Il pregevole libro di Jacques Dupin, nato dalla volontà di Aimé Maeght che decide di pubblicare la prima monografia sul lavoro di Giacometti nel 1963, è la registrazione di tutte le impressioni, conversazioni e notizie raccolte dalla bocca di Giacometti, confessando lo scrittore e poeta, decenni dopo, di aver agito nei confronti del suo soggetto al modo stesso in cui operava l’artista di fronte ai suoi modelli. Il suo testo appare, infatti, mai terminabile eppure sorgivo, mai fissato e pur tuttavia ineludibile. L’analisi di Dupin ha la ricchezza e la profondità espresse dalla cultura filosofica francese di quegli anni, ma il suo pregio più importante è che l’autore sa coniugarla con l’analisi dei mezzi espressivi e degli strumenti formali che i disegni, i quadri e le sculture di Giacometti esibiscono, per cui mai si allenta il legame concreto con le opere esaminate. Jacques Dupin ci immerge nell’atelier di Alberto Giacometti, in maniera tanto rapida e profonda da farci perdere il senso della realtà, quella stessa realtà che è stata l’ossessione dell’artista svizzero.
Il problema del referente è collegato in prima istanza al ritratto, lì dove s’insedia l’individualità, quell’unicorno da afferrare e restituire sul foglio, sulla tela o imprimere nel gesso. Il primissimo veloce abbozzo –stabilente dimensioni e volume, distanza dell’osservatore dall’oggetto, spazialità nella quale l’oggetto è inserito – nel prosieguo della lavorazione diviene il suo opposto: estraneità e rifiuto, dialogo spezzato, rapporti di forza irriducibili, desiderio di aggredire e sopprimere. Lo scambio, che dovrebbe defluire dal dialogo tra sguardo e oggetto, tra rappresentazione e referente sembra ogni volta interrompersi e ogni volta dover ricominciare da quell’interruzione. Immesso dunque, senza mezzi termini nella fucina di Giacometti, anche il lettore non ha scampo: è costretto a misurarsi con la forza dello scacco, a comprendere ciò che è impossibile conoscere. Straordinario appare, dunque, il lavoro di Dupin, teso, con tutte le sue forze, a mostrare il meccanismo titanico e invincibile richiesto dalla rappresentazione a cui Giacometti non si è mai sottratto.
Il testo non consente alcuna distrazione, non fuorvia con notizie secondarie o digressioni. Gli occhi sono ben aperti, come quelli del criminale in Arancia meccanica, il quale è costretto a guardare. Ciò che ne consegue è una comprensione profonda, una riacquistata consapevolezza, giacché ogni volta un‘opera d’arte costringe a recuperare la misura della sua utile inutilità e, perciò stesso, della sua eroica azione di perseguimento. Il testo di Dupin è altrettanto eroico, non molla la presa per un istante, il suo fiato sul collo dell’artista produce un distillato sopraffino e quando sta per gettare la spugna, convinto come l’artista stesso, che la sua fatica sia condannata al fallimento, è la lettura effettuata da Giacometti stesso che salva il suo lavoro, aderendovi appieno e reclamandone la pubblicazione, nonostante i dubbi dello scrittore. Entrambi i lavori, opere e testo sulle opere, sono non concludibili. Solo qualcosa di esterno, di contingente, ne sancisce il termine, come la morte dell’artista o l’opportunità della pubblicazione. Tuttavia, la vitalità di ciò che è stato portato alla vista, oramai scorre eternamente. Se nessun uomo entra mai nello stesso fiume, nessun uomo può concludere un testo o un’opera: “Attraverso ogni scultura, quadro o disegno, non fa che perseguire un unico e uguale tentativo di avvicinamento alla realtà. L’opera è unica, incompiuta, impossibile”, sebbene il concetto di realtà sia sottoposto anch’esso a una ferrea investigazione.
Dupin fa propri gli strumenti del paradosso per affrontare l’artista e la sua opera:, i quali gli appaiono come l’abbozzo di un’impresa infinita. Non si può emendare lo scritto dalle numerose antinomie che vi compaiono, poiché esso si snoda proprio attraverso le antitesi di cui è trapuntato: dalla costruzione geometrica alla magia allucinatoria, dalla forma astratta ai dettagli, dall’esteriorità delle cose alla loro interiorità, dall’immagine parziale all’immagine totalizzante. Non ultimo, l’estremo paradosso che s’instaura tra la vita e la morte, tra le fattezze viventi di un volto e la rigidità dello scheletro. Non risparmia nessun campo di indagine, Dupin, scendendo anche nei meandri di una psiche colta nella sua aggressività e pulsione distruttiva e tuttavia ne distilla un succo che pone la creatività in relazione a quella divina, poiché ne fa il tramite per il sacro, pur nell’impossibilità della comunicazione dell’uno con il tutto. Infatti, pur dominando su ogni cosa la contraddizione tra totalità e indeterminatezza delle parti, lì dove il tratto cancellando se stesso, progredisce, si giunge al “potere totalizzante dell’atto creativo”.
Dupin non scandaglia le motivazioni interiori se non per portare alla luce il senso delle opere di Giacometti, siano esse pittura o scultura (l’artista si è dedicato persino all’operazione di ritrarre le sue sculture), di visualizzare cioè la cosa vista, entrando in uno dei luoghi più inaccessibili al mondo: quell’opera d’arte nella quale una cosa non appare allo sguardo di colui che sa già come le cose sono, ma si manifesta solo allo sguardo ripulito da tutti quei “correttivi mentali che lo intorpidiscono e lo alienano”. Giacometti ha saputo rappresentare “ciò che vede e vede come non osa vedere, in quanto ha saputo attuare la vera liberazione, che non concerne il reale bensì lo sguardo”, situandosi agli antipodi dell’anatomia accademica. La tradizione classica che, infatti, esige che si rispetti la realtà in se stessa e non come appare, dovrebbe essere oggetto di scienza e non dell’opera d’arte.
Rosa Pierno
Jacques Dupin “Alberto Giacometti testi per un approccio “ Pagine d’Arte, 2020,
a cura di Gilberto Isella, prefazione di Jean Frémon, litografie di Alberto Giacometti, fotografie di Ernst Scheidegger
Nessun commento:
Posta un commento