La “Breve storia dell’arte moderna” di Jean Clair si potrebbe definire persino la più breve storia dell’arte moderna mai raccontata: 33 paginette a cui si possono anche togliere le due o tre relative alle domande che vengono rivolte a Clair da Thierry Naudin, pura tara, francamente neppure un pretesto per le risposte.
Clair vuole effettuare un resoconto storico e libera subito il campo dalle essenze e dalle definizioni: non si parlerà di ciò che permane in quanto invariabile nell’arte, ma di ciò che subisce un’evoluzione nel tempo. Una prima delimitazione del campo, per definire la “modernità” nell’arte, avviene naturalmente ponendo dei paletti temporali: 1905, ossia nel “momento in cui si assiste al fenomeno simultaneo del colore “liberato” dal fauvisme, alle prime esperienze di disgregazione della forma con il proto cubismo, al predominio della soggettività con l’espressionismo e, infine, alla presa di coscienza, con i primi tentativi dell’astrattismo” dei “fenomeni che rientrano nella sfera dell’invisibile e dell’immateriale”. Questa sequenza giunge fino al 1969 ove avviene il passaggio a una nuova fase dell’opera d’arte che “non ha più granché in comune con ciò che si era abituati a considerare tale: un oggetto più o meno ben costruito, plasmato, dipinto, che obbedisce” “a un complesso di regole volte ad assicurargli una certa perennità nel tempo e a testimoniare un progetto spirituale”. Mentre le azioni, lo happening, l’opera effimera non hanno come obiettivo la durata.
Clair puntualizza che la modernità affonda le proprie radici nel Romanticismo con la sua fascinazione per il fenomeno originario primitivo, per il genio creatore che sfugge alle regole e per lo scaturire pulsionale del gesto creativo, ma egli si sofferma sull’aspetto dell’esplosione delle forme che tradisce l’impossibilità di trovarne una che sia soddisfacente, in “un progetto riproposto e mai compiuto” caricandosi di valenze prelevate da contesti filosofici, politici, religiosi, scientifici non ritenendo, cioè, più soddisfacente il solo docere et delectare. La dismissione della tekhné, la disfatta delle regole e delle forme farà assumere all’arte una posizione di scarto nei confronti della scienza. Anche altre intromissioni verranno a scalfire l’arte: l’equivalenza tra arte e vita, la demagogia generalizzata di Beuys : “Ogni uomo e un artista; tutto ciò che fate è arte” oltre al rigetto della storia e della tradizione. Ma forse un comune denominatore tra tutti questi elementi è possibile ravvisarlo ed è per Clair: “non più “vedere”, neppure “pensare”, ma “sentire”. Con l’olfatto, il gusto per l’abiezione, per l’orrore, la fascinazione per i fluidi corporei”, ma anche per l’automutilazione e le mostruosità. Ed è questo gusto “che ha dominato l’arte grosso modo dal 1750 al 1970” . Clair si dilungherà moltissimo su questo argomento nel suo libro “De immundo”, di cui presenteremo una recensione su queste pagine a breve.
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