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giovedì 29 novembre 2018

Antonella Lucchini “Il femminino e la sua voce”, Il Seme Bianco, 2017




Interamente dedicato alla femminilità, la dianoia del libro di Antonella Lucchini, Il  femminino e la sua voce, si snoda con la portata di un fiume nelle sue diverse stagioni: ora straripante, ribollente di metafore barocche, ora flebile, quasi un esile tratteggio che richiama stilisticamente i dipinti messi in scena nell’haiku.
Tale scelta stilistica è strumentale alla restituzione dell’irruenza e della delicatezza delle manifestazioni della natura, le quali si riflettono, senza mediazioni, sulle percezioni: la Lucchini è specchio sensibilissimo di quest’alternanza continua, registrando sulla propria pelle, nelle ossa, la relazione con l’ambiente.
Il corpo femminile è sempre in dialogo con la natura, spesso si tratta di un incontro fisico vero e proprio: “Adesso che il rombo del vento / mi ha trapassata / da pelle a midollo”. Il sesso femminile sembra dunque avere una prossimità maggiore con la natura e inoltre poco ha a che fare con la cultura. Trapassa e trasuda direttamente dalla terra, rifluendo attraverso il corpo, l’energia vitale che la donna ha necessità di esprimere con virulenza, a tratti con aggressività. 
Siamo lontanissimi da un cliché di femminilità, vicinissimi al corpo che detta le sue regole alla ragione. Lontanissimi da chi non reagisce, da atteggiamenti passivi (e persino nella descrizione di scene in cui subisce violenza, la donna proclama ancora parte attiva, quasi un’impossibilita di non essere in ogni caso la protagonista). 
La donna è forza atavica e distruttiva, lenitiva e creatrice. Il pensiero stesso si modella sulla conformazione fisica: “lo scivolo del naso / incrocio e rottura dei fossi / che scendono dai vulcani degli occhi”. Una dichiarazione di potenza che non disarciona però gli aspetti di fragilità e di decadimento.
La morte non sfugge a quest’ordine: è al seguito delle pulsioni del corpo, è strumentale all’espressione più piena della vitalità. Bisogno, inconscio, sogno battono alle tempie e spingono all’esercizio del sé, fino all’ultimo respiro e senza tregua. Se esiste il pensiero del corpo, questa è la sua forma più concreta e sanguigna. La natura nella quale la Lucchini cerca sponde e riconoscimento identitario è quella stessa a cui la poetessa consente di avere senso.
La poetessa delinea una natura partorente e a sua volta partorita, senza soluzione di continuità. Alcune poesie presenti nella raccolta descrivono cicli stagionali, dove i mesi sono in relazione con il relativo raccolto, al modo in cui è affrescato il palazzo Schifanoia di Ferrara. Il limite della natura è anche la sua forza, la rigogliosa germinazione fa il paio con la possibilità di mettere al mondo bambini.
Trasformandosi in ‘radici’ e ‘larva’, Antonella Lucchini effettua una pressoché totale sovrapposizione, uno scambio simbolico tra il sé e la natura che è ragione stessa di accettazione del proprio sesso: movente e scopo senza scissione. 

*
Sei un albero scomposto
i rami fragili
innaturali.
Io ti giro intorno
folle
come un uccello spiaggiato,
stridula.
Restiamo opacizzati
sul vitreo umore dell'inverno
che ci fa cenno,
inerti,
tu spettrale
le braccia magre
pallide
io innocua,
voce senza peso.

*
Il viso è un territorio.
Lo spazio aereo della fronte
dove si levigano e si plasmano
le ore,
lo scivolo del naso
incrocio e rottura dei fossi
che scendono dai vulcani degli occhi.
Osserva
i picchi stondati delle guance,
ossa da appoggiare
e
a scendere
il magma
due lingue di carne piena
tatto gusto saliva
che riempie corpi
che svuota sessi.

*
Io non sono una vertigine.
L'aria si infila e si sfila
tra carne e pelle
senza peso
smuovendo i polmoni
leggeri.
Il petto è lieve
ospitale
per il suo pugno rosso.
Sono viva.
Sono sempre viva,
anche quando sono sulla soglia
ad aspettare la guerra

*
A falcate acute
trotta l'apocalisse del giorno.
Da quando caddi
e le mani divennero gambe,
al rombare sussultorio della sera
mi ripongo dentro le mie radici.
Lascio fuori solo un pezzo di pane
buono
perché si possa dire
ecco lo ha spezzato
si fa il miracolo
mentre lei torna larva.

*
Questo sciamare 
del vento
nitido
forsennato
s'incaglia 
alle mie escoriazioni
e le disarma.




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