Imprescindibile libro, “De immundo” Abscondita, 2005, di Jean Clair: vi si affronta l’immondo, il degradato, l’abietto, il rifiutato: l’”arte di ciò che resta dopo che tutto è stato rigettato”. Con una modalità più radicale di quella della tabula rasa utilizzata dall’avanguardia, “che pretendeva di sparecchiare il festino dei secoli”, quest’arte si occupa di tutto ciò che ha a che fare con il campo della degradazione. Può esistere un’arte che mette dinanzi al pubblico i propri sfinteri? Ciò che Clair rileva è addirittura che un’arte simile, la quale sfiora la lordura e l’oscenità, è prediletta dalle istituzioni, quasi come nei tempi dell’arte di regime. Nasce il sospetto che la coesione sociale, una volta assicurata dalla politica e dalla religione, abbia ora trovato nell’arte dell’abiezione la sua necessità. Clair non manca di riferirsi direttamente a “Homo sacer”di Agamben: il potere sovrano e la “nuda vita”: quel concetto di biopolitica che stabilisce l’autorità di un potere su individui ridotti a corpi nudi.
Ricchissima è la messe di opere nelle quali sono stati utilizzati capelli, unghie, sangue, saliva, escrementi, così come lunghissimo è l’elenco di opere che vertono sulla confusione tra sfera anale e sfera sessuale, tra secrezioni viventi e secrezioni morte (Dalì, Manzoni, Picasso, Duchamp, Pane, Beuys). Sarà Duchamp ad assumere il ruolo egemone nella creazione di un’estetica dello stercorario: “Quello sforzo che ha fondato la cultura – quella lenta e difficile educazione delle pulsioni libidinali – Duchamp lo nega a vantaggio delle soddisfazioni immediate della nuda vita”. Ma vogliamo citare per intero un passo che ci sembra particolarmente interessante: “l’orinatoio inverte nello stesso tempo il significato del museo. Se il museo, seconda la tesi di Walter Benjamin, è quella istituzione che trasforma il cultuale in culturale – l’oggetto di culto arcaico diventato opera d’arte –, presentare di rimando un orinatoio nelle sale di un museo significa avvalersi della potenza profanatrice dell’istituzione per fare, di un oggetto d’uso se non di decenza, un’opera d’arte; e fare di quel luogo, un tempo consacrato alle muse, uno spazio affine ai gabinetti pubblici”. Questo svilimento dell’opera d’arte, ““nichilismo” di un disgusto per cui tutte le forme, secondo l’espressione popolare, “sono nella natura”” è di fatto uno “Spurgo generalizzato dei valori. Il getto d’urina spegne l’aura”.
Clair, risalendo alla filosofia dei Lumi, individua in tale epoca il respingimento del senso dell’odorato, come il più animale dei sensi. Ma rileva che dopo duecentocinquanta anni si giunge a un altro sconvolgimento della sfera olfattiva e toccherà proprio all’arte “rituffare l’individuo nel bagno fecale da cui si era liberato”. Qui Clair osserva una scissione: da una parte, nel sociale, nella moda, nella pubblicità, l’ostentazione di un corpo liberato da se stesso (diete, esercizi fisici spossanti, odio delle funzioni naturali in un avvicinamento a una mistica religiosa che pretende di negare la realtà fisica del corpo) e dall’altra un’arte che reintroduce “le funzioni primarie del corpo e, se possibile, le più primitive”. Un’arte dunque che pare avere declinato la funzione della vista e della riflessione a favore dell’odorare, del toccare: “Conseguiremmo, nell’arte attuale, non più l’apprendimento del gusto, ma il disapprendimento” del disgusto. Tale tendenza Clair rintraccia anche nella letteratura. In particolare a partire dal concetto delineato da Rudolf Otto per cui vi è l’impossibilità di separare il sacro, il santo dall’impuro, dal maledetto, dall’abominevole. Si alimenterà della teoria dell’ambiguità del sacro, infatti, il movimento surrealista, Bataille, Leiris, Daumal, e poi Sartre, ma se ne rintracciano già elementi in Baudelaire (col suo fascino per l’informe e l’orrore), e in Poe, in Valery, in Klossowski.
Jean Clair si chiede, all’interno di un’analisi condotta esclusivamente sui significati: “Perché dalla rappresentazione di un individuo, che è nell’ordine della metafora, la pittura, si è ritornati alla presenza di un frammento del suo corpo, che è dell’ordine di una metonimia, la reliquia?”. L’ipotesi di Clair è che nell’arte d’avanguardia agisca “ un diabolismo del corpo spezzettato, che divide il reale e l’immaginario, il modello e la sua rappresentazione, li oppone, li fa esplodere, e alla fine li annienta”. Per questo studioso, l’odierna pratica artistica non è più capace di farci sopportare l’orrore dandogli un senso. Oggi, l’artista, stranamente, conserva soltanto il sorprendente privilegio di essere considerato come un essere a parte, al punto di apparire come il padrone fantasticato dal mondo, il suo buffone escrementizio e onnipotente. L’individuo “totale” che manipola in quanto artista quegli oggetti eminentemente parziali che sono gli escrementi, ha così preso il posto dell’artista di un tempo, uomo tra gli uomini, ma che prometteva, almeno il piacere di una cosa, la pittura, che apparteneva, da parte sua, all’ordine di una totalità”. E amaramente Clair conclude dicendo che con l’arte dello sterco, l’inafferrabile è esattamente quello che non può lasciarsi dire: “Che dire di più, in effetti, quando la parola, con i suoi sensi, vien meno?”.
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