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giovedì 27 settembre 2018

Anne-France Aguet e Loredana Müller: un dialogo oltre-natura.




Per comprendere il dialogo fra Anne-France Aguet e Loredana Müller, proposto nella mostra “Duo in marmo e in carta” al centro culturale areapangeart, è necessario analizzare le opere con attenzione al fine di emergere i punti di contatto, ma anche di contrapposizione, trattandosi di opere in marmo e in carta. Sembrerebbe che il marmo crei un campo oppositivo con la carta. Eppure, siamo proprio certi che il peso non sia qualcosa, almeno nel mondo dell’arte, di relativo? Vedremo come, in entrambe le artiste, anche l’equilibrio non sia che uno stato apparente, o meglio, precario e metamorfico. Dunque, peso, equilibrio, e altre caratteristiche non sono dissociabili dalla forma e sopratutto, sono relativi ad essa.

Osserviamo le candide pietre di marmo di Carrara, con le loro soffici curve.  Sembrano richiedere un gesto che le faccia roteare, morbide e affusolate, o allontanare per scorgerne i lati nascosti. In tal guisa, il movimento viene a essere un elemento cardine nella ricerca della Aguet. Nel senso che la forma viene recepita in un processo che non termina: non si addiviene al riconoscimento di un’unica forma, ma ci si focalizza sul suo muoversi e tramutarsi, assumendo essa innumeri profilazioni, non fissabili.

E le carte? Talmente delicate da far declinare il desiderio di sfiorarle. La loro fragilità diviene per noi preziosità: un velo di protezione, infatti, sembra issarsi naturalmente tra il nostro sguardo e la mano. Eppure, tale carta appare anche inamovibile, depositaria di sedimenti, inchiostri, pigmenti: resa pesantissima da stratificazioni e velature. Ecco, dunque, che l’arte ha questa prodigiosa capacità di modificare la materia, di cambiare la percezione che ne abbiamo, quando la sostanza sia passata tra le forche caudine del processo artistico.

Ma entriamo nel dettaglio osservando da vicino le sculture di Anne-France Aguet, per la quale la natura fornisce solo la materia, mai le forme. Che sia marmo di Carrara, di Arzo o della Val di Blenio in Alto Ticino, la forma si colloca su un piano di pura energia poiché la scultrice cerca le direttrici del moto, gli snodi nei quali la pietra inverte il suo flesso ondoso e scatta, si torce e si libra. Oppure, come nella splendida coppia in marmo rosso di Arzo, s’imbarca, si flette, s’inarca. O, ancora, si piega, si erge, si distende e guizza. E nelle grandi sculture singole, in marmo statuario di Carrara, la superficie scivola senza incontrare resistenza e, incanalando lo spazio, lo rende visibile. Abbiamo utilizzato verbi che attengono all’espressione cinetica: la materia non è mai solo materia. 

Le sculture in coppia si specchiano, echeggiano una nell’altra, amplificandosi e vicendevolmente trasformandosi. Le variazioni contrastive o complementari ci portano alla mente ulteriori possibili disposizioni. Una si annoda, l’altra si snoda, accogliente, una si arrotonda, l’altra si assottiglia. Equilibrio calibrassimo che ci spinge a spostare le pietre in dialogo, anche impercettibilmente, pur di ottenerne una nuova meravigliosa configurazione, in un rinnovato strabiliante equilibrio. Interagiamo con queste sculture, vogliamo farle nostre per esperire pesi ed equilibri, posizioni e valori cromatici, immersioni nella luce e nella penombra. I contorni ci sfuggono costantemente, le ombre scivolano inesorabilmente sui piani illuminati o viceversa,  mostrando un mondo inafferrabile a causa della sua ricchezza. La realtà, per contro, ci sembra mille volte più povera e astratta! Non sculture immobili, dunque! Forme dinamiche, sguiscianti, trasformiste; familiari e desuete, le quali ci sollecitano a conoscere le innumerevoli curve che generano. Uno dei dati più sorprendenti da rilevare, dunque, è la molteplicità, l’infinità delle curve che si possono recepire in arte, non solo in geometria. 

Si può affermare che ognuna delle possibili curve che percepiamo con lo sguardo e il tatto equivale a una conquista spaziale. La scultrice procede per gradi, cerca la forma eliminando la materia, disegna con la grafite ulteriori curve, scava per determinare estroflessioni o introflessioni sulla superficie setosa al fine di far scorrere o arrestare la luce. La straordinaria modellizzazione sembra ottenuta non più nel marmo! 

Una forma è sempre in relazione al masso da cui è stata tratta. La scultrice, sapientissima, ha dialogato con l’informe e lo spurio per giungere alla perfezione possibile, la quale non perde perciò mai il rapporto con la contingenza. È il puro in relazione all’ammasso, alla concrezione originaria, da cui la forma è stata cavata. La bellezza delle forme scolpite non perde mai la relazione con la materia grezza, ma certo per mai più ritornarvi!

I rimandi alterni di ombre e di luce, con le ombre che si addensano come pozze stagnanti e le luci che si aprono a raggiera, sventagliando riflessi sulle lapidee curve, i quali ritmano i volumi in relazione al nostro muoverci nello spazio, emergono dall’inesistente e si danno come la cosa più certa che ci sia! Equivalente, in questo, al disporsi preziosissimo delle cangianti coloriture dei piani tessuti dal passaggio insistente dei pastelli e degli inchiostri sulle carte di Loredana Müller, la quale, operando sovrapposizioni e velature, rende preziosa la più usuale delle materie: quella vegetale.

Quando poi interviene il colore a caratterizzare la grana naturale della pietra, scelto dalla Aguet, lo sguardo pare si plachi e si approfondisca in un punto, rendendo più stabile l’equilibrio dell’opera. E anche nelle opere della Müller, con quel mirabile istante fissato in eterno su un materiale friabile: estremo punto di sintesi, turgore e armonia inamovibile, i colori appaiono enfiati come se avessero un volume e la profondità pare di vederla trasparire sulla superficie. Quanto pesano le carte della Müller, quanto sono leggeri i marmi della Aguet? 

I riflessi della pietra verde scuro scolpita dalla Aguet sembrano riverberare nelle opere della Müller, in particolare nelle fronde de “L’albero notturno” (pastelli e inchiostri su carta su tavola). Ora, che la Müller fabbrichi da sé i suoi pigmenti andandoli a prelevare in val Morobbia è noto, ma qui si ha come una rifrangenza elevata al quadrato. La natura è convocata a chiare lettere. Non solo perché l’artista si rapporta con la natura per cogliere in se stessa la visione da essa prodotta in uno scambio interno-esterno, ma soprattutto perché sbaraglia tutte le usuali questioni legate all’imitazione e alla rappresentazione. Ciò accade perché la Müller cerca una relazione di tipo simbiotico: vi è la condivisione di un medesimo afflato che si modula sul ritmo del respiro. Abbattere la soglia fra interno ed esterno vuol dire coesistere: esistere assieme attraverso la percezione, la quale modifica anche la struttura dell’oggetto percepito, oltre che, naturalmente, il soggetto. Nell’esposizione, l’albero che noi “intravediamo” è un fiotto di linfa che traspare tra il rigoglioso accrescimento delle foglie. La luce, dato del tutto innaturale, non è localizzabile, sembra sorgere dagli stessi elementi arborei, quasi una pulsazione energetica. Ecco il senso della fusione a cui volevamo dare più precisa definizione poc’anzi: è quello dell’artista e della natura come medesima cosa, la quale è visione del tutto originale.

Respiro” e “Crescita” (pastelli e inchiostri su carta incollata su tavola) sono due opere nate dall’osservazione della crescita del bambù. In entrambe, lo sviluppo rapidissimo si svolge come sotto i nostri occhi abolendo persino la dimensione cronologica. La visione pare svolgersi in una perenne simultanea. “Respiro” ha colori più scuri e opachi e s’intravedono gli anelli del fusto, i quali si aggiungono l’uno all’altro: il colore diviene esso stesso forma e costruisce la visione non astrattamente. “Crescita” é eseguita con velature maggiormente luminose, rinverdendo il ricordo dell’acqua presente in ogni tramatura vegetale: il colore a tratti si ramifica, gocciola, intride, si essicca e ne percepiamo i residui. È puro moto. Al colore nulla risulta impossibile, e questo non per risolvere con un colpo di spugna la diatriba tra linea e colore, ma per situarsi nella pienezza del colore, della sua plasticità. E qui sfioriamo un altro punto di contatto tra la Aguet e la Müller: la plasticità non è data una volta per tutte, è un processo continuo, sempre in fieri.

La squisita sensibilità per il colore della Müller non la si coglie solo in opere come le tre solarissime della serie “Nel bosco”, intitolate “Alba, “Pomeriggio”, “Meriggio”, in cui i pastelli si sovrappongono attraverso una tassellazione vibratile dello spazio, dando vita - con rialzi di cangiante luminosità - a un moto tra le tonalità sottostanti, ove la sfocatura funziona come un dubbio sulla forma. Viene da pensare che se guardassimo con gli occhi dell’artista non vedremmo oggetti, ma nugoli di colore affetti da moti vibratili. Il che ci stimola a pensare in termini non convenzionali: nulla di dogmatico o di fisso dobbiamo credere che esista nel reale e nel nostro modo di percepirlo. Ecco anche detto perché gli artisti svolgono una funzione insostituibile per coloro che artisti non sono.

Una visione, pertanto, che dissalda la forma per trattenerne solo le infinite rifrangenze: quasi un pulviscolo di pagliuzze e tasselli che scompongono il mondo in contrasti e armonie: sorta di comune energia che s’irradia dalle profondità del cosmo. Natura? Forse, un oltre-natura, qualcosa che sta al fondo e da cui continuamente emergono le sue infinite manifestazioni filtrate dall’artista. Ma colore può anche rapprendersi, solidificarsi in tagli di luce, in profondità materiche e la sostanza far capolino dai recessi dell’oscurità, addensandosi grazie alle ombre, come vediamo in “Crescita d’erba” (pastelli su carta su tavola).

Nella Aguet, il colore è una scelta tra nuance a volte sottilissime: le vene bianche o grigie di alcune pietre o il rosso, morbido e aranciato, delle cave di Arzo, o le pietre nere. Il colore, modificando i riflessi, torvi o lattescenti, partecipa al gioco indotto dal movimento spesso contrastando la percezione delle forma. È un equilibrio nel quale la forma non cede, non si arrende al movimento, persiste nella retina e rende il moto una caratteristica che partecipa alla creazione della forma. Con ciò desideriamo mettere in rilievo come un sottilissimo gioco di equilibri e dissimmetrie  ottenuti lavorando con la grana materica, il colore e la forma vada a innescare il rapporto forma-moto, rendendo “impossibile” la conclusione della partita. La scultura della Aguet rende lo spazio una funzione della forma in moto.

E proprio alla fine di questa nostra analisi, vogliamo aprire un inciso su quello che l’arte può darci oggi, ancora lavorando nell’alveo della tradizione: ombra, illuminazione, forma, movimento, disegno, colore sono gli strumenti con i quali si possono mostrare le evidenze nascoste del visibile. Col marmo di Anne-France Aguet, con le carte di Loredana Müller.



La mostra è visibile fino al 5 novembre 2018
presso areapangeart
Ai Casgnò 11a, Camorino (CH)
www.areapangeart.it



giovedì 13 settembre 2018

“Luoghi dell’alt(r)o Ticino”, testo di Marino Cattaneo, incisione calcografica di Loredana Müller, 2018, edizioni areapangeart






Nel libro d’artista che Loredana Müller e Marino Cattaneo hanno realizzato guardando il territorio dell’Alto Ticino, numerosi livelli di lettura s’intersecano in uno spazio polidimensionale, relativamente alla forma dell’oggetto-libro e al tema.

Per quel che riguarda le immagini, due sono le entità accostate, pur se incompossibili: quella dei microrganismi delle strutture vegetali e i riflessi e i moti dell’acqua, rinfrangentesi a mulinello, presenti nell’incisione della Müller, da una parte, e la vera e propria cartografia dall’altra. Infatti, sovrapposta all’immagine incisa, è presente, su carta lucida, il tracciato orografico con le sue cime, i suoi laghi, le sue valli.

Nella parte bassa dell’incisione, le cellule che invadono lo spazio, ci ricordano ingranaggi, reticoli, e tessono una membrana pressoché continua, la quale si adagia come un velo sulla realtà esistente, la tappezza, riportando alla vista, in primo piano, ciò che è normalmente nascosto. La parte alta dell’immagine ricorda un mulinello d’acqua che generi occhielli di luce o trituri col suo moto frammenti di membrane vegetali. Nessuna convergenza appare possibile tra questi dettagli e l’orografia del territorio, eppure, si tratta del medesimo oggetto.

Il testo di Marino Cattaneo, in rapporto al territorio rappresentato graficamente, presenta un andamento capovolto. Viene cioè esplicitamente richiesto dalla composizione stessa del libro, che lo si  capovolga con una rotazione di centottanta gradi, affinché sia possibile leggerlo: ciò marca un ulteriore guado da attraversare, dando la sensazione che, una volta superati, tutti i passaggi si chiudano alle proprie spalle a sottolineare che i mezzi espressivi, anche quando parlano del medesimo oggetto, non sono comunicanti. In questo senso, il libro d’artista “Luoghi dell’alt(r)o Ticino” si pone come un messaggio cifrato sulla invalicabile diversità dell’approccio scritturale e visivo.

Il testo si presenta come un coacervo di elementi, una collezione ancora in moto, un’agglutinazione in corso da cui spuntino, a seguito di rotazioni e di esplosioni, di valanghe e straripamenti, alberi, argini, sassi, mentre la ruggine del ferro si proietta sulle nubi e i sassi “venati” pongono una domanda sul luogo da cui sono “venuti”. Lo straripamento è quello stesso mimato dal flusso associativo sonoro e visivo che contraddistingue lo stile di Marino Cattaneo.

Il testo pesca nel visivo e nella memoria, nella percezione fisica e nella reazione psicologica, costruendo una mappa che a suo modo si sovrappone a quella geografica e che si squaderna nel libro d’artista come un nucleo che si stia irraggiando, stante la sua impossibilità di coesione.



2.strada traversa

bassa bassa pianura marcia
malsabbia malacqualanca boschina bo-
scaia malora di malaria
ma vagano mandrie musi ancora
meandri ancora
marasmi di ghiaie ali squame zampe
verso l'isola del Trodo verso
l'inverno
ladra pesca pascolo vago malcer-
to pantano Cugnasco
Cugnasco- -Contone svicinanza smisu-
rata smisurabile
e gudi cugnasci gordoli cadenazzi
giubiasci contoni quartini magadini
gente lanca tutta gente d'alga
così anguilla d'acqua buia così
usa ad eludere
gente retriva
ritrosa riottosa se vuole sdegnosa
così fangaia
raddrizzarla quella rifor-
marla fin nell'anima e nella maniera
di tacere educarla
educarla: more geometrico: dirittura
carraia Cugnasco-Contone
rettifilo asciutto
per cominciare ad obbedire


10.Carena

Carena dalle lunghe ombre
bruia
Carena nera Canera di
miniere ancora
di fucine
sobbolle sento e sobbrulica
di bracci febbrili mille
mille mani sento
di terrazzieri quelle e mulattieri e
carpentieri e minatori e donne e
fonditori e cavallanti e donne e
forgiatori e spalloni
per tutta la balza della
montagna ferragna
e di carbonai
valtellinaschi orobici troppi
a consumare faggi tignosi e
i sogni dei bambini
ma sono d'un'altra pasta
d'uomini i carbonai
occhi fumo loro i signori
del fumo e mettono a fumo il mondo e
rintanano fuori del paese
ognuno col proprio sudario come
ravvivando Adde di brace
Adde e Adde
di rivoluzioni