L’emerito lavoro editoriale compiuto da Maristella Diotaiuti e Federico Tortora nel rintracciare i documenti e i testi di Beatrice Hastings (1879-1943), non altrimenti pubblicati in Italia, ci consente di conoscere novelle, memorie, articoli e manifesti femministi della giornalista, scrittrice e poetessa nata a Londra e poi trasferitasi in Sudafrica, in Europa e negli Stati Uniti. Il lavoro di recupero è stato certosino, riuscendo a restituire le sfaccettature della sua complessa statura intellettuale nel diretto confronto con le personalità letterarie e artistiche coeve (da Pound a Breton, da Modigliani a Picasso). Non una semplice comparsa, Beatrice Hastings; certamente una persona scomoda poiché si è voluta diversa dalla mentalità femminile dominante e per questo è stata marginalizzata. La pratica di rifiutare il lavoro intellettuale delle donne è ancora una piaga e per questo è necessario dare il dovuto rilievo alla voce di Hastings.
Nel volume sono presenti le Favole femminili, scritte nel gennaio del 1916: racconti simbolici e, in quanto tali, paradossali. Una donna, che voglia combattere in maniera paritetica, deve essere disegnata come una dea o un uccello mostruoso o una strega. Una donna non può porsi col suo reale corpo femminile, né essere accettata come stante su uno stesso piano da un generico lettore. Ecco il luogo simbolico, la figura mascherante, in cui risiede il paradosso. Ciò è purtroppo una conseguenza prodotta dal sistema culturale, ossia da quell’insieme di credenze, luoghi comuni, interpretazioni, creazioni che definiscono l’essere umano in una dimensione geografica e storica. Per Beatrice Hastings, che ha mostrato occhi di aquila nel guardare nell’abisso della differenza dei sessi, tale divario è, però, prima di tutto inscritto nella natura. La sua posizione è assolutamente esplicita nel primo racconto appartenente alla serie delle Favole femminili. Paradossale è che si debba scrivere di una dea per parlare di una donna. Che si debba mostrare la sua bellezza interiore, la sua forza e determinazione, la sua intelligenza attraverso un simbolo irreale. Altrimenti, la sua persona sarebbe subito ricoperta, negli occhi sia del lettore sia della lettrice, da un ciarpame formato da pregiudizi e catene ideologiche (quelli della cultura vittoriana che l’autrice ha in mente di colpire, definita come ipocrita e iniqua).
La dea ultramondana che chiede (nel testo Un’opera d’arte) alla strega di tramutare i suoi caratteri non umani (la chioma di ferro, le ali, gli artigli), ossia di diventare bella per lo sguardo maschile, reclama per sé, appunto, qualcosa che le garantisca la felicità sulla terra. La bellezza femminile sembra sufficiente per conquistarla, ma la segue un’altra, non secondaria affermazione: la bellezza fisica è rara. La maggior parte degli esseri umani non può aspirare ad essa. Gli individui prima di essere diversi per censo lo sono per natura. A ciò nulla può opporsi. Natura non è cultura. Contro la natura è infinitamente più difficile combattere. Quella che si profila come un’inossidabile verità, cambia i dati del problema, perché raddoppia gli attacchi da affrontare.
Da lontano ricorda la favola della sirenetta di Andersen. La stessa trama, la stessa crudeltà. Anche modificare il dato di natura, lì dove ce ne fosse la possibilità, si tramuta in problema. Nessuno riconoscerà il sacrificio e intanto si sarà perso anche il legame con i propri simili, quel parterre di relazioni, affetti, amicizie, che costituiscono il contesto esistenziale a cui ancorare la propria esistenza affettiva. Volersi diversi, essere diversi, è restare soli. Ma questo sarebbe davvero il minor problema, se si potesse decidere del proprio corpo, della propria cultura. Da una parte, la donna riceve aiuti, accoglienza, desiderio, se è avvenente, dall’altra, è tenuta costantemente con il capo interrato: struzzo involontario a tutte le latitudini, in tutte le storie.
Al dato naturale, a quella natura che sottomette la donna attraverso la maternità, si aggiunge il dato culturale che le inculca che la maternità è il suo unico sbocco esistenziale, il suo unico ruolo. La posizione di Hastings è lampante, netta, senza rivoli e frange. Non c’è nulla da aggiungere. Lei desidererebbe solo che la donna potesse scegliere ed è sicura che allora sceglierebbe di non essere madre mai. C’è certamente un raccapriccio di fronte alla condizione dell’essere umano. Scrive che non ha mai conosciuto un essere umano di cui desiderare essere la madre. La maternità è anche una condizione di sacrificio, implica che un essere si annichili per consentire a un altro la prosecuzione della specie. Ma sarebbe importante, al di là di questo, che è appunto la questione tragica posta dalla natura, che una donna che decidesse di essere madre, avesse tutto l’aiuto dello Stato per non dover sottostare a ricatti, connivenze, umiliazioni. Qui si scorge anche la disperata visione di Hastings, la quale non crede che sia possibile superare l’umiliazione inflitta dalla natura stessa, così come non crede si possa ottenere una condivisa consapevolezza umana sulle diversità imposte dalla natura. Eppure, Hastings è un’intellettuale che lotta, che crede, dunque, che sia possibile erodere tale negativa condizione femminile, sia pure nel tempo. I suoi scritti sono percorsi da vene gonfie di denuncia, ribollono di indignazione, indicano vie e reclamano prese di coscienza da parte dei lettori. Anche la denuncia delle condizioni in cui versa la donna, vittima di se stessa, va in questa direzione. Le madri, che hanno subito per prime, anziché spezzare la catena dell’obbedienza alla situazione economica-sociale che le vuole solo fattrici e sottoposte al potere dell’uomo, divengono le portavoci dell’ideologia di asservimento, inculcando alle figlie la medesima prospettiva esistenziale. Ecco perché la strega, nella prima favola, si oppone alla trasformazione della dea, non vuole favorirla, la vuole schiacciare, viso sul suolo, come lo è lei.
Tuttavia i due aspetti, della disperazione e della forza progettuale, convivono in Hastings e questo la rende non parziale, profonda, non manichea.
Nel testo Nel frattempo è la volta di una dea che fronteggia un uomo. Il rapporto è infido, senza esclusione di colpi, violento fino allo stremo. Egli va combattuto con le sue stesse armi, altrimenti la dea non avrebbe la meglio. Se di sicuro è sempre leggibile, nelle Favole femminili, la sofferenza per una condizione in cui le proprie risorse (sensibilità, intelligenza, cultura) vengono sopraffatte dal sistema sociale che stabilisce a priori l’inferiorità della donna, è anche vero che la dea vince sempre. Basta seguire la propria volontà, esaudire i propri desideri, a costo di tutto, senza demordere mai.
Tali testi sono frutto di quest’impellenza espressiva, non hanno una costruzione canonica, assommano difetti e cliché nelle descrizioni. La voce di Beatrice Hastings scolpisce le parole, le fa risplendere nell’acciaio. Il suo stile è perentorio e senza tentennamenti. La verità è complessa, ma non per questo opaca. Che il messaggio arrivi forte e chiaro, soprattutto ricordando che le Favole femminili è stato pubblicato su un quotidiano.
Rosa Pierno
Nessun commento:
Posta un commento