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domenica 27 dicembre 2020

“Not bad (2019-2020)” di Claudia Zironi, Arcipelago Itaca, 2020

 


Una riflessione sul tempo, nell’ultima prova di Claudia Zironi, “Not bad (2019-2020)” Arcipelago Itaca, 2020, sui valori che non tramontano è necessariamente un’analisi effettuata sulla storia, nel racconto che si stila, non perché essa, sviluppandosi nelle sue determinazioni passate, presenti e future, colga sincronicamente il loro intreccio, quanto, piuttosto, per il motivo che è nella storia che s’intravede ciò che non trascorre, il quale fisso e benevolo se ne sta dietro ogni cosa, atto, sorriso o insulto. E così dagli infimi e insensati particolari si risale al senso, a qualcosa di solido, di durevole, la cui fondazione risiede nella coscienza.

 

se tu fossi il vento io

starei ferma

tra le lavande di giugno, immobile

con abiti ampi, bianchi di bucati antichi

ti lascerei passare, aperta e sorridente

come scampata

alla storia, agli anni, alla fossilizzazione 

degli ammoniti, ti lascerei entrare

sotto i cotoni nascosti, tra le pieghe della gonna 

ti lascerei rubare ogni profumo – terra della terra

fiore di ogni fiore – vento mio, mio sole – ti donerei

questo nostro nuovo tempo passato.


E non vi è altra via per risalire a un siffatto senso che quella di indugiare sui particolari, l’erba, le formiche alle quali sentirsi solidali, riconoscendo in essi la medesima materia e volizione, scopo e morale che albergano nell’animo umano. È la sostanza tutta che viene coinvolta in questo afflato, anche, dunque, la bufera, il giallo, la tana. È un passaggio continuo, effettuato per via d’osmosi, di letterale incarnazione, dove le premonizioni avvengono attraverso la materia o i ricordi della stessa: “un viaggio estivo di cicogne barocche e luci impermanenti’. È ciò che, al tempo stesso, viene frapposto, quasi una diga, a un prossimo sgomentevole tempo degli automi.


Il mondo è convocato, con le sue innumerevoli forme e materie, tra le quali si attua una metamorfosi senza soluzione di continuità, e Claudia Zironi vi partecipa quasi cosa fra cose, nel tentativo di dismettere la propria individualità. È lampante il pericolo che corre chi voglia donarsi al mondo contro ogni barriera, negando persino la più ovvia valutazione di sopravvivenza, ma è la necessità del sincero donatore. In fondo, la volontà di mettersi a nudo sulla pagina è azione contrastata da tutta una serie di impedimenti stratificati, anche linguistici, dai quali è necessario liberarsi, e che richiedono sforzi notevoli e lunghi. A questo si deve la versificazione costantemente variata, a tratti tendente alla prosa, sebbene resti intatta la cesura di fine verso. Vi si individua anche una non estromissione della logica dal discorso poetico, pur di affrontare le questioni da ogni lato, in ogni modo. Così che tutto il libro può considerarsi un esercizio per adattare il mondo al proprio desiderio, poiché si tenta di nulla escludere. L’inane compito assunto non teme di presentare i suoi fallimenti e le sue lacune e così la credibilità dell’esperienza poetica diviene la porta di accesso per la condivisibilità del lettore. 


non saprei dire esattamente 

cosa manca ancora, forse 

il tuo essere corallo 

vivido e in estinzione, il mio

sedimentarmi in te, renderti opaco

roccia anelastica, prossima 

alla disgregazione, paziente calcare, rifugio 

di perfetti animali elementari.

ci veglieranno insieme, nelle notti

già stellate e silenziose, dai calanchi

del nostro nuovo mondo 

in formazione – in absentia.


L’oscillante moto fra tutto ciò che si ricorda, spesso montagne di inutili detriti, e ciò che è essenziale è il medesimo che traccia il percorso perenne del desiderio che corre finché c’è vita; in tal guisa, la morte traluce tra questi estremi come un trasalimento o un fondale inabbattibile. Non c’è qualcosa che prevale sull’altra, in tale inesausto andare, ma indomita è la posizione di colei che tutto vuole tenere a bada e spingere in una diversa direzione. Soprattutto, risulta ammirevole la posizione di Zironi nel mostrarsi capace di godere di ciò che sopravviene del tutto inaspettatamente e di accoglierlo come provvidenziale:


# you are here 


quando nessuno ti aspetta, puoi fermarti

in un giardino, di notte, a guardare le stelle,

e ti consola, questa bizzarra primavera

di gennaio.


                                                                                 Rosa Pierno


lunedì 14 dicembre 2020

Marco Furia su “Un tuffo più grande” di David Hockney, 1967


 David Hockney, “Un tuffo più grande”, 1967, acrilico su tela, Collezione privata


Nel 1967, David Hockney dipinse “Un tuffo più grande”.

Ci troviamo al cospetto della statica rappresentazione di una villetta con piscina e di un tuffo in quest’ultima.

Nessuna figura umana è ritratta (sono visibili soltanto spruzzi).

L’evidente piattezza dell’immagine non è inespressiva.

Il trasversale trampolino giallo indica, quasi fosse una freccia, la moderna costruzione, bassa e rettangolare, sulle cui vetrate si riflettono scure sagome di altri fabbricati.

Davanti agli ampi vetri si trova, solitaria, una sedia pieghevole e, sulla destra, svettano due alte palme dai tronchi sottili.

Il cielo è di un azzurro simile a quello dell’acqua.

La palese propensione per la pop art assume qui aspetti metafisici: vi è ben poco di realistico in un quadro in cui abbondano campiture di colore uniforme.

Dove si trova quella villa? Chi si è tuffato?

Domande senza risposta.

I ciuffi delle palme di certo vedono e sanno, ma non parlano, mentre la sedia pieghevole, forse in attesa del tuffatore, custodisce in silenzio i suoi segreti.

Eppure l’espressività non manca.

Sceglie la via di una rarefatta eleganza e si modula secondo una sorta d’enigmatico pentagramma, costituito da linee orizzontali e verticali, la cui raffinata (muta) musica è interrotta dagli spruzzi sollevati dal tuffo. 

Senza quei fiotti, l’opera sarebbe in equilibrio e potrebbe intitolarsi, ad esempio, “Villa con piscina”.

Ma, non a caso, il suo titolo è “Un tuffo più grande”.

Più grande di cosa?

Più grande di quell’assetto lineare che, altrimenti, regnerebbe incontrastato con la sua monotona uniformità.

Siffatto assetto, nondimeno, mostra di reagire: l’immagine bloccata dello spruzzo è poco consona, ma non è in grado di opporsi più di tanto alla diffusa fissità che la circonda.

Rapido movimento e metafisico immobilismo si confrontano: nessuno dei due contendenti sconfigge l’altro, sicché non si giunge a una composizione, bensì, come dicevo, a una, forse ironica, mancanza di equilibrio.

Ho detto “forse ironica”, perché mi pare di avvertire la presenza di un giudizio non proprio del tutto benevolo nei riguardi della cosiddetta società del benessere che, durante gli anni sessanta del secolo scorso, in particolare negli Stati Uniti d’America, a tutti prometteva confortevole agiatezza.

Vengono alla mente certe sequenze di un celebre film di quell’epoca riguardanti le vicende di un giovane laureato, appartenente alla classe medio – alta, che entra in conflitto con modelli di comportamento sociale tutt’altro che privi di opprimente ipocrisia.

La felicità, insomma, non può consistere nel semplice possesso di una villetta con piscina: tuttavia loro, la villetta e la piscina, non lo sanno.

Il tutto secondo tocchi precisi, sobri e davvero eleganti.


                                                                                                 Marco Furia



lunedì 30 novembre 2020

Marco Ercolani “Il futuro angelo” per la mostra A’ DEUX Art brut-Art contemporaine, Expace Exposition Bibliothèque Méjanes, Galerie Zola Citè du Livre, Aix en Provence, 2020

 


A’ DEUX

Art brut-Art contemporaine, Expace Exposition Bibliothèque Méjanes,

Galerie Zola Citè du Livre, Aix en Provence, 2020

Testi di Elena Bonini, Hervé Castanet, Marco Ercolani, Lucetta Frisa (“Dialogo con l’ombra”), Gustavo Giacosa, Jean-Baptiste Lallau


Cosa ci rivela, Gustavo Giacosa, con questa sua nuova esposizione, A deux, (Galerie Zola, Aix-en-Provence, Janvier-Mars 2020) dove opere di artisti contemporanei e di artisti d’art brut dialogano insieme? Ci rivela la necessità, non arginabile, di esporre le ragioni potenti e anomale del corpo, non filtrate dall’ordine logico del discorso ma dettate dall’interno del groviglio soma-psiche, prima dualità dell’essere vivente. Come scrive il curatore della mostra: “Il doppio è nel cuore stesso del corpo umano”.    

L’arte visiva è da sempre immersa in una doppia natura: l’invisibile mondo interno, spesso oscuro e denso di paure, cerca forme al suo dirsi, vuole varcare la soglia del taciuto, fermare l’attenzione come un occhio non meduseo ma decisivo, segnale di una diversità irrinunciabile. Queste immagini perturbanti evocano occhi, cellule, mani, piedi, specchi, maschere, violenze, metamorfosi, simbiosi, fantasmi, incubi sessuali, fantasie di danza, rapporti umani e ferini: sono l’inventario di un corpo straziato da impulsi ed emozioni. II dialogo, onirico e sonnambolico, che traversa con uguale potenza opere di artisti contemporanei e brut, le rende talismani inquieti, agghiaccianti fantasmi. Vivere da spettatore attento le diverse sezioni della mostra è socchiudere gli occhi al normale mondo dei limiti e immergerli in quell’altro, segreto, illimitato, pericoloso mondo (“L’altra parte” come la definisce Alfred Kubin nel suo celebre romanzo) - dove l’uno incontra il due nella pericolosa verticalità della mistica o nell’inabissamento farneticante della follia. “Il doppio nell’art brut rimanda a una forma di verticalità che lega l’uomo al divino in una forma di esclusiva intimità” (Giacosa). 

La mostra ipotizza che tutte le opere umane valgono solo per le ossessioni che le incarnano. Se uno scultore volesse trasformare le figure delle sue statue in evanescenti pitture, le scolpirebbe increspate, frantumate. Rischierebbe la follia, ma sarebbe un metodo per oltrepassare i confini e distruggere ogni letale monumentalità. La traduzione di due versi di Hölderlin “Ciò che resta/ lo fondano i poeti” potrebbe anche essere: “Ciò che avanza/ lo offrono i poeti”. Nessun fondamento da definire o costruire: solo un dono, che evapora nell’aria.

Nella mostra di Giacosa la realtà del due – gli occhi, le mani, i sessi, i piedi, i conflitti, gli amori, gli odi – è anche idea di una metamorfosi che offende il pudore delle armonie prestabilite, affrontando temi come la maschera, lo specchio, le rivalità, la coppia, il fantasma, il sesso, la bestialità. L’idea di un “bello” turbato, di un potente e sgradevole unheimlich, attraversa l’intera mostra. Siamo obbligati a vedere ciò che il sonno censura, obbligati a sognare qui, adesso, mentre siamo spettatori. In tedesco unheimlich - perturbante - significa minaccioso e il suo opposto, heimlich, intimo. I due termini, pur esprimendo contenuti antitetici, hanno un’equivalenza fonetica nella lingua tedesca che Sigmund Freud sottolinea con scrupolosa attenzione. Heimlich significa «intimo, segreto, domestico». Ma l'intimità suggerisce anche invisibilità. «Domestico» può essere quindi anche «segreto, sottratto alla vista, nascosto». E «nascosto» richiama il concetto, apparentemente antitetico, di «occulto, spaventoso, minaccioso». Analogamente nei Riveda della tradizione indiana, il Cielo è Dyaus (radice «div», il cielo, il luminoso) e la Terra Prthivi (radice «prth», estendere, spiegare). Parole diverse come Dyava-Prthivi, Mitra-Varuna, Indra-Agni, Indra-Visnu, Agni-Soma, definiscono coppie di opposti con suoni diversi ma simili. In parole come diti e aditi, dvaita e advaita, mrta e amrta, il prefisso a trasforma la parola nel suo opposto. C’è un suono quasi equivalente: e impercettibilmente l’uno diventa due.

Freud ci avvicina alla concezione positiva e dinamica di un'ambivalenza perturbante, evocatrice di un significato ulteriore sempre imminente: è «l'altra parte» di una realtà visibile che diventa possibile fonte di terrore. Unheimlich è il senso di sgomento che ci afferra mentre scopriamo qualcosa di non familiare, di inimmaginabile, là dove credevamo di trovare eventi familiari e previsti. Il «perturbante» potrebbe essere quindi definito, in termini più adeguati, la dinamica di uno smascheramento che introduce la possibilità di vedere l'irreale nel reale, il fantastico nel quotidiano, e viceversa. Scrive Robert Musil: «Il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe ugualmente essere e di non dare maggiore importanza a quello che è, rispetto a quello che non è». Uno stato di metamorfosi, del cui strazio si fa interprete, in una delle sue visioni, l'alchimista gnostico Zosimo di Panopoli (III secolo D.C.): «Qualcuno accorse sul fare del giorno, velocemente mi afferrò e mi squarciò con la spada, smembrandomi senza alterare la disposizione delle membra. E scorticò completamente la mia testa con la spada che brandiva, mescolò le ossa con le carni e le arse di sua mano col fuoco, finché non mi resi conto di avere mutato la natura del mio corpo e di essere diventato spirito». 

Lo spirito si sviluppa nel tempo del sonno, quando apparentemente siamo fuori dal mondo e invece sprofondiamo realmente nel nostro. Vediamo i nostri sogni e ci appaiono reali. Viviamo dentro una nebbia, ma la nebbia non arriva dal clima esterno: la nebbia siamo noi, il modo con cui vediamo, che non è mai unico. La notte nutre il giorno e il giorno la notte. Ma, quando ci si sveglia o ci si addormenta, si va dall’una all’altra parte del mondo, attraverso lo stretto passaggio di cui siamo custodi. 

Di cosa siamo custodi? Del nostro corpo, mai identico a se stesso, delle nostre menti tormentate. È come essere davanti a un muro crivellato: bisogna andare via, lo sappiamo, le vittime non ci sono più, a cosa serve restare? Ma si prova uno strano pudore, un’intima paura, a lasciare quel muro solo, con le sue cicatrici; vogliamo che il nostro sguardo abbia ancora il potere di consolare, di lenire, non si sa cosa, perché tutto è già accaduto; e così non si va ancora via, si guardano le schegge, i buchi, le crepe (perché non si chiamano ferite?), si pensa a scene di battaglia dove alcuni uomini sono stati uccisi e a scene di festa dove sono stati felici, in una metamorfosi continua della mente e del corpo. La metamorfosi sostanzia il nostro pensiero, e il prezzo da pagare è proprio la duplicità del corpo, il suo strazio somatopsichico, che in ogni segmento di questa mostra scandalosamente si svela e si insinua, attraverso continui smascheramenti, come un inquietante animale collettivo, anonimo protagonista di estasi e terrori, dove non soltanto dominano le espressioni della follia “altra” ma l’umano svelato in tutta la sua minacciosa e felice potenza. Il reverendo Hooper, nel racconto di Nathaniel Hawthorne Il velo nero del pastore, da una certa domenica in poi celebra la messa con il viso coperto da un velo. Il velo nero non è simbolo di nulla. Né metafora né allegoria, allude a tutto e a niente. Chi lo guarda si pone domande assillanti: il pastore vuole espiare una colpa personale o collettiva? Ma il reverendo non fornisce spiegazioni plausibili. Si farà seppellire con il velo sul volto, lasciando tutte le domande senza risposta. L'inquietudine non nasce da uno smascheramento, come sarebbe logico pensare, ma da un mascheramento enigmatico. 

Osserviamo, poi usciamo all’aperto, come se il sogno-incubo della mostra fosse ancora presente. Se vedessimo casualmente un’ala, piccola e sottile, poggiata su un muro accanto a un corpo privo di vita, potremmo immaginare che quel cadavere, se l’ala pudica e dismessa si attaccasse alla sua spalla, si rimetterà in volo ritornando alla vita. Ma potremmo immaginarlo soltanto se le ali del futuro angelo fossero due. Ogni rinascita dalla fine non passa attraverso una mente sola e un corpo solo.


                                                                                   Marco Ercolani





giovedì 12 novembre 2020

Jacques Dupin “Alberto Giacometti. Testi per un approccio” Pagine d’Arte, 2020

 


Il pregevole libro di Jacques Dupin, nato dalla volontà di Aimé Maeght che decide di pubblicare la prima monografia sul lavoro di Giacometti nel 1963, è la registrazione di tutte le impressioni, conversazioni e notizie raccolte dalla bocca di Giacometti, confessando lo scrittore e poeta, decenni dopo, di aver agito nei confronti del suo soggetto al modo stesso in cui operava l’artista di fronte ai suoi modelli.  Il suo testo appare, infatti, mai terminabile eppure sorgivo, mai fissato e pur tuttavia ineludibile. L’analisi di Dupin ha la ricchezza e la profondità espresse dalla cultura filosofica francese di quegli anni, ma il suo pregio più importante è che l’autore sa coniugarla con l’analisi dei mezzi espressivi e degli strumenti formali che i disegni, i quadri e le sculture  di Giacometti esibiscono, per cui mai si allenta il legame concreto con le opere esaminate. Jacques Dupin ci immerge nell’atelier di Alberto Giacometti, in maniera tanto rapida e profonda da farci perdere il senso della realtà, quella stessa realtà che è stata l’ossessione dell’artista svizzero.


Il problema del referente è collegato in prima istanza al ritratto, lì dove s’insedia l’individualità, quell’unicorno da afferrare e restituire sul foglio, sulla tela o imprimere nel gesso. Il primissimo veloce abbozzo –stabilente dimensioni e volume, distanza dell’osservatore dall’oggetto, spazialità nella quale l’oggetto è inserito –  nel prosieguo della lavorazione diviene il suo opposto: estraneità e rifiuto, dialogo spezzato, rapporti di forza irriducibili, desiderio di aggredire e sopprimere.  Lo scambio, che dovrebbe defluire dal dialogo tra sguardo e oggetto, tra rappresentazione e referente sembra ogni volta interrompersi e ogni volta dover ricominciare da quell’interruzione. Immesso dunque, senza mezzi termini nella fucina di Giacometti, anche il lettore non ha scampo: è costretto a misurarsi con la forza dello scacco, a comprendere ciò che è impossibile  conoscere. Straordinario appare, dunque, il lavoro di Dupin, teso, con tutte le sue forze, a mostrare il meccanismo titanico e invincibile richiesto dalla rappresentazione a cui Giacometti non si è mai sottratto.


Il testo non consente alcuna distrazione, non fuorvia con notizie secondarie o digressioni. Gli occhi sono ben aperti, come quelli del criminale in Arancia meccanica, il quale è costretto a guardare. Ciò che ne consegue è una comprensione profonda, una riacquistata consapevolezza, giacché ogni volta un‘opera d’arte costringe a recuperare la misura della sua utile inutilità e, perciò stesso, della sua eroica azione di perseguimento. Il testo di Dupin è altrettanto eroico, non molla la presa per un istante, il suo fiato sul collo dell’artista produce un distillato sopraffino e quando sta per gettare la spugna, convinto come l’artista stesso, che la sua fatica sia condannata al fallimento, è la lettura effettuata da Giacometti stesso che salva il suo lavoro, aderendovi appieno e reclamandone la pubblicazione, nonostante  i dubbi dello scrittore. Entrambi i lavori, opere e testo sulle opere, sono non concludibili. Solo qualcosa di esterno, di contingente, ne sancisce il termine, come la morte dell’artista o l’opportunità della pubblicazione. Tuttavia, la vitalità di ciò che è stato portato alla vista, oramai scorre eternamente. Se nessun uomo entra mai nello stesso fiume, nessun uomo può concludere un testo o un’opera: “Attraverso ogni scultura, quadro o disegno, non fa che perseguire un unico e uguale tentativo di avvicinamento alla realtà. L’opera è unica, incompiuta, impossibile”, sebbene il concetto di realtà sia sottoposto anch’esso a una ferrea investigazione.


Dupin fa propri gli strumenti del paradosso per affrontare l’artista e la sua opera:, i quali gli appaiono come l’abbozzo di un’impresa infinita. Non si può emendare lo scritto dalle numerose antinomie che vi compaiono, poiché esso si snoda proprio attraverso le antitesi di cui è trapuntato: dalla costruzione geometrica alla magia allucinatoria, dalla forma astratta ai dettagli, dall’esteriorità delle cose alla loro interiorità, dall’immagine parziale all’immagine totalizzante. Non ultimo, l’estremo paradosso che s’instaura tra la vita e la morte, tra le fattezze viventi di un volto e la rigidità dello scheletro. Non risparmia nessun campo di indagine, Dupin, scendendo anche nei meandri di una psiche colta nella sua aggressività e pulsione distruttiva e tuttavia ne distilla un succo che pone la creatività in relazione a quella divina, poiché ne fa il tramite per il sacro, pur nell’impossibilità della comunicazione dell’uno con il tutto. Infatti, pur  dominando su ogni cosa la contraddizione tra totalità e indeterminatezza delle parti, lì dove il tratto cancellando se stesso, progredisce, si giunge al “potere totalizzante dell’atto creativo”.


Dupin non scandaglia le motivazioni interiori se non per portare alla luce il senso delle opere di Giacometti, siano esse pittura o scultura (l’artista si è dedicato persino all’operazione di ritrarre le sue sculture), di visualizzare cioè la cosa vista, entrando in uno dei luoghi più inaccessibili al mondo: quell’opera d’arte nella quale una cosa non appare allo sguardo di colui che sa già come le cose sono, ma si manifesta solo allo sguardo ripulito da tutti quei “correttivi mentali che lo intorpidiscono e lo alienano”. Giacometti ha saputo rappresentare “ciò che vede e vede come non osa vedere, in quanto ha saputo attuare la vera liberazione, che non concerne il reale bensì lo sguardo”, situandosi agli antipodi dell’anatomia accademica. La tradizione classica che, infatti, esige che si rispetti la realtà in se stessa e non come appare, dovrebbe essere oggetto di scienza e non dell’opera d’arte.


Rosa Pierno


Jacques Dupin “Alberto Giacometti testi per un approccio “ Pagine d’Arte, 2020,

a cura di Gilberto Isella, prefazione di Jean Frémon, litografie di Alberto Giacometti, fotografie di Ernst Scheidegger

venerdì 30 ottobre 2020

Marco Furia su “Cronache di estinzioni”di Lucetta Frisa, puntoacapo edizioni, 2020


 

Poetiche catastrofi


Diversi sono gli aspetti (o chiavi di lettura) dell’articolata, intensa. raccolta “Cronache di estinzioni” di Lucetta Frisa.

Si parte, innanzi tutto, dalla testimonianza del drammatico stato del mondo:


“Il Cervino si è spogliato di tutto

ha sciolto i suoi veli bianchi restato una pietra

grigia di pietra come tante altre

senza applausi solo

là in fondo al palcoscenico del cielo

un osso nudo e lontanissimo”.


Potrebbe sembrare, a prima vista, una pronuncia quasi ovvia, ma così non è: un vivido senso di constatazione è presente in tutta la silloge con valenza per nulla trascurabile, tale da porre in essere un’originale, persistente, atmosfera.

Ci si rende conto ben presto, allora, di come i versi di Lucetta non costituiscano una sorta di mera denuncia ma un vero e proprio caso di poesia civile.

Occorre pur fare qualcosa e tutti, nessuno escluso, siamo coinvolti: la voce della poetessa, oggettivamente, chiama ognuno di noi a far fronte a responsabilità individuali e collettive.

Altrimenti


“Traslocheremo su un altro pianeta

più fresco

giovane

tiepido e

innocente?”


Inoltre, notando certi non rari tratti, ci si accorge d’essere in presenza di propensioni all’invettiva.

L’invettiva, diceva Elio Pagliarani, è “emozione contro”, ossia discorso in cui i normali canoni, pur non del tutto messi da parte, vengono superati da una prorompente passionalità (qui dai toni efficaci e piuttosto composti):


“È a questo nero diverso che consegneremo il mondo

(con qualche sacca di resistenza a nord)

è il destino di chi bene o male ha consumato il tempo

e per l’ordine delle cose deve andarsene”.


Uno dei citati aspetti s’impone sugli altri?

No.

I diversi lineamenti, pur emergendo talvolta singolarmente, sono assidui caratteri d’una raffinata compattezza poetica alla quale non manca un non salvifico senso dell’ironia:


“Si dice che il ghiaccio

curi tutte le infiammazioni:

gli ardori degli uomini e il mal di denti

il fuoco degli astri e dei vulcani

e di tutti i viaggi insensati”.


Ho detto “non salvifico” perché


“L’ironia tiene in vita per un po’ impedendo

le smanie di assoluto. Ma non basta”.


La catastrofe incombe, nondimeno la poesia, come “Cronache di estinzioni" dimostra, ancora resiste.


                                                                                                          Marco Furia



Lucetta Frisa, “Cronache di estinzioni”, puntoacapo Editrice, Pasturana (AL), 2020, pp. 68, euro 12,00 




domenica 18 ottobre 2020

La poesia visiva come arte plurisensoriale presso la Fondazione Berardelli dal 03.06.2020 al 31.10.2020 nell’ambito della rassegna Pratiche sinestetiche: un progetto di Lamberto Pignotti, a cura di Margot Modonesi

 


Il catalogo realizzato per la mostra La poesia visiva come arte plurisensoriale in corso presso la Fondazione Berardelli dal 03.06.2020 al 31.10.2020 nell’ambito della rassegna Pratiche sinestetiche: un progetto di Lamberto Pignotti, a cura di Margot Modonesi, espone una pregevole panoramica delle molteplici pratiche artistiche afferenti alla poesia visiva. Se sotto quest’egida trovano sistemazione cose anche diversissime fra loro, non accade in modo incoerente, giacché è possibile ravvisare alcune linee teoriche che strutturano un campo ben definito. Infatti, la poesia visiva è un’area in cui afferiscono diverse pratiche, spesso intermediali, e presenta una ricchissima stratigrafia ideologica. Difficile addentrarsi, non solo conoscerne la cartografia, ma anche avere una visione d’insieme. Certamente la poesia visiva nasce all’interno delle avanguardie d’inizio Novecento, ma si sviluppa soprattutto nei decenni della seconda parte del secolo scorso con un progetto di comunicazione totale e di riappropriazione della produzione artistica e, in generale, con intenti progettuali che investono l’intera società.  Tale strategia prevede la  continua metamorfosi degli strumenti e delle forme per sfuggire al meccanismo di captazione del potere, che Foucault teorizzò negli anni ‘60. La costante rivisitazione delle pratiche artistiche, della loro produzione e dei loro scopi ha, inoltre, investito e inglobato alcuni temi: la sinestesia, l’opera totale e la trasversalità delle arti, poiché in esse gli artisti hanno ravvisato una potenzialità che poteva essere puntualmente concreta, cioè sperimentabile attraverso la creazione e la divulgazione di ciascuna opera, sebbene utopici fossero gli assunti iniziali. 


Gli strumenti (l’assemblaggio di materiali diversi, non canonici, prelevati dal reale, ma decontestualizzati e accostati ad altri ambiti espressivi; il collage, usato senza porsi alcun limite di materiali ed ambiti; il prelievo, sull’onda della pop-art di prodotti commerciali utilizzati come messaggeri rivoluzionari tanto per citare solo alcune delle tecniche di produzione delle opere) i luoghi (in cui la partecipazione pubblica alle performance o alla ricezione delle opere avviene al di fuori dei luoghi istituzionali dell’arte) i valori (l’arte deputata a risvegliare le coscienze e a riappropriarsi della produzione; l’esperienza di ricezione attiva e non passiva sia dei prodotti culturali sia delle individuali capacità sensoriali) dimostrano come un’inversione e un capovolgimento sia sempre in atto nelle opere degli artisti della poesia visiva. Il gioco vi  entra come sinonimo di una serie di azioni che guardano alla sostituzione e alla messa in questione di ogni aspetto dell’organizzazione sociale. 


Margot Modonesi fa notare, in merito agli apporti innovativi della poesia visiva, quanto la sperimentazione operata dagli artisti mescidi qualsiasi mezzo di comunicazione con qualsiasi altro mezzo di comunicazione e si spinga fino a essere “Un’esperienza artistica, quindi sinestica, edificata sull’intenzione di una risultante percezione simultanea, di contro ad una sua considerazione puramente estetica, che tradizionalmente privilegia gli ambiti della vista e dell’udito”. Coloro che si riconoscono nelle polimorfe pratiche della poesia visiva cercano nuove modalità espressive e guardano all’opera totale, come a un nuovo orizzonte. Riportiamo ancora le parole di Margot Modonesi, che chiarisce come tale concezione si leghi “inscindibilmente ai problemi della ricezione dell’opera nella comunità: arte come prassi condivisa e rituale collettivo, arte come ritrovamento di una socialità”. La trasversalità della arti è il mezzo con il quale raggiungere la massima intensità nella comunicazione con le masse. E, naturalmente, un punto di fusione immediato viene riconosciuto alla sinestesia, in grado di ottenere il raggiungimento di un’amplificazione sensoriale ed emotiva che consenta  di far aderire e partecipare con nuovo impeto al progetto collettivo proposto. Questi i tre snodi, dunque, che tengono insieme le variegate prove individuali. Ecco, perché dicevamo all’inizio che precise linee innervano la struttura dell’azione artistica denominata poesia visiva, al di là della sperimentazione poliedrica, che è stata ed è forse una delle fucine più innovative e coraggiose del panorama artistico contemporaneo.


Ed ecco perché Lamberto Pignotti, ideatore dell’attuale serie di mostre sul tema sinestetico, invita a porre con decisione il tema dello sconfinamento dai singoli specifici settori dell’arte: “l’artista e lo scrittore si propongono di configurare su inediti orditi i rapporti e le gerarchie tra codici linguistici e semiologici, media tradizionali e neo-tecnologici, organi privilegiati come la vista e l’udito e organi esteticamente assai trascurati come il gusto, l’olfatto e la vista”. Soprattutto, egli sottolinea che “la critica non riesce sempre a identificare e seguire” questa vertiginosa ed estremamente complessa ricerca. Per questo appare ancora più preziosa e indispensabile l’attività di promozione e di archiviazione della Fondazione Berardelli, nata grazie all’infaticabile lavoro di Paolo Berardelli, il quale all'inizio degli anni sessanta, si avvicina alla poesia visiva, della quale conosce nel tempo tutti gli artisti più rappresentativi sia italiani che stranieri, collezionando oltre 4.000 opere e mettendole a disposizione della Fondazione.


Rosa Pierno



La Fondazione Berardelli nasce nel novembre del 2007 per volontà di Paolo Berardelli, con la finalità di far conoscere il movimento artistico della Poesia Visiva, attraverso l'organizzazione di esposizioni, incontri e seminari e la pubblicazione di monografie dedicate ai suoi maggiori esponenti.

La sede della Fondazione, che si trova a Brescia, è costituita da un ampio spazio espositivo sviluppato su due piani e da una ricca biblioteca, che consta di più di 6000 volumi, consultabile on-line e aperta al pubblico.

Il patrimonio della Fondazione è costituito inoltre da un'ampia collezione di opere che raccoglie oltre ai lavori dei protagonisti della poesia visiva - come Julien Blaine, Jean-François Bory, Ugo Carrega, Giovanni Fontana, Fernando Millán, Ladislav Novak, Paul De Vree, Hans Clavin, Eugenio Miccini, Alain Arias-Misson, Lucia Marcucci, Lamberto Pignotti, Sarenco - anche quelli della poesia concreta - Augusto De Campos, E.M. De Melo e Castro, Pierre Garnier - e fluxus - George Brecht, Joseph Beuys, Sylvano Bussotti, Giuseppe Chiari, Daniel Spoerri, Ben Vautier.


venerdì 9 ottobre 2020

“Gianni Paris: Pittura in silenzio” presso lo studio hyunnArt, Roma, fino al 30 ottobre 2020

 


Nelle opere di Gianni Paris in mostra, ricoprenti un intervallo temporale che va dal 1995 al 1999 e che vengono presentate per la prima volta in Italia, la massa cromatica favorisce e al contempo impedisce l’insorgere delle figure e delle forme animali o paesaggistiche. Una pittura del silenzio, quella di Gianni Paris, artista ticinese, che ha amato allontanarsi dai clamori della mondanità per dedicare ogni istante della sua vita ad essa, nel suo atelier di Melano (Mendrisio). Paris è stato anche autore di numerosi libri d’artista in cui le immagini si accompagnano a una calligrafia solo apparentemente dotata di senso. La scrittura quanto più perde leggibilità tanto più diviene immagine. Tali segni, aventi parvenza linguistica, svolgono per Gianni Paris una funzione centrale: tracciano un diario. Il lavoro di trascrizione esistenziale, il registro di impulsi, visioni, diktat, rivelazioni, larve figurali, accenni che si susseguono nella psiche trovano in tal modo una registrazione non labile dell'energia mentale dell’artista.


La pittura è per lui un esercizio iperbolico che rivendica ogni atto conoscitivo. Alla pittura, che sussume disegno, colore e gesto, Paris sottomette la forma, come elemento secondario. Pura pittura in cui è il colore che assume valenza prioritaria rispetto alla forma. Il colore è affetto da inesausto moto e articola lo spazio enfiandosi e sgonfiandosi. Lo spazio è, anch’esso, misura e funzione del colore. Spazio e tempo sono emanazioni della massa cromatica, dunque, e mai ciò che è a priori. Una posizione che scalza la costruzione teorica di  Kant e riconfigura la percezione, quando il suo scopo sia l’atto del dipingere. Vedere per dipingere, in un’immota sospensione, dalla quale scaturisce, quasi per contrappeso, il moto dal quale ogni cosa origina. Una pittura dell’origine, che trae da uno stato indistinto i caratteri che la definiscono. Pittura del cosmo terragno e acquoso. Delle prime albe, dei terreni ferrosi, dei manti erbosi. Il colore ha un peso e una massa e articola gli equilibri della composizione oleosa, come una marea che cresca e si abbatta sulle nascenti forme.


Il pigmento, trascinato da un pennello di setole dure a destra e a manca, non si deposita, continua a fluttuare, a incunearsi, a slegarsi, a volteggiare in candidi o plumbei cirri oppure in arrotondate colline, creando continuamente nuovi equilibri e disarcionando i precedenti. L’immagine dipinta da Paris non sta mai ferma. Inutilmente si penserebbe alle forme di Bacon, le quali, se si deformano, lo fanno però raggelandosi alfine in una smorfia. Paris inventa forme senza fissità, le quali possiedono il moto continuo di ciò che si trasforma incessantemente. E la sostanza delle cose, una volta che sia divenuta coincidente col colore, diviene assuefazione alla luce. Se la massa può vedersi solo grazie al colore, se il colore può vedersi solo a causa della luce, allora la forma è data dalla luce. Ma è una luce che nasce nel colore. Tutto è ricondotto a questo principio basilare della pittura. Forse, Paris, è uno degli ultimi accaniti  e più strenui fanatici della pittura-pittura.


È naturale che la luce nel quadro sia interamente funzione del colore, ma la meraviglia di certi albuminosi chiarori che si dispiegano dalla pasta oleosa è insuperabile! Altrettanto lo sono, le terre di Siena bruciate che si ossidano in catramosi neri, sfondanti la superficie del quadro. Quando la massa dell’impatto si ritrae, s’intravede la luce del mattino. La luminosità traspare dalle zone inerti, lasciate libere dalle masse cromatiche. Se un fondo paludoso ristagna, si legge ancora, nel suo inviluppo, il vortice generatore. Forse è nell’ombra che incubi e figure si rivelano e si agitano fin nei meandri della storia universale.


I colori appartenenti alla gamma delle terre, dei verdi-oliva, dei bianchi sfolgoranti nel placarsi della stesura cromatica rivelano una forma soggiacente: quella del paesaggio. È la medesima gamma di due fra gli artisti più singolari degli ultimi secoli: Goya e Morandi. Fra le loro opere, Paris tende ancor di più la corda per lanciarsi nel suo spericolato percorso.


Certe motilità delle setole che smuovono la pasta pittorica, certe rifrangenze della luce sbattenti sulle creste materiche, rendono ancor più tremolante l’immagine, ostacolando il suo addensamento e facendola impazzire come un amalgama incongruo. Miracolo della capacità mentale di Gianni Paris, il quale ci conduce a ravvisare una figura quando maggiore è la disarticolazione ottica, il disfacimento figurale. Per questa cagione dicevamo degli incubi notturni, di un onirico stato in cui la lucidità appare come un miraggio sotto un’ironica luce lunare. Si raffigurano teste bovine, becchi di aquile, ali di corvo, dorsi montuosi, destrieri al galoppo, elmi e scudi, pesci boccheggianti. Ma è appena un’impressione, subito rifluita nel sommovimento della materia cromatica. È il colore a decidere la forma e a dissolverla.


A dirla tutta, il colore si arroga la creazione dell’universo, la distinzione delle materie. Nel suo ribollire libera le essenze: la luce sembra più un risultato che un mezzo che  renda visibili i colori. I cremosi pigmenti muovendosi sulla tela mostrano la verità della materia prima, quando se ne enucleino le estensioni cartesiane (peso, movimento, grandezza, figura, disposizione delle parti). In qualche modo Paris si oppone a Morandi, pur derivandone, poiché nel mondo ordinato e pulito della natura morta di Morandi, dei suoi paesaggi a zolle, l’artista ticinese vi introduce un moto caotico, il moto originario. Se vi sia ordine nel mondo è una legittima domanda. Non v’è ordine per Paris, ma solo caos. Caos che appare come un brodo caldo, dove si stiano formando gli aminoacidi della futura  forma.


Quando Paris allenta la morsa e fa sfiatare le turbolenze del magma pittorico, le trame si allargano e il bianco prevale come pura luminosità che allenta il rinserrarsi figurale; il segno delle setole prevale, separa, allevia e fora. Il gesto, che è indissolubilmente legato alla stesura della materia pigmentale, modifica e trasforma l’apparenza della materia, al fine di imporgli la propria significazione. Il pennello modula la superficie dipinta, dispone e disloca, determinando differenti sottigliezze nello strato, svelando direzioni di sviluppo, creando superfici opache o riflettenti. Gli andamenti del pennello, guidati dal  gesto che crea i rilievi, forgiano le emergenze plastiche. La cornice bianca, segnata da una riga bianca che contorna la pittura, è a sua volta circondata da un colore ocra chiaro e omogeneo e solo dopo, in seconda battuta, emerge il bianco della carta a rammentarci che i supporti della pittura non sono elementi secondari, ma partecipano alla formazione dell’immagine dipinta.


Una cornice, spesso presente nell’opera di Paris, tirata come a delimitare il regno della pittura rispetto alla neutrale zona franca del passe-partout è, dunque, un ulteriore segnale per il riguardante. Non solo finestra da cui rimirare un paesaggio preso nel vorticoso formarsi e disfarsi delle masse, ma anche delimitazione a cui attenersi per non cadere nella trappola pittorica. Per sentire lo iato tra realtà e quadro.

 

Rosa Pierno






giovedì 1 ottobre 2020

Danilo Di Matteo <<“L’esilio della parola”. Il tema del silenzio nel pensiero di André Neher>> Mimesis, 2020



 Danilo Di Matteo affronta il capolavoro di André Neher, “L’esilio della parola”,  a partire dal rapporto dialogico tra l’essere umano e Dio: è in esso che si incontra la parola abbagliante di Dio (mentre in Abramo la parola rivelata diventa la sua stessa persona, con lui coincidente) ma anche il dilagare del silenzio. Nell’assenza della parola non è più la relazione ad essere centrale, ma la posizione assoluta dell’essere umano. Il dialogo da verticale, con Dio, è anche orizzontale, dell’essere umano con i suoi simili, segno dell’opera, dell’azione, della responsabilità. Il dialogo mostra però anche un aspetto paradossale che lo erode dall’interno. Colui che ascolta in qualche modo non è più in dialogo poiché invaso dalla parola che ascolta, la quale permea il sé con le parole del parlante. Da ciò si trae che il vero dialogo dovrebbe essere un compenetrarsi sincronico, creativo, improvvisato, simile a quello che ascolteremmo a teatro.  <<“È nella prospettiva dell’imprevisto” che va concepito il dialogo con la Bibbia. “Il mondo è aperto, i giochi non sono fatti”. Dio “non possiede la totalità delle chiavi della sua opera; nemmeno l’uomo”>>. A volte le chiavi sembrano essere state smarrite e il silenzio configurarsi come il simbolo principe della relazione dialogica: esso coincide con lo spazio in cui l’essere e il nulla disvelano il loro potenziale. Il silenzio “Mette in questione, senza mai rispondere; e risponde senza mai concludere”. Le pagine della Bibbia registrano sia il silenzio di Dio sia quello degli uomini. Tuttavia,  il  dialogo, in cui a volte i dialoganti dimenticano di partecipare, s’interrompe con le pagine finali della Bibbia. Dopo le parole dei profeti, da secoli nulla viene più registrato, soprattutto è in tale silenzio che si produce uno degli eventi più disumani: quello di Auschwitz, coinvolgendo così anche il tempo storico. È come se uno o entrambi i dialoganti fossero scomparsi.

Di Matteo enuclea le strategie che questi due soli stati, parola e silenzio, possono inscenare. Il potere di non rispondere, il potere di attendere, il potere di dislocarsi diversamente e persino di rifiutare. Le strategie sono a loro volta valutabili come possibili determinazioni su qualcosa su cui non c’è una risposta certa. Il destino stesso, non è ciò che si subisce, ma ciò rispetto a cui si deve ancora sempre decidere. In questo senso, il silenzio ha a che fare con la libertà. E la libertà è basata su una radicale insicurezza. Il silenzio ha a che fare con il nulla (un nulla non vuoto) e con l’energia, il “silenzio che prepara la parola”. “La promessa, dunque, è la dimensione energetica del silenzio”, la garanzia della sua realizzazione.


Un secondo paradosso, segnalato da Di Matteo nell’interpretazione di Neher, assegna ancora al silenzio di Dio l’istituirsi della consapevolezza logica dell’esistenza del male. Il Dio, “che si fa beffe di ogni altra logica”, fa discendere il male logicamente dalla ricezione del silenzio. Pure, ciò è ancora il tramite dell’incontro con Dio. Di Matteo, procedendo nel confronto con le altre interpretazioni del testo biblico (da Bloch a Levinas, da Nemo a Rosenzweig) ed esplicitando le  mosse esegetiche di Neher, mostra che da qualsiasi parte si entri nel labirinto (parola, silenzio, male, dialogo), si finisca col toccare tutte le tappe e gli stadi del rapporto con Dio. Ciò detto, appare riduttiva qualsiasi interpretazione di tipo tecnico (religiosa, psicologica, giuridica) che affronti le cose, non nella loro complessità, ma da un punto unilaterale, qual’è, in particolare, quella psicoanalitica, disciplina a cui Di Matteo è particolarmente interessato per la sua professione. Una puntuale precisazione ci fa notare come nella Bibbia sia esplicitato che tali riduzioni al mondo immanente non rilevano dimensioni ulteriori: “lì dove l’invisibile diviene visibile in forma di lacuna”. Ogni certezza umana, sapere, potere, tecnica è incessantemente “smentita dal male”, ogni legge è istituita in quanto esiste “sempre un’impotenza umana”. 


Un ulteriore capovolgimento di prospettiva Di Matteo lo trova in Philippe Nemo, il quale, alla domanda “Perché nel mondo c’è il male?”, riporta che Giobbe risponde “in vista di che cosa?”. La risposta evidenzia la messa in gioco della propria persona e la conseguente ritrovata intimità con Dio. Questa svolta, che per Neher fallisce, è in ogni caso la prova vera da affrontare. Il silenzio divino “esprime la presenza divina come e meglio della parola”. Neher analizzando la storia di Geremia arriverà ad affermare che “La rivelazione di Dio è vera soltanto se è sostenuta dal silenzio”.


“Il Dio che non ha bisogno degli uomini”, “il Dio matadialogale” è anche paradossalmente il Dio che con il suo silenzio sfida gli uomini al dialogo. È tramite un altro testo di Neher che Di Matteo ci aiuta a comprendere questa serie di paradossi inanellati e lo fa prendendo in considerazione la questione dell’identità ebraica, la quale ha a che fare con la localizzazione di Dio (non chi sei, ma dove sei) e con la localizzazione di sé. Decidere in quale posizione tra due estremi concettuali ci si pone (“tra la sottomissione e la rivolta, tra il compromesso e l’assoluto”) vuol dire assumere una responsabilità che riguarda anche gli altri, (vuol dire anche localizzare in sé Dio). Gli ebrei si sono voluti popolo a responsabilità universale in un tempo illimitato, in un tempo senza fine. Nell’incompiuto, infatti, risiede l’incessante ritorno dell’uomo e di Dio, dove senza fine appare anche la speranza.


Il rapporto tra promessa e Stato ebraico é dello stesso tipo di quello esistente tra utopia e modello concreto irrealizzabile. Vi traluce un intimo nesso tra l’utopia e la speranza che tende a superare ogni fallimento. Anche qui Di Matteo ravvisa una figura psicoanalitica: l’“Immagine dell’Inaccessibile”, ove la promessa è “intimamente legata al silenzio e all’incompiutezza”. Ci si addentra ancor di più nella selva dei contrari simultanei dove speranza e fallimento sono le due facce della stessa medaglia. Tali estremi  roteano sul perno del libero arbitrio, della libertà. Non la fine di ogni espressione dopo Auschwitz, come teorizzava Adorno, ma la ripartenza della speranza proprio dal fallimento. Il non-ancora ebraico si configura in posizione diametralmente opposta al già compiuto dei cristiani. È il forse ebraico dell’incertezza, dell’incompletezza, ma anche del possibile.


Sono, dunque, “la formula della contraddizione”, esprimente “la contiguità del e del no”, la non declinabile forza del “nonostante tutto” e la congiunzione avversativa “e tuttavia”, sintetizzante il pensiero di Rosenzweig, ad aprire nuove categorie di pensiero, le quali consentono di pensare insieme il bene e il male.


           Rosa Pierno