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giovedì 8 settembre 2022

Marco Vitale Gli anni, Nino Aragno editore, 2018


 

Gli anni (Aragno editore, 2018) raccoglie tutte le raccolte poetiche di Marco Vitale dal 1993 e mai titolo fu più onnicomprensivo visto che il tempo è il principio costitutivo della scrittura del poeta. Il tempo viene osservato sia nella diacronia sia nella sincronia offerta dalla memoria; rispettivamente, quel filo apparentemente continuo e quella serie di frammenti da cui non è più possibile ricomporre alcuna continuità. Le sue occorrenze sono raccolte dal poeta con la certosina accuratezza del filologo, sempre attento a che, sull’acqua stagna della pagina, non se ne fissi mai una definizione, che ne raggelerebbe lo scorrere, che negherebbe il gioco inesausto della scrittura stessa. E, nonostante tutto, è un tempo non cronologico.

D’altra parte, una definizione del tempo è negata fin dai primi due libri, che presentano un precoce raggiungimento della maturità poetica e istituiscono con i seguenti volumi un dialogo fitto di minime variazioni, oculatissimi inserimenti, a riprova che l’autentica voce del poeta mostrava fin da subito una disciplina derivante da “una raffinata appartenenza a una grande cultura”, oltre che risultare accordata a una sorgente di “naturalissima grazia” e “delicatezza”, come indica Giancarlo Pontiggia nella prefazione al volume.


L’immersione nelle scritture poetiche di Marco Vitale consente di enucleare una struttura fortemente coesa dei testi e delle raccolte, di cui intendo almeno segnalare alcune fra le più decise emergenze.

Nella raccolta Monte Cavo, del 1993, compaiono alcune descrizioni naturalistiche di un tono apparentemente tanto dimesso nel contenuto quanto sonoramente issato (vi si riconosce un certo ermetismo, qualche gemma leopardiana e montaliana, l’influsso della poesia simbolista francese, ma meglio sarebbe indicare la tradizione poetica nella sua totalità, che fin da subito appare per Vitale più rilevante della realtà allo sguardo interiore); alcune accelerazioni barocche che ravvivano anche l’indole del poeta, già predisposto, comunque, a un certo funambolismo (i predisposti toni in ombra, smorzati, che gli fanno strizzare gli occhi nell’oscurità per meglio sentire i suoni quando meno si vede); la presenza dell’acqua, che, forse, più della luce e dell’ombra, scorrendo, leviga e, levigando, trasforma le figure rendendole simboliche; ma anche la luce è un emblema che segnala la tradizione petrarchesca e dantesca, giungendo a intercettare Mallarmé.

I temi (l’amore per il padre, per la madre, le occasioni di viaggio, qualche incontro d’amore) sono ancor meno che pretesti in un autore che non ama le storie, gli intrecci, ma le fulminanti epifanie, talmente vaghe che nemmeno si potrà esser certi di esserne stati toccati, di aver avuto effettivamente una rivelazione da una sensazione. Mentre, sul versante psicologico, la nostalgia, il rimpianto, serpeggiando fra i meandri di un’acqua immobile, adombrano un’atmosfera che tiene fermi persino i solitamente galoppanti cavalli del rimpianto. 

Quella di Marco Vitale figura come una scrittura che desidera raggiungere l’al di là delle cose, pur sapendo che ciò che incontra è proprio la scrittura poetica, capace di palesarne soltanto l’allusione. Nella poesia, mondo di pure relazioni, ciò che è geometrico è musicale, visivo e forma quella rete di analogie che indica il tutto. È il linguaggio che inventa il mondo.

Con un tale potente esordio, il lettore, si chiede in quali direzioni il poeta si dirigerà. Difficilissimo restare sul livello impalpabile e misterioso della prima prova.


In maniera sorprendente, ne L’invocazione del cammello (Amadeus, 1998), la tendenza all’astrazione non demorde: si rafforza, anzi, attraverso alcuni lemmi chiave che sono come cartelli direzionali: ‘volto’, ‘ritorno’, ‘luna’, ‘selva’, ‘voce’, ‘sentieri’, ‘silenzio’. Sono parole cerniera, il cui uso consente al poeta di slittare da un significato all’altro, percorrendo l’intera struttura semantica istituita dai suoi versi. Se il desiderio è che tale struttura riassuma l’intero cosmo, esso è naturalmente un cosmo scritturale, dove, appunto, il tempo è fisso, configura un ricordo, spazializzato come in un casellario mnemonico: “Della luce di un tempo sull’Aurelia // così lontano di giugno”. È un “tempo reliquiario”, un tempo “rupestre abitatore”. Persino le opposizioni anziché movimentare, bloccano qualsiasi spinta:


Non l’inverno una vita

no l’inverno solo

enclave di languore

vento e torba

diroccava


chiara cenere d’ali


La stasi, a cui la costruzione versificatoria di Vitale dà luogo, la si potrebbe considerare come il viatico che consente di comprendere che le storie sono quelle formate dalle tonalità notturne o da quelle diurne, che siano però generate esclusivamente dai ricordi e di un genere del tutto particolare. Non solo personali, ma appunto letterari. Sono storie che interpolano le stelle, l’acqua, la luce, la luna, l’ombra. I colori, dapprima, sembrano essere solo due: il grigio, l’azzurro. Il primo associato all’ombra e alla mestizia; il secondo, associato anche a macchie cupe, può disegnare un asintoto, un diagramma delle nevralgie. Le stagioni sembrano sfogliare le varie pagine, donando ad esse la loro luce estiva o invernale. Ma appunto sembra cambiare solo la luce, non la visione psicologica. La luce può essere calma, dura; l’acqua può essere chiara; il silenzio può scaturire da una clessidra, mentre il gelo e il silenzio raffermano vieppiù il tempo della memoria. Si delinea, dunque, la tendenza all’impersonalità, che si accentuerà nei suoi ultimi libri, e che mette in scena (sotto l’egida di Mallarmé fino a Jabès) un ritrarsi affinché si produca sulla pagina uno spazio aperto all’accoglienza dell’indefinito.


Con Il sonno del maggiore (Il Bulino, 2003), che ripercorre i passi di un parente militare nella guerra di Libia, di cui restano alcune fotografie scattate alla sabbia, fanno il loro ingresso il blu e il verde.  Il blu è quello di “una notte che non canta”. Anche il verde è astratto: “Il verde che accompagna chi ci assale / anche dal nulla di una linea d’aria / Il verde che ricuce le ferite / a una più fonda pagina soggiace”. Si tratta di un colore irrelato, non situato. Nelle liriche di Vitale, i colori sembrano marcatori all’interno dei versi: ‘d’ingiallita fronda’, ‘i bianchi fuochi d’estate’, ‘il caro azzurro’, ‘le azzurre lettere’, ‘un’azzurra devozione di ronda’, ‘il velo del tuo azzurro’, ‘accensioni verticali verdi e azzurre”. Non rinviano a una forma. Sono come razzi lanciati per segnalare qualcosa, mentre tutto intorno il paesaggio è sfocato. È il colore, pertanto, a consentire l’ottenimento del polo dialettico della concretezza attraverso la quale si riversa il senso nascosto, enigmatico. Nei suoi libri si instaura un gioco di corrispondenze attraverso un movimento libero ed è per tale via che s’installa la finzione letteraria. Anche la luce, il suono, il silenzio, l’ombra vibrano quasi all’unisono, creando una coincidenza con la poesia. Il presente, con le sue estensioni diurne o notturne, è solo uno strumento di captazione che introduce al sogno, all’idea, allo spirituale.

Per certi versi è proprio nelle descrizioni di alcuni quadri o disegni, che sono sparse nelle varie raccolte (Giulia Napoleone, Gianluca Murasecchi, la Pala di Brera), che le poesie di Marco Vitale si distolgono dalla concettualizzazione astratta e si esercitano nell’azione opposta, nella costruzione di una storia che leghi cose a significati. 

Accanto ai colori, gli aggettivi. Questa breve raccolta sfoggia una serie di ricercatissimi aggettivi, sempre calibratissimi, di cui riporto solo un esempio: “adusti ororicciuti”. Inoltre, vi si nominano strumenti per il calcolo (la bussola, le carte astronomiche), vi si elencano concetti geometrici (il baricentro, l’esattezza, le linee rette) distribuiti sul foglio assieme al “manto concettoso degli astri”, i quali contribuiscono a tessere la trama contrappuntistica barocca presente in ogni componimento di Vitale. Sicché il testo, che all’inizio ci era parso istituire un fermo immagine, ora appare dotato di una stoffa a doppio velo; la scrittura poetica, pur ribadendo il rimpianto con la sua ferrea morsa, mostra di essere impunturata da stille di luce balenanti e inafferrabili.


Se le occasioni da cui originano le poesie presenti nella raccolta Canone semplice  (2007) sono variegate (le poesie dedicate agli amici, al padre, alla città di Milano), vi sono sicure boe di riferimento nei lemmi chiave che ci legano a un vocabolario astratto, eppure preciso, tracciante una mappa: chiarore, silenzio, tempo, luce, nostalgia, giorno, notte, sonno, passi, vento. Costituiscono i luoghi ideali di una mappa che si sovrappone al reale, con i quali Marco Vitale interpola la propria esistenza. Anzi, la realtà gli serve solo per traslare sulla mappa concetti indefiniti, quando, addirittura, non  rappresentabili.

Ciò che sta intorno potrebbe essere un’acqua mossa o una bruma; caratterizza un’indecidibilità, ascrivibile più alla presenza di un mistero o di una tendenza ermetica, che a una soglia percettiva silenziata. Nessun evento, piuttosto un’aura, un sembiante. La condivisione, l’afflato emotivo, che appaiono maggiormente sfocati per la distanza che la memoria reca, sono quasi un corrispettivo da sopportare per superare il contingente. A questo punto, dopo la iniziale partenza effettuata con aggettivi più vivaci, si assiste a una loro netta rarefazione. Nomi e verbi vengono associati in modo da  mostrare che l’ingranaggio gira a vuoto. Il tentativo sembrerebbe quello di cogliere una sorta di suono costante, monocorde: al lettore si para dinnanzi una landa memoriale ove ogni posizione ha il medesimo valore. Le liriche di Marco Vitale non esplorano l’interiorità come fosse un luogo familiare, ma una palude manganelliana nella quale più si procede e più si affonda. Coraggioso gesto poetico, nel quale preziose appaiono al lettore, pertanto, le boe dei vocaboli astratti, fissi come stelle in cielo. Il tempo indefinibile; lo spazio non geometrizzabile se non per tasselli; la nostalgia che tinge il dato esistenziale con il suo viraggio di colore (preferita la gamma dei blu, non a caso per la sensazione di altezza e distanza siderale che innescano); il silenzio che copre le parole di coloro che pur parlano, finiscono con disegnare quell’interiorità che resterebbe altrimenti una parola vaga come l’io. E non è qualcosa in cui sussista il rischio di perdersi, perché le parole chiave servono come quelle corde che incatenano Ulisse all’albero. Il viaggio nei propri ricordi è una tentazione a cui bisogna opporre qualche stratagemma. Per vedere l’indefinito, bisogna legarsi a qualcosa che sia concretamente individuata. Poiché è codesta la questione: i ricordi anziché essere ricevuti dalla coscienza, sono provocati da essa. Come, ad esempio, accade coi colori, che equivalgono a segni, a lucide tarsie, sul percorso iniziatico.

Si sottolinea che è il poeta stesso ad ammettere:


Ma poi che importa, penso, cosa importa

se ti parlo di nuovo come in un sogno

di quel che è stato e avresti

ricordato o anche solo

intravisto


Le azioni, i pensieri, le sensazioni, le emozioni sono poste sul medesimo piano, soprattutto pensando al fatto che esse esistono, sono comunicabili, principalmente attraverso le parole. E allora: “ricordiamo ché talmente / fuggevole si fa il qui e ora”. Ma “fra tutta questa caducità” è inevitabile pensare che il presente è preso nella rete versificatoria, “con le parole già ridotte / a tracce / invisibili ma decisive”: è afferrato solo tramite esse.

Ribadito è, d’altronde, anche nella raccolta Diversorium, del 2016, lo stato precario dell’esistenza: “Non c’è nessuno…noi… / ancora per un poco…” che, in alcuni momenti, si traduce in un’inquietudine, ove persino il mare è un’ipotesi. 


Solo per te le tracce affondano, si fa

smeriglio anche la luce 

meridiana e ridesta 

geometrie

linee già eluse 

ali nere che addensano

nel libro vasto e offeso della Natura


A parte notare il magnifico richiamo al corvo di Poe, anche l’apparente dialogo (da cui si può trarre similarità con la voce mallarmeana a cui pure riporta l’abolizione della punteggiatura) che si svolge fra le linee nette e i barbigli di luce sfalda l’antitesi, la quale, da incombente che era, diviene solo probabile, sicché il pensiero non costituisce più una risorsa. Ne è fomentatrice l’abbondante uso delle disgiunture sintattiche. La dislocazione alterata degli elementi scardina la consecuzione lineare, facendo giungere il lettore alla indecidibilità semantica. Non vi è un significato a cui giungere, ma vi sono enigmi simbolici da rilevare. La squisita versificazione di Vitale non è solo da decifrare; se ne deve accettare, a tratti, l’incomprensione. Ed è lo stesso autore a dichiararlo quando denuncia l’inconoscibilità di ogni cosa. Non solo il lettore, ma anche lo scrittore è preso dall’insensatezza della scrittura, per tal ragione avevo fatto riferimento in precedenza a ruote che girano a vuoto. È quest’ultimo un meccanismo che genera valore in quanto libera il piano per far emergere le primitive potenzialità d’invenzione.


Nemmeno le restanti risorse (emozione, sensazione, intuizione) sembrano essere in grado di fornire al poeta una elaborazione conoscitiva: “e il tempo è ancora quello che ho trascorso / senza davvero conoscerlo”. Ciò rende distanti cose e persone: “irraggiungibili belli / come non bello certo / ma irraggiungibile ero anch’io”. Vitale sembra osservare se stesso alla stregua dei propri genitori nel ricordo. Al di là del rapporto tra presenza/assenza, si tratta, a mio avviso, di una concretezza inconoscibile e di una indefinitezza conoscibile, giacché è molto più certo e stabile ciò che non si conosce. Marco Vitale vede i limiti, le soglie, ciò che manca, molto di più delle forme e delle sostanze.

Persino la quiete, così amata, verso cui la nostalgia si dirige con passo sicuro, appare “così ipotetica / che potrebbe non essere mai stata”. Tuttavia, mai la quiete è stata imbandita con maggior nitidezza se non in queste pagine che volevano denunciarne la perdita.


Rosa Pierno 

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