È appena un libro di una cinquantina di pagine, con traduzione a fronte in rumeno, per le edizioni Cosmopoli, Bacău, 2023, il nuovo libro antologico di Marco Furia Salt de Motan. Balzo di gatto. Seppur in numero ridotto, i testi selezionati punteggiano l’intero percorso letterario di Marco Furia e si potrebbe individuare, non certo un bilancio, alcune tangenze che valgono come punti inamovibili sul suo percorso. Si penserebbe da principio al nouveau roman, alle prose poetiche di Ponge, ai testi di Butor, Serraute, Robbe-Grillet per quella volontà di guardare ossessivamente una scena o un oggetto al fine di descriverla compiutamente. Il tentativo di codesta poetica è di costringere il linguaggio su binari, tenerlo obbligatoriamente scevro da disgressioni, interpretazioni, in una parola, al riparo dall’incombente soggettività.
Evitato l’acquisto
Evitato l’acquisto d’elettrico spremiagrumi dalle eccessive, ingombranti, dimensioni, poiché intendeva sostituire analogo, ormai inservibile, elettrodomestico, provò, senza successo, a recarsi in altra (poco fornita) bottega.
Percorso a piedi non breve tragitto che lo separava da ligneo portone, salito fino al proprio confortevole appartamento, raggiunta ampia cucina, estrasse da piccolo canestro due arance che, servendosi d’affilato coltello, tagliò a metà.
Infruttuosa ricerca ebbe a ricordargli d’essersi liberato, anni addietro, di vecchio spremitoio a mano.
(da Minime circostanze, Edizioni Contatti 2021)
Sempre tangenti, i suoi interessi, alle aree avanguardistiche attestati dalla sua partecipazione ad alcune riviste Tam Tam, “DOC(K)S”, “Cervo volante”, “δ”, “TESTE”, così come il suo interesse per le scritture solitarie: quella di Pizzuto, ad esempio, da cui anche il prestito di alcune forme linguistiche: il gerundio e l’ablativo assoluto; quest’ultimo, se usato in un certo modo, lungi dal chiudere, crea una sorta di sospensione capace di far continuare il discorso, suggerisce lo stesso Furia.
E, pur tuttavia, se si rimanesse inchiodati agli influssi di area francese, si sarebbe persa la reale camera magmatica che pompa fluidi nel testo di Furia: quell’appassionata ricerca che si diparte dai testi filosofici di Wittgenstein. Imputerò, per quel che mi riguarda, quasi esclusivamente ad essa la ricerca che sottende tutta la produzione di Marco Furia: la distanza tra ciò che è lo stato interiore, il mistero da sondare, e ciò che è espresso linguisticamente o con il linguaggio dei gesti. Non, pertanto, il restringimento, triste, per la verità, del registro linguistico all’evidenza delle cose, che tiene il soggetto sotto scacco, quanto, piuttosto, la ricerca del soggetto: dove esso si situi, si materializzi, con quali mezzi si disveli. Lo stato interiore è per Wittgenstein, come si sa, inesprimibile, ed è soltanto tramite il gioco linguistico che gli esseri umani trovano regole di comunicazione per l’espressione di stati altrimenti non individuabili e non confrontabili. Approssimazioni che, d’altronde, si riferiscono alle possibilità del linguaggio, i cui limiti non sono valicabili. Ora dato che lo stato interiore non è attingibile, la messe di percezioni, pensieri, emozioni resterebbe latente se, appunto, non fosse ricreabile attraverso il medium linguistico.
(Occhiali appoggiati alla parte superiore dei lobi cartilaginei ed in prossimità del punto di contatto tra naso e fronte. Capelli perfettamente immobili nonostante il vivace movimento del capo: ogni cosa al suo posto).
Parole-bolle di sapone s’inseguono nell’aria del tutto libere dalle banali motivazioni che ne hanno provocato la nascita: subito si dissolvono, inghiottite.
Il silenzio, perfetto, non provocava rumore alcuno.
(da Mappaluna, Edizioni Tam Tam, 1985)
Ossia, percepiamo un ambiente, il nostro corpo, non un’interiorità, se non con il linguaggio. D’altronde, “Qual è la quantità massima d’obiettività contenibile nella rappresentazione? È possibile esprimerla in percentuale? Ovvero non sarà mai tale da superare lo zero?”. Domanda del tutto retorica che mette a nudo la pretesa di raggiungere una descrizione “scientifica” dei dati di fatto e della psicologia tramite il mezzo linguistico.
E allora il linguaggio, diverrà nel percorso scritturale di Furia, il centrale elemento di studio. Il suo stile si amplierà fino al tentativo di captare la sonorità del linguaggio, ancor più che la sonorità dell’ambiente:
Qual ribelle silenzio
pur sonori
leggeri tratti, effimera
sì lieve
musica (subitanea
armonia muta
mai acustico cenno?
Forse stile
forestiero, difforme?)
nulla voce
zitta, assorta sembianza
repentina
inerzia, solitarie
integre frasi
tacite, discontinue
linee opache
pentagrammi, riverberi
baleni
lustri, pallidi impulsi
(ignoto idioma
non sondabile indugio?)
incerte tregue
ritmi d’eco, barbagli
attimi fiochi
fulgidi, poi dissolte
gemme, gioie
caducità melodiche
improvvisi
statici dinamismi,
lampi bui.
(da Pentagrammi – con sette grafiche-collages di Bruno Conte”, Edizioni L’Arca Felice, 2009
L’armonia sonora di cui Furia va alla ricerca è quella che inficia la tentata destituzione del soggetto. E, sia detto per inciso, a poco serviranno certi tentativi di abbattere persino il portato estetico per rendere desoggettivizzata la scrittura. Anche la considerazione di una scrittura non-estetica ricade in una valutazione estetica, che è per definizione di livello individuale. Certo riflettere sul neutro è un arricchimento, ma non è che una soglia raggiungibile utopicamente.
Di codeste sirene da schivare, Furia è sempre stato consapevole, per questo i suoi testi sono un importante antidoto all’assolutizzazione del relativo e al recupero del bello.
Rosa Pierno
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