispettivo della cosa designata. Si rivolge, vichianamente, alla parola che precede le forme tipiche della riflessione. Alla parola che ancora non ha varcato quel limite oltre il quale la rappresentazione del mondo comincia a scindersi in classificazioni. Alla parola originaria, insomma.
La poesia vuole essere un libro da aprire, non soltanto una presenza. Ecco perché una rivista di poesia: per aiutare il lettore a sottrarsi alla scena insopportabilmente illuminata dai mass media, a concepire il linguaggio non solo come “mezzo”, e a concepire se stesso  non solo come spettatore ma come soggetto criticamente capace di intervenire sul testo.
Va ricordato che la parola è lo statuto dell’essere umano, per la sia capacità di costituirsi limite su cui le figure e le cose del mondo prendono la loro misura. E’ in questa tensione che il linguaggio poetico le scopre differenti e dunque individualmente esistenti. Tensione in cui si apre il fondamento, la regione originaria  in cui l’essere si manifesta.
Insomma, ci vorrebbe maggior tolleranza  per le parti notturne della nostra anima, tenute al solito accuratamente nascoste.
Pare che il potere tecnico-economico , con la sua idea diurna e produttiva del lavoro, abbia delegittimato  tutte le altre forme di rappresentanza degli interessi e delle passioni. Ed è un dato su cui lavorare.
I tempi che viviamo sono più del calcolare che quelli del meditare. Anziché proteggere la sua felicità, l’uomo si dà un’esistenza pietrificata, si infligge progressive mutilazioni.
Va rimessa in circolo l’idea di una poesia che in qualche modo sia il prodotto di un’esposizione e di un ascolto nei confronti delle cose senza mediazione. Infatti, per la parola poetica non si tratta di afferrare le cose, come vorrebbe la ragione, ma di incontrarle.
La scommessa della rivista è proprio quella di muoversi in questo spazio di frontiera: dov’è possibile abbracciare il doppio orizzonte. Consentire alla parole poetica di tendere al non detto e nello stesso tempo, offrendole un palcoscenico, uno spazio di ascolto, servire il “dato di fatto”. 
Il dato di fatto è questo: poesia non è la messa in scena di una realtà preesistente, esterna all’invenzione linguistica. Poesia è nuovo evento.
Per questo il  poeta, da una parte, custodisce il valore della parola, lasciando intatto il suo legame con il silenzio e, dall’altra favorisce le transizioni fra codici differenti (scientifico, politico, religioso, etico, musicale, filosofico…) allo scopo di stabilire una nuova relazione con la passione della verità.
Il primo compito lo affida all’opera. Il secondo ai sistemi di relazione della rivista. Ecco come fa a impedire che la sua diversità venga annientata od omologata al potere.
L’intenzione è evidente: la parola poetica potrà essere ripristinata nel suo valore solo incastonandola in un nuovo progetto del mondo. Verso un nuovo inizio. L’aiuto della rivista può essere determinante per consentirle di tornare a rappresentare la coscienza della società. Un tempo, riviste o non riviste, lo era.
Un’altra cosa va fatta: va stabilita la specificità della figura del poeta, su ciò che ancora non si sa, come su ciò che non  è più logico, l’uomo suole imprimere una forma e un nuovo linguaggio, per dominarlo. Ma il linguaggio non è solo una rigida struttura logicizzante, padroneggiata dagli utenti.
Bisogna conquistare integralmente la realtà se si vuole che l’immaginazione prenda il volo. Questa è la rivoluzione culturale a cui ci invita la lotta contro una società che domanda all’essere umano “Quanto paghi?” invece di chiedergli “Cosa pensi?”.
Contro una società che trasforma la parola in merce. E la rende servile. Sarà una lotta di lunga durata. Probabilmente l’araba fenice dello spirito creativo dovrà attendere ancora a lungo nel suo vaso cinerario. Ma è scritto: “Saremo giudicati non se avremo vinto, ma se non avremo lottato” (San Marco, Vangelo).
Come ci indica Hölderlin: “Molto c’è da trovare, e di grande, e molto vi è oltre”.

                                                                                               Flavio Ermini

lunedì 26 marzo 2012

Hans Robert Jauss “Breve apologia dell’esperienza estetica” Mimesis, 2011

Nasce da una precisa esigenza il testo di Hans Robert Jauss “Breve apologia dell’esperienza estetica” Mimesis, 2011,  che l’introduzione di Matteo Giovanni Brega esplicita in maniera approfondita: quella di offrire una lettura diversa della cultura di massa rispetto a quella adorniana. La contrapposizione è frontale poiché egli ritiene che Adorno sferri un vero e proprio attacco all’estetica, effettuato negando l’utilità e necessità del suo ruolo storico. Anche se, a  più largo raggio, la difesa dell’estetica è condotta da Jauss anche contro Hegel che ne aveva addirittura annunciato la morte e comunque la separazione del piacere dalla sfera conoscitiva.

Per Jauss è nella “predisposizione al godimento, che l’arte suscita e rende possibile” il cuore dell’esperienza estetica. Elemento ancora attivo in Goethe che lo propugnava nel “Faust”, mentre  “oggi al contrario l’esperienza estetica è riconosciuta come tale soltanto quando si è liberata di ogni piacere e si è elevata al grado di riflessione estetica”. Jauss individua in Adorno il difensore della spiritualizzazione di un’arte che si oppone al godimento, al fine di contrastare la tendenza dell’industria culturale “la quale nel circolo vizioso che deve soddisfare i bisogni indotti con surrogati estetici, ottempera agli interessi occulti della classe dominante”. Se Adorno demonizza il piacere, che invece è elemento imprescindibile dell’arte, sarà proprio dalla contrapposizione all’arte di consumo che “l’arte ascetica e l’estetica della negatività ricavano la propria triste legittimazione”. Ma la perdita del godimento si tira dietro anche la perdita del fine stesso dell’opera d’arte, questione che non sfugge ad Adorno, il quale non riesce a ripristinare il passaggio sull’abisso che divide, pur considerando la sua estetica negativa come terapia, l’esperienza estetica e la prassi sin qui dominante dell’arte “come promessa di felicità”.

Non solo Adorno, ma anche Platone, Agostino, Rousseau, Gadamer, Lukàcs si schierano dalla parte del primato accordato alla sola riflessione concettuale. D’altra parte la tradizione della riflessione teoretica sull’arte “è interamente ascrivibile all’influenza del platonismo” in cui “La dignità del rapporto con il bello è per Platone subordinata alla theoria, cioè all’aspetto speculativo della filosofia”. Contro una lettura che contrappone il godere al conoscere e all’agire,  Jauss percorre le posizioni che si snodano con continuità a difesa della visione che da Aristotele  passando per Kant fino a Sartre - e ridonando il ruolo che compete all’esperienza estetica consentita dall’opera d’arte come ciò che riesce a “rivitalizzare la percezione delle cose resa neutra dall’abitudine”  - ricolloca la conoscenza percettiva allo stesso livello della conoscenza concettuale.

Lo studioso, seppur riconosca a Kant di aver innalzato l’ambito estetico a istanza di mediazione tra sensibilità e intelletto, puntualizza che egli non ha riconosciuto “al giudizio estetico, fondato sul soggetto, una funzione conoscitiva autonoma”,  così come anche in Gadamer sussiste una “fondamentale contrapposizione tra esperienza estetica come ‘accadimento di verità’ da un lato e, ‘coscienza estetica’ come capacità del soggetto di trarre godimento da se medesimo dall’altro”.  Mentre Adorno giunge “ad incitare il pubblico all’esperienza solitaria nella quale ‘chi recepisce dimentica se stesso e scompare nell’opera’” e non chiarisce “come il solitario e sbigottito osservatore possa essere utilizzato nell’esperienza comunicativa dell’arte per una nuova solidarietà che nasca in vista dell’azione”.

Jauss concorda con Marcuse nel “ricollocare nella sua corretta importanza il piacere estetico di fronte a una secolare svalutazione della sensibilità” e con l’esperienza estetica ricettiva di Valery, il quale ristabilisce “il ruolo della percezione ‘rinnovata per mezzo dell’arte’”. L’intento di Jauss è quello di assegnare alla funzione critica e creativa dell’arte il compito di opporsi  “all’esperienza reificata e al linguaggio omologato della società dei consumi” e di “eliminare il contrasto tra piacere e azione, tra disposizione estetica e prassi morale”   tramite la comunicazione. Infatti, egli individua un errore nel circolo vizioso per cui Adorno presuppone “in un osservatore già entrato in contatto con l’arte quella coscienza emancipata che soltanto l’esperienza estetica dovrebbe produrre attraverso il processo di comunicazione e di produzione del consenso”.   Facendo coincidere l’esperienza dell’opera con l’esperienza dell’Altro, del diverso da sé,   Jauss apre uno spiraglio per la libertà umana contro il mondo oggettivo “realizzata tramite il suo immaginario”, come possibilità d’intervento nel tessuto sociale.

Il ritorno della visione aristotelica giunge fino al recupero dell’archetipo dell’eroe. Attraverso il rito, il soggetto si riconosce all’interno della comunità partecipando a un’esperienza estetica che supera la divisione tra opera e fruitore, tra attore e spettatore pervenendo all’identificazione morale, ma tenendo ferma la differenza tra esperienza estetica e prassi morale che invece l’idealismo pone come premessa per imporre all’uomo un comportamento determinato. 

Affinché l’esperienza estetica torni al ruolo che le compete nell’ambito della ragione pratica, non si può rifiutare l’identificazione con l’ordine sociale esistente, se il fine è poi quello di “stabilire un nuovo ordine nella prassi sociale”. Lo studioso tedesco propone che il giudizio estetico sia legato al consenso per ottenere la partecipazione alla costruzione di una norma socialmente costituente.  Sarà, infatti, l’identificazione a consentire una estetica della ricezione.

                                                                               Rosa Pierno

venerdì 23 marzo 2012

Shitao “Sulla pittura” Mimesis, 2008

Naturalmente, si legge il testo di Shitao “Sulla pittura” Mimesis, 2008, guidati non solo dall’interesse per la comprensione dell’arte orientale, ma anche da quello per l’arte occidentale. Tale confronto comporta a cascata sia l’ampliamento delle categorie con le quali canonicamente valutiamo l’arte sia la comprensione dei contenuti concettuali con i quali riempiamo questa parola. L’arte è oggetto storico, varia nel tempo, ma è diverso anche rispetto allo spazio geografico. E vedere in quali modi si è declinata questa opportunità dell’espressione umana può farci comprendere meglio che cosa possiamo ottenere con essa. Se, inoltre, come rilevato da Melandri in “Contro il simbolico”, Quodlibet, 2007, per la metafisica, la cultura occidentale ha semplicemente ignorato gli influssi della cultura orientale, risulta invece imprescindibile valutare anche, secondo il recupero tentato da  Jullien, modalità diverse dalle nostre.

Anzitutto colpisce che in Cina l’estetica e la bellezza non vi abbiano alcuna funzione rilevante, ma siano immerse nella definizione dell’uomo colto, il quale non  è mai solo pittore, ma anche poeta, letterato,  filosofo. Al di là del fatto che ciò elimina la questione della contrapposizione tra conoscenza filosofica e  arte così come l’abbiamo ereditata da Platone, ciò ci fa comprendere come tutto ciò che inerisca all’uomo sia considerato come un’unità separata e congiunta al tempo stesso: i principi sono opposti e complementari e mai è possibile innalzarne uno  come superiore rispetto agli altri. Ciò consente di non perdere mai di vista la complessità dei fenomeni e l’integrità della umana capacità elaborativa (dai sensi alle emozioni, dall’intuito alla ragione).
  
Ci rendiamo conto, mentre leggiamo, che è come se ci trovassimo in un’altra dimensione, in cui la prospettiva si costruisce con tre coincidenti e diversi punti di fuga: il paesaggio vi viene rappresentato come se “fosse dotato di tre orizzonti, uno in alto, uno in basso e uno a circa metà”. Lo schizzo è il modo che meglio consente di cogliere il qi, l’energia vitale di un elemento: esso ci fa cogliere sia l’apparenza sia l’essenza. E, ancora, il disegno, in cui la linea non chiude mai, afferra una forma in divenire, volontariamente si disperde per conservare la mutevolezza delle forme e il vuoto, che non è mai fondo, ma spazio generatore, entrando a pieno titolo nella formazione di tutte le cose.

La pittura cinese non separa singolarità e astrazione. Ci troviamo, appunto, in un regno che si oppone a quello occidentale, poiché il mondo fisico e sensibile non è separato da quello ideale. Marcello Ghilardi, nella sua efficacissima introduzione, stigmatizza che il nucleo della teoria dell’arte cinese: “non procede da un’ontoteologia, né separa il mondo fisico e sensibile da quello metafisico” impiegando uno stesso termine “per indicare tanto l’immagine quanto il fenomeno”: visto che “il pensiero cinese non ha giocato la scommessa dell’Essere e non ha concepito la realtà se non in mutamento”. Non vi è, conseguentemente, “un’opposizione netta tra essere e non essere, tra sensibile e sovra sensibile” ma un rapporto originale tra “il cuore-mente-spirito dell’essere umano e la natura”, tra particolare e universale, tra microcosmo e macrocosmo.    

La continuità “tra piano sensibile e piano intellegibile” consente di considerare ciò che è visibile come manifestazione del non visibile, mentre viene considerato un errore tutto ciò che fissa il reale in una figura immutabile. Anche la nozione di arte è distinta da quella della tecnica, che in Cina ha il significato di sviluppo della persona, sia come abilità sia come forma d’ espressione. L’atto del dipingere e dello scrivere sono le discipline più onorate del mondo cinese. Come ci indica Giangiorgio Pasqualotto nella sua attentissima prefazione, i tipi di utensili (pennello, inchiostro, carta, seta) non sono affatto da tenere in minor conto rispetto ai requisiti interiori “perché sono essi che permettono il perfetto adeguamento dell’idea ai segni”. E, addirittura capovolgendo la posizione di Platone, in Cina, l’arte è vista come perfezione del sapere, “espressione del livello culturale e dell’integrità morale di un pittore” e strumento per educare e sviluppare i valori che regolano i rapporti umani.  Vi è stretta correlazione tra estetica ed etica. Per dipingere in modo perfetto, bisogna sapersi comportare in modo ineccepibile: “la purezza del cuore del pittore e la purezza delle forme nel suo dipinto non sono altro che un medesimo fenomeno”. L’efficacia figurativa del pittore è tanto più ampia quanto più è discreta, de-soggettivata, de-psicologizzata, occorrendo lasciarsi assorbire dal processo creativo.

Vi è una esplicita equiparazione tra poesia e pittura in quanto in esse agiscono in modo equivalente sia l’emozione sia la riflessione. Pittura e poesia in relazione e integrate alle altri differenti discipline e arti: “Non si tratta tanto di un mutuo completarsi, come se la poesia dovesse offrire alla pittura i mezzi di cui questa è priva, o viceversa, bensì di una circolazione energetica” e ciò trasforma sia chi le pratica sia chi le fruisce.

Nel libro, i commenti del curatore seguono i frammenti del testo di Shitao approfondendo i temi del pensiero orientale e  offrendo così una guida preziosa per l’orientamento. Ma vogliamo lasciare la parola a Shitao: “Dove il movimento del pennello è intenso, bisogna librare la mano sopra la carta eliminando dal gesto ogni impeto violento; così, nelle parti dense come in quelle fluide tutto sarà immateriale così da essere animato, sarà vuoto così da essere perfettamente compiuto.
Per le grandi montagne il metodo è lo stesso, il resto non serve. In una sobria e frusta semplicità bisogna ricercare un’immagine frammentata; ma non è cosa che si possa esprimere a parole”.

                                                                                                 Rosa Pierno

martedì 20 marzo 2012

Jean Paulhan “Breve introduzione alla critica” Marietti, 1992

In “Breve introduzione alla critica” pubblicato in Francia nel 1951, ed edito da Marietti in Italia nel 1992, Jean Paulhan affronta per la critica letteraria una questione spinosa, poiché, anziché stare lì a definire il proprio rosario metodologico, non vuole dare regole e definizione, ma intende sgombrare il campo da errori (e sicuramente ne individua almeno due che gli sembrano mastodontici ancorché paradossali).   

Errori ricorrenti compiuti da critici letterari e da filosofi. Errori che fanno incorrere in un fraintendimento totale della funzione critica riguardo al suo oggetto. Ciò non toglie che Paulhan non voglia screditare la tradizione con le sue regole. Anzi, le ritiene necessarie, ma debbono essere proprie, precise, definite.  Non esclusa l’ambizione a un tipo di scientificità almeno fin là dove è possibile.

Non sorprenda la sua volontà di non proporre le proprie regole: nessun proclama, nessuna presa di posizione a favore di un corollario di norme che dovrebbero garantire la funzione critica, poiché l’atteggiamento risolvente è che non bisognerebbe mai eludere la cura e l’attenzione verso l’opera, il rispetto della quale garantirebbe quasi a cascata un buon funzionamento della critica stessa.  

Il libretto, agilissimo, leggero, evasivo ed eludente solo per chi volesse arrivare al nocciolo duro della pratica critica, è invece costruito su un movimento digressivo, di allontanamento, non centrifugo, che pare non toccare la materia di cui tratta, sebbene il titolo circoscriva un preciso campo d’intervento: punta diretto a sbaragliare alcuni comportamenti deleteri. E lo si vede quando assume, in negativo, gli atteggiamenti di due critici André Rousseaux e Jean Paul Sartre, ravvisando nella loro riflessione un fraintendimento totale della materia trattata: niente di meno che l’opera letteraria e il linguaggio di cui è costituita.

A Rousseaux che crede di individuare in alcuni testi infrazioni al bello stile, alle regole grammaticali, declassando per questo gli autori che le hanno commesse, Paulhan risponde che tali modalità sono avvalorate da grandi scrittori appartenenti alla tradizione letteraria del Cinquecento e del Settecento, oltre che dai linguisti del Novecento,  e dunque che non si offre nessun servigio alla letteratura se non se ne comprendono obiettivi e diversità nell’espressione e nell’uso.   L’uso ha bisogno di essere scosso, anche la svista ha un suo fascino propriamente letterario: “Non sempre l’incorrettezza è senza vigore e senza sorprese”. Fonetica, semantica e stilistica non sono sufficienti a giudicare, forniscono solo una griglia.

Mentre addita Jean Paul Sartre, il quale mette sotto accusa il linguaggio, addossandogli la responsabilità della scarto non solo tra realtà e parole, ma anche tra pensiero e parola. Ove invece è di tutta evidenza che è nell’interpretazione che diamo alle cose, tramite il linguaggio, ciò che eventualmente mette in crisi, crea un problema. E in questo caso, la critica di Paulhan diviene radicale poiché inevitabilmente finisce col mettere in discussione Sartre anche in quanto filosofo. O comunque la filosofia, accusata da Paulhan di ricorrere a trucchi, di dimenticare ciò che sa, di ricorrere troppo spesso alla tabula rasa.

Sarà il partito preso di Sartre a fargli “mettere insieme un manifesto letterario plausibilissimo, che però lui nega subito essere un manifesto letterario, di vedere solo il dispiegarsi di una volontà libera, nella sottomissione passiva dei suoi personaggi  ad alcune regole morali poste una volta per tutte” e a fargli scrivere uno studio di trecento pagine sulla letteratura dove “neppure per un attimo, affiora il dubbio che questa letteratura (dalla quale d’altronde lui ha escluso la poesia) potrebbe anche essere letteraria”. E, pertanto, se Sarte “si sbaglia completamente sul linguaggio, come potrebbe vedere chiaro in queste opere di linguaggio: un manifesto, dei romanzi, la poesia, la letteratura”. Il partito preso del filosofo gli impedisce di vedere l’evidenza.  

Sartre, che dovrebbe occuparsi di linguaggio, in realtà non ne parla neppure una volta. Ma non è il linguaggio a essere insufficiente, in quanto “Sono i pensieri che differiscono profondamente, non le parole”. Anzi con esse possiamo esprimere sentimenti e pensieri. La verità è che “se il linguaggio non è causa del malinteso, quanto meno lo rivela nel luogo in cui non ce lo aspettavamo”. Se Proust, Parain, Sartre, offerti da Paulhan come esempi di un atteggiamento errato verso la supposta responsabilità del linguaggio traghettano da una condanna delle parole alla condanna di tutto il linguaggio, in questi autori, per Paulhan, non può che ravvisarsi la più naturale  e ingenua delle reazioni.

Qui il richiamo è al senso comune delle cose che a volte pare far cilecca nel pensiero variamente attorcigliato della categoria dei filosofi e slegato dalle esperienze reali, dall’evidenza dell’uso e degli strumenti. Pur anche nella critica delle arti figurative, che Paulhan ha frequentato non occasionalmente, la modalità di restituzione critica risulta essere la stessa: affrontando le opere d’arte non con un linguaggio specialistico, ma con le considerazioni di un fruitore colto e sensibile, elegante e appassionato, che prima di tutto tenta di comprendere la specificità dell’oggetto che affronta. 

                                                                             Rosa Pierno

sabato 17 marzo 2012

Formafluens - International Literary Magazine al terzo anno


Formafluens – International Literary Magazine festeggia il suo terzo compleanno il 21 marzo 2012 ore 18.00, grazie alla gentile ospitalità del Sistema Biblioteche di Roma, presso la Casa delle Traduzioni - via degli Avignonesi 32, spazio nuovo non solo anagraficamente ma anche nella concezione, essendo una delle poche realtà culturali romane concepite per eventi internazionali, insieme alla Biblioteca Europea.
     Tre anni tondi, per una rivista indipendente, non sono pochi. Molte riviste nascono e spariscono in tempi molto brevi. Le possibilità offerte da Internet consentono oggi di realizzare riviste culturali telematiche con costi ridotti rispetto alle tradizionali riviste cartacee: rimane soltanto – e non è poco, come sanno tutti coloro che lavorano di questi tempi nel settore della cultura-  il costo umano del lavoro volontario di redattori, collaboratori, traduttori.
    Concluso il ciclo di questo primo triennio, mi sto appunto interrogando sul futuro della rivista. Formafluens.net è nata da una scommessa personale: dopo aver creato una fitta rete di legami e contatti culturali in molti paesi esteri, grazie ad un’intensa attività di viaggi per convegni, Festival letterari e Writers’ Residencies, ho provato a rendere viva e fluida questa rete creando dal nulla della pagina bianca html uno spazio nel quale far interagire poeti, narratori, traduttori, critici di molti paesi e di molte lingue diverse. Intorno a questo progetto si sono poi nel tempo aggregati collaboratori fissi e un comitato scientifico internazionale di alto livello.
    A giudicare dai risultati, la scommessa è stata fin qui vinta. Basta dare un’occhiata ad un sito di servizio, sobrio e utilissimo, come SHINYSTAT© , che rileva le visite (gli “accessi”) al sito della rivista, indicandone in dettaglio il luogo geografico, il giorno e a volte anche il server specifico (come nel caso di intranet universitari). La consultazione periodica di questo sito è stata molto utile a dare la misura e la direzione del lavoro fin qui svolto.
     Dal sito di rilevazione risulta che in questi tre anni ci sono stati lettori da tutti e i sei continenti, con una densità maggiore in Europa. Questo è in parte scontato, ma è meno scontato ad esempio scoprire che la rivista ha lettori in paesi dei quali non si è pubblicato nemmeno uno scrittore e nei quali non si ha nemmeno il minimo contatto, come la Nuova Zelanda o  Costa Rica.  Questo vuol dire che a volte i lettori “pescano” per caso la rivista attraverso i motori di ricerca o parole chiave tematiche, e che una volta messa in rete una rivista è grado di propagarsi in qualche misura da sola, come una pianta spontanea.
    L’elenco dei paesi nei quali risultano accessi al sito di Formafluens.net è interessante per la quantità, anche se ovviamente ogni paese porta quantità e tipologie diverse di lettori. Oltre all’Italia, i paesi dai quali provengono i lettori nell’ultimo anno solare sono, in ordine sparso, gli Stati Uniti d’America, Francia, Canada, Repubblica Slovacca,  Federazione Russa, Svezia, Romania, India, Repubblica Dominicana, Austria, Regno Unito, Albania, Nuova Zelanda, Venezuela, Danimarca, Egitto, Belgio, Costa D’Avorio, Turchia, Australia, Spagna, Messico, Costa Rica, Sudafrica, Norvegia, Senegal, Ucraina, Lussemburgo, Uganda, Tunisia, Grecia, Irlanda, Cipro, Germania, Bulgaria, Filippine, Argentina, Giappone, Colombia, Polonia, Libano, Portogallo, Finlandia, Botswana, Malta, Nicaragua, Svizzera, Arabia Saudita, Ungheria, Cile.
      Ora, al terzo compleanno della rivista, mi interrogo sul suo futuro, come ogni genitrice responsabile. Che ne sarà della rivista? E’ un interrogativo che si colloca all’interno del più vasto e generale interrogativo sul futuro della cultura in Italia. Vedremo. Per dirla con una bella immagine di Carlo Emilio Gadda “L’erba che sarà cresciuta la mangerà il cavallo che campato sarà”. Intanto vi aspettiamo per brindare insieme al terzo compleanno della “creatura”.
Tiziana Colusso direttrice di Formafluens - International Literary Magazine

venerdì 16 marzo 2012

Lucio Saffaro “L’insegna” Anterem n.50, I semestre 1995

Si potrebbe definire un racconto utopico, “L’insegna” di Lucio Saffaro, presente nel n.50 di Anterem, I semestre 1995: la narrazione delle aspirazioni che ambiscono a un mondo monosemico, descrivibile in cifre e simboli. Non solo l’abolizione del caso, come avrebbe voluto Mallarmé, ma anche l’abolizione del”l’identità indefinita che sostituiva i trasformati dell’io” con azzeramento della connessa memoria. Se “L’insegna che stabiliva le regole dell’inizio sembrava di origine attica: le conseguenze espresse non si allontanavano da una forma marina, da una richiesta di perifrasi ondose che si ammantavano di colpe e di ritardi”. Ben presto però “L’attrazione del pensiero” divenne così forte da voler condizionare tutte le “distinzioni esistenziali”.

Ma si tratta di un racconto utopico capovolto, poiché Saffaro prova a immaginare che cosa sarebbe accaduto se si fosse avverato il tentativo di matematizzare il mondo, o meglio di escludere il caso, la polisemia, le interpretazioni, la memoria, il passato. Cerca di seguirne i corsi principali e finanche i rivoli, di verificare la portata di una tale mutazione nella civiltà se si fosse pienamente realizzata, forse per lui pericolo sempre in agguato in ogni epoca, quando non si accetti di guardare il mondo con tutte le capacità umane, ma di espungerne alcune, fondamentali, alla stregua di rifiuti urbani e che importa con quali giustificazioni. Senza entrare nel merito nelle motivazioni che inducono nelle varie fasi storiche a un’accentuazione dell’atteggiamento di rifiuto verso ciò che viene definito materia umanistica (scelte di dominio e di soggiogazione), Lucio Saffaro, inverandone in questa scenografia sperimentale ipotesi e risultati, tratteggia un quadro desolante in cui tutto appare separato da se stesso:

“IV. Alla figura ribelle è assegnata la figura concatenata delle parvenze dell’unione, la dissoluzione rapida delle allegorie dei ricordi. La scritta equivalente nasconde la reciproca deduzione, lo stemma che conduce al campo separato della luce. Nella selva delle biforcazioni gli eventi, attratti dallo stesso eccesso di scelta, si distorcono mutuamente e così confusi procedono tutti insieme verso più basse epitomi, verso più tenui confronti”.

In sostanza,  l’allusione allo scontro sociale non è paludato e neppure l’uso di vocaboli che provengono diretti dalla nostra tradizione letteraria, quasi usati come un puntello: selva, biforcazione, stemma, luce: quegli stessi che, in sé simboli dell’unione e della molteplicità, denunciano l’azione barbara della scissione con resezione di uno o più termini contrapposti. Ciò che si sarà ottenuto per via di separazione si ritorcerà contro il separatore: se il principio di cernita sarà privato dal suo contenuto, quelle “rimembranze” ora eliminate, su cui invece esso poteva operare, gli faranno perdere anche la sua funzione rispetto alla costruzione delle “soglie logiche” e la “verità, tramutata in se stessa” appiattirà qualsiasi successione temporale, consentendo all’indistinto di regnare sulla memoria e sull’io. Ma lasciamo la parola a Lucio Saffaro, alla sua ultima lassa, in cui  alla poesia è riconosciuto un ruolo ripristinatore:

“VI. Il cimento dell’opera venne abbandonato prima ancora di essere profferito: il disarmo delle cause ha ormai sospinto l’attitudine binata verso i poli di commutazione, dove cadono e si consumano i frammenti angusti della logica. I fanali mascherati dell’incipiente teoria dei sogni, l’ermetica rete dei codici di contorno, sembrano ancora trattenere il fermaglio dei singoli, la separata contea della memoria. I fuochi cardinali della poesia già si approssimano al regno ricurvo dell’occaso”.

                                                                                              Rosa Pierno
      

martedì 13 marzo 2012

Paolo Di Capua "Estremo Est"

Da sempre attentissimo alla natura al  punto da utilizzare solo materiali che ci consentano di riattivare il contatto con essa, e questo non solo  per la volontà di non farci dimenticare che è la natura il nostro ambiente  precipuo, ma  anche per consentirci di riscoprire, attraverso un trattamento delle superfici che potremmo tranquillamente definire artificiale, le sue infinite risorse, Paolo Di Capua, le mette in luce e le trasforma, creando così quel ponte tra naturale e culturale su cui, oggi, si combatte la battaglia più impegnativa e decisiva. L’artista ci induce a meditare sul fatto che è di fondamentale importanza non assuefarsi  alla banalità di un luogo precostituito e  passivamente ricevuto e che soltanto nel dialogo con le forme naturali esista la possibilità di creare mondi abitabili, forme utilizzabili. In questo senso, alle opere di Di Capua non è mai possibile assegnare la definizione di astratto, poiché esse testimoniano di una continua trasformazione di elementi reali, di una modalità relazionale accuratamente cercata con ciò che ci circonda al fine di creare forme di assoluto equilibrio e integrità, circondate da un sonoro silenzio, intrise del senso dell’abitare nel mondo.

Nella mostra che si è tenuta nel 2010 (23 set. – 12 ott.) presso la galleria la Nube di Oort di Cristian Stanescu, in Roma,  Paolo Di Capua ha offerto alla nostra visione un’opera-nastro costituita da una serie di tasselli. Il tassello base è un quadrato di legno di cui si vedono le fibre non piallate, quasi tirate via dall’albero e che, dunque, presenta profondità diverse e diverse curvature della superficie ed  è  dipinto con uno smalto bianco ad acqua. Tali tasselli, disposti orizzontalmente sulla parete e alternativamente nel senso delle fibre, costituiscono una sequenza, quasi un codice da decifrare, dove le categorie che si trovano a dialogare sono geometrico e irregolare, naturale e artificiale, liscio e scabroso, atteso, inatteso. E’ sufficiente questa semplice quanto raffinata concatenazione dello snodarsi delle superfici a rendere percepibile uno spazio altrimenti indifferenziato.  Con assoluta chiarezza comprendiamo così che la nozione di spazio non esiste in maniera generica e vuota, assoluta e indefinita, ma che esso può essere visualizzato soltanto con una struttura che lo articoli, che lo renda un oggetto linguistico, diremmo per traslazione metaforica col linguaggio.

Il lavoro sulle superfici, sulla trasformazione della materia attuata solo con specifici mezzi, e volontariamente limitati proprio per mettere in risalto le potenzialità della materia stessa, è sempre volto, quindi,  a massimizzarne la visibilità, non solo lavorandola in modo apparentemente grezzo per maggiorarne le irregolarità o scalfendone la superficie - sia essa di legno o di pietra - con uno scalpello per ottenere una diversa “pelle” che  renda la materia altro da sé, inusuale ed estranea a se stessa, ma anche dipingendola con i colori bianco e  nero affinché si percepisca una continuità lì dove altrimenti si percepirebbe irregolarità: le assi così accostate, infatti, mostrano una conquistata ombreggiatura, innaturale, da ricondurre, quindi, a familiarità, pretendendo da noi uno sforzo immaginativo e conoscitivo. Inoltre, in una delle installazioni presentate nella mostra,  quattro assi di legno convergendo in un punto coincidente con il livello di calpestio percorso dallo sguardo del fruitore  obbliga il corpo,  grazie alla perlustrazione di questa traiettoria, a  simulare il moto. In tale guisa, l’elemento base estratto dalla natura e  modificato dall’artista funziona da generatore dell’orizzonte e dello spazio percorribile: luogo – prima inesistente – in cui l’essere umano ritrova la sua libertà e il suo equilibrio, il suo campo creativo e decisionale. Spazio in cui, peraltro, il caso è convocato quale elemento costituente, non solo perché il suo ruolo è basilare in natura, ma anche perché Di Capua gli riconosce una funzione altrettanto importante nel progetto dell’opera. E’ in questo senso, che pietre erano accostate accanto a una delle installazione per consentire al fruitore di imporre il suo atto, di marcare la sua presenza nel contesto di ricezione dell’opera. Caso che non è mai preconfezionato dall’artista, ma di cui appunto sono contemplate le possibilità, attivate allo stesso modo in cui è stato potenziato lo spazio.     

Indichiamo un altro elemento che ci sembra di dovere sottolineare come componente essenziale nel lavoro di Paolo Di Capua, ed è la suprema raffinatezza che costantemente si sprigiona da tutte le sue opere. Ci riferiamo all’installazione realizzata con ventagli coreani in carta e legno. La superficie ondulata della carta pieghettata  funge da ulteriore elemento nel dialogo fra i soli colori nero e bianco, con cui Paolo Di Capua  ottiene un susseguirsi di affascinanti immagini – figure geometriche e decorazione segnica – mosse e vibratili. Essendo la geometria e la scrittura,  simboli della presenza umana nel mondo, esse costituiscono un non secondario fulcro propulsivo da cui scaturiscono le molteplici valenze  percettive e concettuali che Di Capua innesca con le sue opere.  Di queste ritrovate percezioni estetiche – oramai così rare in un mondo dell’arte che non lascia nessuno spazio alla cura dell’operare, alla decantazione del gesto e alla durata – siamo grati a Paolo Di Capua, il quale, con le sue opere,  schiude dinanzi a noi una ulteriore via esperienziale, uno spazio da esplorare e da reinventare, e  di cui  ci rende artefici.

                                                                                       Rosa Pierno

venerdì 9 marzo 2012

Lou Andreas Salomé “Riflessioni sull’amore” Editori Riuniti, 2005

La complessità dell’argomento affrontato da Lou Andreas Salomé nel suo “Riflessioni sull’amore”, Editori Riuniti, 2005, si ravvisa già dal movimento frasistico talmente articolato, e come ricco di fiordi e insenature, che spesso bisogna rileggere il periodo. Questo fa presagire che il tema così agitato, non troverà supine e tranquillizzanti soluzioni.

La riflessione sull’amore che la Salomé effettua è condotta sul terreno esperienziale, tenta di cogliere il movimento contraddittorio del reale e di renderne conto, anziché annegarlo in un astratto disegno: “è tuttavia vero che nell’amore s’incontrano due estraneità, due contrari, due mondi fra i quali non esistono e non potranno mai esistere quei ponti che ci collegano con ciò che ci è affine”. E nel tentare di esplicitarne le contraddizioni, ma anche di trovare possibili soluzioni, la Salomé si serve di analogie, fra cui spicca quella che, come un filo d’oro intessuto nel testo, lo percorre interamente: l’analogia col pensiero artistico: “E’ proprio come avviene nei processi creativi della sfera artistica: ci troviamo di fronte a un’ulteriore analogia fra l’amare e il creare spiritualmente”.

La riflessione sull’amore riguarda le determinazioni culturali suddivise tra erotismo e amore spirituale: vi viene affrontata la questione del perché amiamo una persona  e non un’altra e perché anche solo fisicamente, senza che appaia importante interessarci della sua interiorità.  E’ necessario collocare questo testo nell’orizzonte culturale con cui la Salomé è venuta a contatto: Nietzsche, Freud e genericamente il pensiero scientifico austriaco di quegli anni per comprenderne appieno la valenza, i prestiti, gli scarti. Riferendosi agli studi scientifici più avanzati, la Salomé indica la sede di talune capacità emotive nella parte più antica del nostro cervello e allo stesso tempo stigmatizza la necessità del superamento di tali impulsi attraverso una più equilibrata e condivisa ricerca del partner, cosa che viene sottolineata con enfasi per la necessità di scegliere il proprio compagno in riferimento alle proprie necessità spirituali e culturali.

L’indicazione è indirizzata a favore di una maggiore autonomia rispetto ai rapporti consolidati dalla tradizione (verso cui Nietzsche ha rivolto i suoi strali: “Matrimoni d’amore. – I matrimoni fatti per amore (i cosiddetti matrimoni d’amore) hanno per padre l’errore e per madre la necessità (il bisogno)“ (da “Umano, troppo umano)), effettuando contemporaneamente una critica sia alla visione pessimistica di quei filosofi (Schopenhauer, Kierkegaard) che si sono rivolti all’amore soltanto come a un’illusione sia alle strettoie di un legame istituzionale che lega due persone per altri scopi e a prescindere dall’effettiva esistenza o dalla fine dell’amore. Resta comunque il sospetto di una indebita separazione tra stato mentale dell’innamoramento e soluzioni proposte. Sebbene abbia individuato i meccanismi per i quali scatta l’innamoramento per uno e non per un altro (anche se l’altro corrisponde meglio alla nostra personalità) la voce della Salomé, qui, è tanto monocorde da sopprimere l’ovvietà che ci si innamora di chi ci si innamora, preferendo indicare come unica via di uscita da un legame sbagliato di cui si soffrano i lacci la via della rinuncia a quel particolare amore.

In questo testo così movimentato, si ravvisano non poche critiche all’amore, forse più delle  note positive che gli si accreditano.  Sebbene vi siano descrizioni della felicità, del progetto di vita, delle forze vitali che l’amore sprigiona, pure queste cose non fanno pendere la bilancia a favore dell’amore e Lou Andreas Salomé sembra prediligere un rapporto meno appassionato e più cerebrale, meno legato alla fascinazione del corpo  e più a quello di un rapporto amicale. Dopo tutte queste peregrinazioni discorsive, appaiono, dunque, irrisolvibili le contraddizioni  tra ciò che è fisico e ciò che è mentale, tra il funzionamento biologico e quello dell’individuo nella sua complessità, tra spinte egoistiche e spinte altruistiche, tra sesso e amore. E da questo stallo teorico causato dal dover scegliere tra queste coppie oppositive non si esce: non a caso il testo si conclude chiamando a sostegno ancora una volta l’analogia con il processo artistico ove “Solo uno sa che, in tutte le esperienze più intense e produttive della nostra vita, felicità e tormento sono la stessa cosa: l’uomo creativo”. Quasi un arrendersi a quella che è la forza dell’amore: l’unico processo che mettendo in contatto due estraneità, che tali rimarranno, consente di  scendere profondamente in se stessi.

                                                                                                             Rosa Pierno

mercoledì 7 marzo 2012

Rembrandt Harmenszoon van Rijn “Disegni e incisioni sul paesaggio”

Fitta boscaglia di segni in cui non si può penetrare, peggio che se fossero fitta boscaglia di siepi e rovi. Una sventagliata di segni aventi ritmico moto, e taglienti o ondeggianti. Ogni singola foglia ridotta a una tacca, a una virgola d’inchiostro. Una ragnatela che fa passare solo luce e poca. Una rete smagliata che filtra il luogo in cui si è dal luogo in cui non si può andare: un mondo altro, al di là del foglio.

Segni privi di una qualsivoglia coerenza che li leghi, saldati solo a livello macroscopico: borgo, grappolo di case che fa passare in secondo piano la consistenza della carta. Altrimenti tacche, più fitte, più rade, più smagate, meno tessute. Con ampie zone di vuoto assediato.

La furia, l’accecato sguardo che trasmette alla mano la sua foia, che sovraccarica di inchiostro già infittite porzioni di carta, che annera il foglio raschiando ogni traccia di luce, sì che le restanti paiono ancora più lasche, come foglio affetto da calvizie, lascia comunque baluginare una fioca luce che rischiara.
Segni rivoltati da traversi venti si accavallano come marosi, si attorcigliano in mulinelli franti da sopraggiunte brezze. E’ tutto un rimestare di ombre e luci intitolato “Paesaggio con cottage e grande albero”.

Se è con matita che i segni vengono tracciati,  allora i solchi sono macilenti e tremuli: ghirigori che negano, indecisi, il concetto di linearità. Esangui, e quasi privi di materica sostanza, inanellano lo spazio in ampie congetture.

Pastello dovrà decidere tra bianco e nero o scegliere  dimidiata sosta. O, forse, la soluzione non è mai appartenuto ad altro che a intermedio regno ove bianco e nero sono astruse generalizzazioni.

Se l’ombra incatrama le facciate delle case della fattoria, alla vegetazione, la quale si arrampica sulle parti in penombra arrancando verso l’arduo cielo, non resterà che mostrare, come lasciapassare, asole di conquistato biancore per raggiungerlo.

In un solo disegno, “Cottage with a White Paling”, è possibile vedere il paesaggio che digrada dal vuoto bianco all’inzuppato nero con i gradi intermedi che vanno dal segno lineare ai sincopati tratti da ossessionato ardore indotti.



Certi occhielli, segni a cucchiaio, raccolgono porzioni di volume ovoidale, ma aperti, lasciandolo sfuggire come un liquido, sì che tutto il disegno galleggia, già scosso dal vento: è una magione circondata dagli alberi in cui il vento è crollato all’improvviso.

In “Gruppo di alberi con Vista” la visione è caratterizzata non dalla prospettiva con cui si è disegnata la capanna, ma dalla macchia fonda del boschetto che nega luce assorbendola tutta. Quel che è rimasto sul colino del foglio   è svanita landa, abitata da alberi fantasma.

Una collezione di tutti i possibili segni e di tutti i modi di apporli sulla superficie, non esclusi i vari moti del polso e i sussulti dell’interiorità. Una collezione senza oggetto. Non ultimi certi lontani come un livido sul foglio.

Rosa Pierno

domenica 4 marzo 2012

da Gio Ferri “Fecondazioni”, Book Editore, Bologna 1996

E’ necessario riportare la clausola che Gio Ferri ha anteposto alla sua raccolta “Fecondazioni”, Book Editore, Bologna 1996, per dare indicazioni al lettore circa l’intento con cui sono state create le quarantasette poesie, di cui ne presentiamone qui solo alcune:

“Malgrado certe apparenze questo esercizio scritturale non è né piaggeria dedicatoria nei confronti di alcuni poeti prediletti o amici, né un manierismo reiterato di citazioni, né tanto meno un ludo ‘alla maniera di…’: si tratta più materialisticamente di una serie di prelievi minimi (appunto materici) da gestire nell’ambito di una progettualità segnica (coinvolgimento fisico nella biologia della parola, nel suo formativo e metamorfico in/significato). Reperti di un laboratorio di letture e di corrispondenze che vengono arbitrariamente, ma non del tutto (c’è una catena genetica che trascina il fare…), immersi nel brodo di coltura di una utopia formale. Nella convinzione che, anche il più minuscolo brandello di poesia, sia una dis/misura fecondante, un essere vivente palpabile e prolifico”.

Il verso prelevato da Gio Ferri dall’opera di altri poeti, anche lontanissimi temporalmente, consente di cogliere la matrice che innerva le poesie della raccolta. Si potrebbe azzardare che, scorrendo il testo poetico,  visivamente e uditivamente si noti come il primo impulso generativo sia generato dal fonema. Non il senso, o almeno non in prima battuta. In ogni caso senso mai slegato dal suo valore fonetico. In questo senso, la poesia di Gio Ferri è sempre straordinariamente attenta a veicolare il piacere dell’apparenza, della sonorità fisica, privilegiando quelle caratteristiche che sono specifiche dell’arte. Il carattere fortuito del gioco di parole o quello più materico dell’assonanza, le regole che danno il senso come un risultato e non come un concetto da restituire non sono azzardi gratuiti, poiché inerenti alla stessa materia poetica.

Il meccanismo principe della vitalità poetica opera con regole anche incongrue e illogiche, in ogni caso non usuali, poiché appunto siamo nel regno della materia poetica. All’interno del quale, non si vede perché escludere le forme che sono appartenute a epoche diverse (quelle di Leopardi o di Petrarca, ad esempio, che soltanto un frainteso concetto della novità di stampo romantico può relegare nel cantuccio degli archiviati). La lingua è perennemente viva, viva come un organismo e produce per semplice accostamento visivo e uditivo amplificazioni del senso, i quali ci rendono consapevoli che la saldatura tra presente e passato non è né aleatoria né irrealizzabile. Ma, anzi, che i due termini indicano anch’essi, come tantissimi altri concetti, una cesura del tutto strumentale. Appartiene, infatti, alla poesia la capacità di ristabilire connessioni che in altri ambiti, come quello filosofico, appaiono tranciate.

C’è da segnalare come a partire da un verso prelevato da poesie altrui, Gio Ferri forgi poesie assolutamente autonome, facendoci pensare agli straordinari quadri picassiani in cui il pittor spagnolo rifà i capolavori di Velasquez, di Goya, con uno stile personale e un linguaggio autonomo.  Una silloge, questa, che, con la sua carica sperimentale e la sua capacità metamorfica, riesce, cavalcando l’onda della tradizione e dell’avanguardismo (Sanguineti,  Gramigna) a restituire a forme già storicizzate una sorta di nuova fermentazione, riattivando divisioni cellulari, partorendo un nuovo corpo testuale, a testimonianza che nessuna forma debba riposare sugli allori, che lievita, che è virtualmente instabile, che cerca costantemente altri materiali poetici, con cui innestarsi e incrostarsi.  Se  mai respiro poetico fosse, sarebbe questo e,  certo, un ansimare vitalissimo e felice.    



(da Giacomo Leopardi)



così da incanti    infine dagli ànimi
paiono le irrisorse    rivolte al fare
ma sono tanti    i lustri e le calure
anco irrimorse    e in quanto rilasciate

in vanto che allor solo    lieve sembiante
indugio in altro tempo    e intanto il guardo *
i carmina incompiuti    speranza càrnea
in che rieda e m’aiuti    trovar me e i liuti

altro non dà    orora che in levare
le parole in sensate    sensi innervati
e la cosa si fa    di sé anìmula

e le tracce in cantate    spirano spazi
scure beltà    s’inspirano in segni
quando in segnata    ora infiora l’amanda



* (da Il Passero solitario di G.Leopardi)
     



(da Roberto Sanesi)



Le rassodate stanze,
   il poema dell’irreversibile,
presente smemorato
   in quell’astante ricordato,
sciacqui di gorgoglii
   entro le risacche domestiche.
Quelli eroismi scaduti
   a questi esaltati silenzi.
Si percorrono di
   verbo in verso, di lemma in làmia,
d’orrori ciechi e oltranti,
   le gràffie spinte insofferenti,
voglie insignificanti
   oltre abusati referenti.
Sensitivi parònimi
   e paratattiche scadenze.
Si vogliono ridire
   e tanto donano in ammassi.
Fino a prender nota
   di quali figure si affollano, *
e di quante misure
   orora si sommano in quanti
i virtuali teoremi
   mentre la materia si dà.


* (da Attorno al tema di una stanza chiusa di R.Sanesi)
         



(da Edoardo Sanguineti)



atriali misure     arse misture
s’acquietano ora     l’anime proterve
deliri servili     meritano arnie
reginali entro     le false clausure

abili ironismi     poetanti àleano
simuli verismi     plateali e astuti
(epoche discrete     rischiano i resti)
ancorché assidui     s’alzino anatemi

terminali utopie     trombo vasali
cristi seriali     oranti venali
le calure anali     trionfano sensuali

affacciati abissi     urlano scroti
ormai dei canti     restano gli sprechi
venite ai vermi      dei vulcani vuoti *



* (da Alfabeto apocalittico, in Bisbidis di E.Sanguineti)
   



(da Andrea Zanzotto)



Al sibilo lamento
ora s’oppone aerato
movimento di trillo *
al margine dei rischi
geometriche tangenti
e nuove brezze aulenti
s’arresta orora il senso
in sensuati e artati
terzi dìnami e solerti
quei battiti inserti
quanto fallose màntriche
cèdule disillusioni
lasciano ai tattili suoni
astuti concrezioni
vivide e sensitive
ferme aggettive



* (da Ascoltando dal prato, in Idioma di A.Zanzotto)



(da Francesco Petrarca)



Si furon gli atti suoi dolci e soavi
ch’al duro fianco il dí mille sospiri
porto nel petto, et veggio ove ch’io miri
alle sfortune mie tante, et sí gravi

lagrime rare et sospir ‘lunghi e schiavi
che l’alma disperando à preso ardiri
con leggiadro dolor par ch’ella spiri
nel cor, come colei che tien le chiavi.

Spirto felice ‘gnor si dolcemente
ridesta i fior ‘tra l’erba in ciascun prato,
con forza assai maggior che d’arti maga

ogni bellezza, ogni vertute ardente,
il bel viso dagli angeli aspectato,
ch’un sol dolce penser l’anima appaga. *



* (dai sonetti XCI, CXXXI, XCVI, CCCIII, CLV,
   CCXXXVI, CLVIII, CXLIII, CCCLII, XLII, XLII, CI,
   CCCXXXVII, XLI, LXXV, in Rerum Vulgarium
   Fragmenta, di F.Petrarca)