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mercoledì 28 dicembre 2022

Tiziana Colusso “Ogni respiro un mondo” La vita felice, 2022

 

Il nuovo libro di poesia di Tiziana Colusso Ogni respiro un mondo c’introduce nel pensiero orientale, facendocene fare direttamente esperienza. I dieci mondi della pratica buddista coincidono con i gradi possibili che assumono le meditazioni che vanno dal mondo fisico al mondo ideale, ma il presente libro inverte la direzione. In ogni caso, al centro della pratica meditativa è il respiro. L’intera silloge è la testimonianza dei modi in cui fisico e ideale si permeano nell’esperienza quotidiana, quando si ha la consapevolezza dell’importanza della respirazione che ha il potere di guidare e mediare, funzionando meglio della ragione.

Se l’atto della respirazione consapevole batte un ritmo, la musica è inevitabilmente convitata al banchetto. Dal respiro, la musica. Nella musica, il respiro. Il <<canto gregoriano, rigenerante / come un mantra sacro, un respiro, / un ristoro, zona ombrosa vibrante>>. L’esperienza stessa si presenta come imbibita dalla musica, è da essa  inseparabile, se ci si lascia attraversare dal ritmo: <<apro-chiudo l’organetto del respiro / a partiture melanconiche>>. La presenza della musica, dunque, si rivela continuamente nel tessuto poetico del libro di Tiziana Colusso attraverso la presenza di vocaboli ad essa relativi: <<il canto visibile della cinciarella / sul pentagramma cristallino del gelo>>. Grazie a questa splendida sostituzione dell’ascoltabile col visibile si apre una nuova dimensione. Non si tratta di una semplice sinestesia, in quanto non è che un senso richiami semplicemente l’altro; è piuttosto un passaggio dalla sfera mentale a quella fisica. Si presenzia qualcosa che è nella mente. Si rende visibile, nella natura, il mentale e il potere della mente di trasformare il mondo. Troppo spesso dimentichiamo che ciò che vediamo è un nostro prodotto cerebrale (colori, suoni, tempo, spazio). Ma soprattutto <<pochi hanno preso quella via / i più hanno fumato fameliche / sigarette a latere della mascherina / bandendo l’ossigeno / dall’orizzonte del mondo>>, senza rendersi conto di nulla.


Il respiro come onda: ogni atto di inspirazione diviene un mondo possibile che si apre all’investigazione, svolgendosi nella mente e subito dopo riavvolgendosi. Siamo all’interno di una pratica, quella del Tai Chi Qi Gong che Tiziana Colusso esercita da decenni: via di trasformazione filosofica e spirituale che non resta ancorata al solo trascendente, cercando di affermare insieme fisico e spirituale, poiché è necessario <<un mondo nuovo>> di <<consonanze / alleanze mute>>. Non è detto che sia facile: al tentativo si frappone l’impermanenza che aritmicamente batte, <<sfarinando in nulla i totem / delle realtà credute eterne>>. Occorre mettere in atto una strategia per superare l’onda alta che travolge, occorre ondeggiare lievemente, imporsi una regola tramite l’atto della respirazione.

Tuttavia, in Colusso, è la poesia che assume in pieno il carico di trasformare in parola l’esperienza prodottasi attraverso la pratica meditativa. Ed è una parola vibrante che, palesandosi coscientemente, libera. Ha il potere di recuperare dalla memoria percezioni e ricordi impalpabili e di collegarli al mondo, non come suoi minuscoli frammenti, ma come parti che stanno per il tutto. In codesta sineddoche, si attua una continuità che si produce ritmicamente, con un suo ritmo di avvicinamento e allontanamento. Le onde della risacca depositano sulla battigia cose il cui recupero consente una ricostruzione identitaria, la loro collocazione nel mondo fluido e fluttuante degli eventi. Partecipare al tutto attraverso la propria esistenza non consentirà di sentirsi quale essere inutile e privo di senso dinanzi all’universo, ma sua parte integrante e insostituibile. Necessaria. Ogni oggetto, ogni elemento, attraverso il respiro, trova il suo posto nel mondo. E nell’ispirazione e nell’espirazione si amplia e si arricchisce. Ecco il motivo per il quale Tiziana Colusso scrive che la sua speranza è che anche il lettore trovi, attraverso la lettura, l’apertura verso altri mondi, possibili e innumerevoli. L’apertura della mente è essenzialmente un non limitarsi a ciò che si vede o si tocca, ma un lasciarsi attraversare da ciò che non si riesce nemmeno a immaginare.


In questo senso, è bene non farsi imbrigliare dai concetti e non lasciarsi stritolare dalla loro limitata operabilità. Maggiormente utile sarebbe accettare il paradosso, lasciare agire l’integrazione tra pieno e vuoto, lasciandosi percorrere dalla loro relazione. O, più precisamente, percorrerli senza porre limiti: 


VI ( dalla sezione Pastora di Parole)


 vuoto  /  non vuoto


     Immoto luogo

lago in cui sprofonda

            quasi senz’onda

            ogni falso movimento 


 ogni vacuo accento


Si noti anche la cura con la quale Colusso gestisce le spaziature, quasi per delineare una struttura in cui il vuoto trovi la sua collocazione e non sia sopraffatto dalla pienezza, con un richiamo alle operazioni mallarmeane.


Tutta la raccolta Ogni respiro un mondo si configura come volontaria perdita dei riferimenti consueti e come ricerca di altre pietre sulle quali poggiare il piede e attraversare il guado. È sufficiente che un guasto interrompa, ad esempio, il flusso dell’energia elettrica e che il corpo si ritrovi proiettato in una dimensione psichica diversa: una nuova porta, in tal modo, si apre e  si scorgono “consonanze / alleanze mute”. Colusso non rinuncia mai all’immanenza, ne cerca anzi tutti i possibili appigli per proiettarsi mentalmente in altre dimensioni. È proprio in tale interconnessione, sempre più ricca, sempre più fluente, che si può individuare un nuovo modo di vivere: <<nel qui e ora / d’un oltretempo senza mappe>>.


È un gioco di equilibrio, mantenersi ritti nell’impermanenza che travolge <<sfarinando in nulla i totem / delle realtà credute eterne>>. È necessario imparare a leggere i ricami sul vuoto e la <<sottile strategia del giunco>>. Il tempo va afferrato attraverso tutte le sue definizioni: tempo riavvolgibile, tempo elastico, tempo perduto, tempo mai del tutto perso. E ciò naturalmente riguarda anche lo spazio, fino a coinvolgere persino la propria identità: <<cortocircuiti tra non essere ancora / e già non più>>.


Splendido quel fotogramma in cui la messa a fuoco riguarda sia il fondale che il primo piano:



III (dalla sezione Fons Sapientiae)

 

e viene aprile, crudele di vento

con tramonti di ombre sull’acqua

abitata solo da gabbiani -

le rondini ancora latitano

nella rinascita stentata -

le battaglie ribollono di nuovo

e ancora, senza memoria e

consapevolezza, follia crescente

ad ogni latitudine, barocco

tracollo della specie umana -

ma qui, a bordo fontana

solo piccole ondine regolari

che cullano uccelli e naufraghi

nel pomeriggio lungo


Se si è capaci di vedere contemporaneamente la sequenza sociale, politica, storica e la propria esistenza, si saranno presi con una sola fava due piccioni. Eccolo quel senso dell’apertura dei mondi possibili, con cui Tiziana Colusso ha saputo ampliare i nostri, mentre modificava il suo fino a sentirsi albero, seme; immersa senza alcuna distinzione nella natura. Il suo linguaggio, sempre più fluente e metamorfico nel prosieguo della raccolta, avvince il lettore con il suo ritmo incalzante e felice: l’immanenza sembra aver perso peso e il trascendente sembra aver acquistato un corpo. E questa è, in ogni caso, anche la descrizione di un mondo poetico!


                                                                             Rosa Pierno




giovedì 15 dicembre 2022

Angelo Restaino “Contrada dello Zodiaco” Fallone editore, 2021

 


La silloge di Angelo Restaino Contrada dello Zodiaco, tutta giocata sulle percezioni del qui-adesso, che non di meno alludono all’oltre, permeano il presente, apparendo come un continuo passaggio dell’ago tra una membrana che collega le due sfere, ora considerate non più come incompossibili. La mente può vivere questi due stati, tramite la propria immaginazione, di cui la poesia di Restaino è concretissima testimonianza. Se ne ha subito un assaggio nella prima poesia della raccolta Labirinto, in cui le case “accumulate insieme senza regole” crollano per il terremoto del 23 novembre 1980 come “al soffio del lupo gote gonfie”. Immediata è la percezione, nel lettore, della favola dei tre porcellini, come se fosse un fatto inerente al sisma. Come può, infatti, separarsi l’effetto di realtà dal portato immaginativo? Non è possibile; si tratterebbe a tutti gli effetti di un impoverimento, di una perdita. E fra l’altro, non sarebbe nemmeno una valutazione veritiera.


Opera prima della maturità, quando si ha una ben chiara e distinta visione della funzione e del ruolo di ciascuna nostra sfera esistenziale (percezione, amore, intuito, riflessione, ecc.), il libro di Restaino si muove, con le rare rime e le numerose allitterazioni, dal canto (il canto, elemento presentissimo nella parte iniziale della silloge sta per adesione alla totalità, di contro a una percezione puntuale) alla riflessione. Il soggetto lirico è un oggetto-io, un io-cosa, un io-materico, intrappolato nella sua costellazione percettiva, mai chiuso però nella sola gabbia spazio-temporale. Ne fanno fede non solo i numerosi prestiti (da Lucrezio alla fisica quantistica) quanto piuttosto le relazioni fittissime con un’altra dimensione del sé: quel sé-tutto, capace di accogliere nel guscio personale, oltre alle risonanze del reale esperito, quelle enigmatiche dell’oltre presagito.


Nel finale di Genealogia dei codici è esplicitamente dichiarata la fusione tra spazio e tempo come fatto mentale: “(una notte e una valle conclusa)”, dove spazio e tempo si scambiano le estensioni cartesiane. La nostra mente appare coincidente con quella del dio, mente superiore che tutto contiene:


così usciamo tutti armati dalla mente

di un dio: siamo un grumo di coscienza

capace di proiettare ombre,

bruciatura sul piano dell’essere

– membrana di mucosa o di cellophane –

causata dall’umore del sole.


Splendida immagine che dalle caverne di Platone arriva a scrivere direttamente sulla pelle umana! Quell’essere parminideo per il quale tutto è uno, ma al quale faticosamente bisogna giungere. Niente è immediato! Bisogna risalire dalle proprie percezioni, a quelle attenersi, e inglobare senza nulla escludere.


Gli archivi frequentati dal Restaino, paleografo di professione, sono una parte documentale in cui è impossibile che non sia scritto anche altro, rispetto alla vulgata della nostra morte, considerata come fine definitiva. Aprire un codice è come sollevare il coperchio che rinserra brusii, voci, moti, odori di acqua, di pesci e di annegati:


il loro canto emerge in bollicine –

– braille stenogrammi o forse morse,

un ricordo al futuro per la loro morte.


Altrettanto vero è che se passato e futuro convivono nel presente, le cose del futuro incombono nel nostro quotidiano. Quelle cose accadranno (“mellonta tauta” frase greca che è anche il titolo di un testo di Edgar Allan Poe). Tuttavia, la difficoltà di comprendere sembra dipendere da un vero e proprio “difetto della vista”, perché se è vero che abbiamo un apparato ottico fra i più possenti della natura, esso ci spaventa, gli attribuiamo il potere di distoglierci  dalla comprensione interiore. Quei molti mondi che non vediamo, quelle distanze che crediamo reali sono un aspetto che se costruisce la nostra possibilità di esistere, al contempo ci toglie la possibilità di vedere al di là dello specchio. Certamente quella di Restaino è una voce poetica che si dibatte tra stanze e illimitato, tra esistenza e morte, tra pensieri e percezioni, ma non come fossero due concetti antitetici, bensì come fossero due facce inestricabili di uno stesso volto che saldano assieme il finito e l’infinito. La splendida poesia Bianca rende il continuo tentativo di pensarsi in forma materiale e in forma immateriale.


E in fine la mia rabbia si fa rossa,

sogna altre rivoluzioni, striscia

si annoda sinuosa e si divincola, 

brilla mentre peggiora, e prima

di esplodere in un lampo silenzioso

si srotola quasi una linea

come una frustata sibila

si fa noia, si ricorda che cos’era,

diventa acuta come un ultrasuono

rimbalza sul nero muro metallico

con un do puro di tuono, in un ultimo

anelito di gloria si fa d’oro,

e prima di venire risucchiata

nel nulla in cui si aggirano rancori

come cani in mezzo alle discariche

sorge sul mare ed è un segno bellissimo,

un fuoco d’artificio per tornare a casa

(l’ultimo di cui si avrà memoria)

e senza dare il tempo di pentirmi

si fa sabbia di calce e in fine bianca.


Una poesia che, pertanto, è esperienza di un nuovo paradigma scientifico e che proprio attraverso gli obbligati ordinamenti spazio temporali sa far affiorare memorie, preveggenze, consapevolezze estranee alla sostanza. L’ironia sottilissima e affettuosa del poeta, con la quale egli sistema il proprio vissuto, così come il vissuto di ciascuno di noi, lascia il posto, alla fine del volume, a una riflessione più stringente e assertiva su alcune percezioni-meditazioni che riguardano noi e la compresenza dei nostri cari, anche quelli non più in vita, in una sorta di coagulo mentale, che diviene assolutamente ingiusto liquidare come illusione.

A sostegno della mia lettura, riporto la poesia Crania, nella quale il disseppellimento di teschi animali, che non può esaurirsi nella valenza del presente e della sostanza, travalica sfondando tempo e spazio.


Sorge una collana di pianeti in fila.         

Affiorano denti, come per rinascere, 

dalla terra battuta sfatta in sabbia           

sulla riva del lago: ecco un rompicapo

per archeologi in vacanza. Ci chiniamo

entusiasti alla scoperta, bello il twist

verso il passato, verso il giallo, verso il nero

del plot dei nostri giorni di diporto 

a circumnavigare specchi d’acqua.


Ci mettiamo a scavare con le dita.

Ora Linneo sorride, splende il sole

ed estraiamo trepidanti una mascella 

e basta, tutto intorno. Riprendono 

a scherzare i bambini sulla spiaggia 

lacustre, si riaccende netto l’audio.

Se potessi descrivere il tuo gaudio

quando illuminata mi sorprendi

e la dichiari ganascia di cinghiale!

Solenne la eleviamo a nostro totem,

trofeo di cacciatori di presagi.


Poco oltre indoviniamo infatti

il cranio fragile di un capriolo

cui soffia nel cavo delle orbite

una fresca buia terra di nessuno. 

Sta su un mucchio di pietre a indicare 

un incrocio fra destini (noi vivi lì

ed estranei, lui morto nel suo regno)

o un limpido segno di concerto

tra gli ingegneri muti del bosco -

- che gli si inchinino i suoi predatori.


Designato guardiano dell’esterno,

servirà a noi come scongiuro

sotterraneo esposto su un sarcofago,

gesto apotropaico, bucranio

in miniatura tra i festoni tesi

sugli spalti della mia e tua estate…


Cercheremo come un puzzle altri pezzi

di altre bestie, a formarne una chimera

una sfinge solo nostra da temere nella sera.  


Rosa Pierno 

giovedì 1 dicembre 2022

Marco Furia su un ‘opera mail art di Walter Pennacchi


 

Aggettanti cartoncini


Un tipo di mail art dai tratti aggettanti ma ripiegabile su sé stessa (idonea, perciò, a essere spedita via posta ordinaria) è l’opera di Walter Pennacchi di cui alla riproduzione fotografica.

Subito colpisce l’esatta, policroma, definizione: l’artista cattura l’altrui sguardo e lo trattiene proponendo un lavoro in cartoncino dalle parti sporgenti (non manca un foglio riflettente simile a uno specchio).

Assieme a indirizzi di mittente e destinatario (nonché a dedica), anche i francobolli, lungi dall’essere mero strumento indispensabile al recapito postale, costituiscono parte integrante dell’opera.

Colori, lettere, frammenti di parole e di frasi ricordano celebri esperienze di un’avanguardia la cui lezione in questo caso mi pare, più che meramente compresa, vissuta in maniera originale, autentica.

Non siamo in presenza di riverenti richiami, bensì di un’attuale partecipazione che riesce a farsi gesto artistico e, di conseguenza, a indurre a riflettere su estetici nessi tra passato e presente.

Senza dubbio, i confini tra percezione, pensiero e atto artistico appaiono labili, poco rigidi: Walter è il suo lavoro?

Esiste una distinzione (ovviamente non storico-biografica in senso stretto) tra i due?

Risponderei in maniera affermativa a entrambi i quesiti: a mio avviso, la persona dell’artista si mostra nella sua opera e in simile manifestazione, pur non annullandosi, tende a non differenziarsi da essa.

Siamo al cospetto di un esserci dall’intensa valenza estetica del quale prendere atto senza voler proseguire un’analisi dagli esiti incerti: un oggetto dalle inaspettate caratteristiche si presenta e a noi non resta che affidarci allo sguardo.

Anche l’occhio del nostro mail artist e quello dell’osservatore tendono a non distinguersi troppo: così io, non soltanto perché destinatario della dedica, mi trovo a essere parte non passiva di ciò che osservo, ossia di un’opera che ammiro ma di cui non vorrei essere stato l’autore perché, in tal caso, uno specifico, raffinato e fecondo, percorso estetico-comunicativo non avrebbe avuto luogo.

Un percorso complesso, ricco d’articolazioni, ma anche immediato frutto di quella “precisa definizione” e di quella capacità di catturare lo sguardo di cui parlavo all’inizio: davvero ci sentiamo chiamati a vivere un escludere tutto il resto e, nel contempo, un comprendere tutto il resto in cui, ancora, due opposti aspetti riescono a convivere.

Siamo, così, giunti a una fine che, lungi dall’essere un termine, è territorio da cui partire per altri innumerevoli itinerari promossi da un dialogo che, pur nutrendosi di forme, colori, oggetti, non è mai del tutto estraneo alla parola e al silenzio.

Il linguaggio artistico può assumere aspetti anche molto diversi, l’importante è che possieda qualità espressive il più possibile elevate: grazie, perciò, a Walter Pennacchi, a Poste Italiane e, perché no, a me e a ogni altro osservatore.

                                                                                                                    Marco Furia