La posta in gioco non è “Nominare il caos” che pure è il titolo della raccolta di Gilberto Isella, edita da Armando Dadò, Locarno, 2001, ma descriverlo. Individuarne le fattezze, il profilo, scorgerne la presenza anche in oggetti finiti, discernere gli elementi che a esso appartengono e quelli che analogicamente gli sono accostabili, forgiare metafore e verificare la loro efficacia, descrivere qualcosa che ha attinenza con l’infinito. Ad esempio, l’infinito è contenuto dal caos o il caos è una sua porzione? Non stiamo ovviamente parlando di definizioni messe a punto in ambito scientifico, come avverte lo stesso autore, che peraltro il mondo scientifico ha sempre frequentato con assidua passione, ma di concetti intuiti, di quelle idee che sembrano formarsi come panna sul latte in ebollizione: concetti che affiorano sulla superficie della mente, mentre si è immersi nel mondo. L’impatto con i versi di Gilberto Isella è spiazzante (d’altronde che cosa si deve chiedere alla poesia - retorica domanda): egli ci consegna immediatamente un paradossale problema: descrivere il caos con il suono tramite parole: “Due segnali di corno / incalzano / la sordina di un esterno naturale, / le onde si dividono sui fiori e al gioco degli stami / perde peso ogni polline, si scompagina / l’etere frattale”. I segnali di corno che simboleggiano l’inizio di qualcosa, una rappresentazione, una messa in opera, un artefatto, quegli stessi suoni che penseremmo presenti nella creazione dell’universo, sentiti in tanti film, sanciscono contemporaneamente il concetto di finito (dotato di inizio e fine), preannunciano una cosmogonia situata a metà strada tra lo scientificamente provato, l’immaginato, il percepito e il pensato.
E a questo aurorale stato, Isella presenzia, ma senza imporre nulla, se non la sua voce poetica: “questo imprendere non è che mescolanza / di nascimenti ingrati nella materia vasta, / l’impalpabile che sfionda, la somma carica e vuota / di elementi a venire, forse di sensi” L’impalpabile senso che si forma alla lettura di questi versi non è alieno da un amaro sapore alla lettura. Un viraggio morale dell’occhio che scorrendo dal caos naturale all’ordine imposto dall’uomo non perita di considerarne la misera misura rispetto alla scala dell’universo. Come pure la definizione “padrone insidiato dell’essere” getta sinistra luce sulla incommensurabilità tra il nostro sentire e la realtà del cosmo, di cui crediamo boriosamente di poter scoprire le leggi, mentre ci proiettiamo con la nostra umana storia contro il nulla inderogabile: “è il nulla – fratelli – che in punta di cicuta / svoltando nel suo nulla / non indulge al patire e non conosce clamore”. D’altronde, non è forse l’astro che “inventa / tutto ciò che disamora”?
E non sfugga lo slalom fra le teorie platoniche dell’essere e del divenire che restano contrapposti solo nell’arte, e fra quell’analogia - che invece Platone stabilisce solo nella sua ultima fase filosofica - tra essere e divenire nel campo della scienza. Poiché Gilberto Isella è proprio in questa forcella che s’inserisce e risolutamente si posiziona: la poesia è forma di conoscenza valida quanto quella delle pure idee, solo diversa, ma le determinazioni che essa possiede non devono essere svalutate. Insieme alle caratteristiche che rendono preziosa la poesia, viene così a essere ripristinato quel contatto con l’etica, oltre che col conoscere, che altrimenti andrebbe perso. Le valenze morali e conoscitive, che disegnano la nostra presenza nel mondo, quando siano così indissolubilmente legate alla forma poetica, ottengono di risuonare in noi con la massima amplificazione, diletto e riflessione.
La poesia dà luogo alla verità poiché la riconosciamo, appunto, nella forma poetica, come risiedente in noi: “ristagna il vuoto, malmostoso / mille soffietti lo diradano ancora / (pur così fermo), / mille passioni e affetti in quegli slarghi / compongono il perno / del suo impassibile respiro”. A questo universo che disamora, Isella dà voce amante. Ineliminabile tendenza a sentire e a proiettare amore in ogni dove. Sempre in agguato è la metamorfosi, l’immedesimazione, la sostituzione, il gioco, l’esperimento. Se all’uomo “non gli è dato mentire o dire il vero” pure, egli partecipa dell’universo, vi vive, lo ricrea, vi si proietta, vi si riconosce, gli dà ordine e lo scompagina. In un mirabolante mutare di scenografie e livree luccicanti o squamose si assiste in diretta alla creazione del testo-mondo, ove la parola è sovrana: “Il seme più sensato / del non venire in mente niente / sta come il pelo del gatto / nel fosco logorio di una cimasa / dove sverni un tetto intonso o mal sospeso / allo spazio, firmamento impostore”. Il passaggio dalla materia organica o inorganica che sia al pensiero è arduo sia da individuare che da precisare, eppure esiste, si attua continuamente, come pure il passaggio tra l’eternità e il tempo esistenziale, tra l’indifferenza della natura e il nostro sistema morale, tra la scienza che rende monosemico ogni segno e la poesia che erutta sensi a profusione. Tra questi mondi, senza alcuna presunzione di costruire rigidi sistemi o visioni-spiegazioni, il poeta risiede stabilmente e gusta il frutto di siffatta oscillazione. E non è atto meno divino.
Rosa Pierno
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