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mercoledì 28 settembre 2022

“Le syndrome de Daphne” di Sighanda, mostra presso Villermin sur mer

 



Sighanda è lo pseudonimo con cui Dominique Fidanza, artista italo-svizzera, firma i suoi lavori in diversi campi artistici, in quanto è pittrice e musicista. La sua installazione Le syndrome de Daphne, nata durante la residenza d’artista a Villemur-sur-Tarn, nel 2021, infatti, prevede che, nella sala sulle cui pareti sono affisse le sue opere realizzate con pigmenti e con interventi a grafite, un suono dolce e magnetico si dispieghi, avvolgendo la persona e sostenendo la vista.

La sua volontà di determinare un’opera complessa a livello percettivo, che  coinvolga direttamente i sensi, si esplica con la creazione di una struttura in cui ciascun genere artistico partecipi fornendo un apporto insostituibile, ineliminabile, ma anche relazionale, che non disdegna l’apporto del caso. 

Tuttavia, è il soggetto dell’installazione Le syndrome de Daphne a reclamare un surplus di incidenza autoriale, giacché le metamorfosi, dall’opera letteraria di Ovidio, sono incontrollabili e imprevedibili. Le forze naturali che si integrano con le individualità umane danno vita a trasformazioni che per quanto sorprendenti, sono sostenibili, giacché rientrano nelle trasformazioni naturali, diversamente da quel che accade quando l’essere umano deve affrontare un ambiente urbanizzato, che, secondo Sighanda, genera un depotenziamento e un depauperamento delle risorse intellettive ed emozionali. Questa sua riflessione, determinata dal fatto che l’artista abita sulle Alpi, le fa sentire maggiormente la forza plastica della natura in quanto artefice, a sua volta, dell’individuo e rovescia la prospettiva: è il corpo umano, dunque, a essere visto in funzione delle forze plasmatrici della natura.


Nei disegni di Sighanda, la trasformazione accorcia le distanze tra umano e animale, anzi rende entrambi un unico corpo. Che importa se le membra femminili terminano con zampe, se il colore rosa della carne mostra un unico effluvio sanguigno, più  scuro, che accomuna corpi diversi? Corpi e velli, zampe e musi, volti e corna si snodano in una continuità a cui solo il bordo del foglio impone un limite, ma essi continuano nella nostra mente a sorgere l’uno dall’altra, in un’eruzione continua di unghie e code, visi e pellame, mentre asole di vuoto si aprono a rinserrare il contorno di quelle foglie in cui il corpo di Daphne si sta trasformando in lauro. Intanto che il colore dei flussi sanguigni o degli scorrimenti ancor più freddi si trasforma in un brillante blu oltremare, la grafite delinea contorni in ebollizione, descrive i dettagli delle materie invischiate, ombreggia e indica volumi imprevisti. I colori sono quelli dei corpi (ocra, rosso)  e delle temperature dei liquidi (rosso/caldo, blu/ freddo). Le masse mutano nel pigmento disperso in soluzione acquosa, ma non sono descritte come se fossero viste solo dall’esterno. Anche le viscere, partecipano al processo, emergono in primo piano, come la pelle. D’altronde, la differenza tra pelle e corteccia assume un ruolo paradossale, non è considerato un contenuto di conoscenza. Le qualità delle materie sono importanti se valutate da alcuni punti vita, ma non da tutti. Ci sono frutti che prescindono dall’analisi razionale e si porgono al gusto di coloro che sono curiosi e che cercano altri modi simbolici.


È interessante per il fruitore constatare che l’artista procede stendendo i suoi pigmenti anche in maniera casuale e che dal caso trae, poiché ve ne riconosce i segni, le forme che servono alla sua narrazione. Tuttavia è un caso particolare, poiché è il caos generato dalla stessa mano dell’artista. D’altronde, come non ravvisare in ciò la medesima mano della natura naturans?

Quello che importa è non perdere l’esperienza, tesaurizzarla, mostrarne, attraverso la registrazione, i conseguenti processi. Evidenziare, cioè, che esiste un’alternativa al modo di vivere nelle metropoli. Che spesso l’alternativa è un rovesciamento completo delle consuetudini. Che riprendersi l’intero orizzonte conoscitivo ed esperienziale fa conseguire ennesimi gradi di libertà. Per far nostro questo assunto, nel mentre guardiamo l’opera, dobbiamo concedere di abbandonarci allo sguardo, alla musica, al tatto. Dobbiamo sentirci attraversare dal rovesciamento di prospettiva, sentire il nostro corpo premere, fluire, deformarsi. L’unione, poiché questo è il senso di tale processo, eliminerà il caos, quasi come se esso costituisse un discrimine che si crea tra cose separate. Ci troviamo in un ambito utopico, che nondimeno serve a segnalare l’inconsistenza della credenza nelle separazioni, quando non si crede al contempo nelle unioni. In fondo, è nella nostra mente che risiede la cesoia che cade inflessibilmente su materie che amerebbero unirsi. 


Apparirà allora che il meccanismo che l’installazione predispone equivale esso stesso a un gioco metamorfico, dove colui che ha guardato, percepito, ascoltato, che ha attraversato quegli spazi, ha subito una trasformazione. Ha compreso che la mente è elastica e che l’arte è quel cibo che consente l’allargamento delle potenzialità percettive e mentali. L’illimitatezza, ossia, a dispetto del limitato, o pensabile solo grazie ad esso.


Rosa Pierno

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