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mercoledì 30 novembre 2016

"L'ANIMA DEL SEGNO, Hartung, Cavalli, Strazza", Museo di Villa dei Cedri, Bellinzona, fino al 29 gennaio 2017




Estratto dalla conferenza “Dal gesto al segno - approcci sulle tecniche dell’incisione” tenutasi presso il LAC, Lugano, 20 ottobre 2016, relatrice Loredana Müller 

Parlare di anima del segno porta in grembo plurimi significati, in qualsiasi modo si voglia intendere il segno: potremmo sostituire anima con carattere o psiche o, ancora meglio, con tensione. Oppure pensare ai segni come suoni, atti, intense-adesioni, tensioni, necessità e svolgimenti, ritmi e costanti che appartengono al vivere, alle emozioni, alla priorità dell'esprimersi oltre che all'orientamento etico ed estetico. Forse potremmo anche partire dall'autonomia del segno e nel contempo individuare la sua grammatica. Ecco individuato ciò che, per i tre artisti che sono riuniti, perché pittori ed incisori, nel contesto espositivo e museale di Villa dei Cedri a Bellinzona, appare quale luogo comune di ricerca. Essi condividono assonanze e dissonanze nel loro procedere, pur nella loro diversa contestualità storica, accomunati essenzialmente da una forte ricerca analitico-espressiva.

Cosa si intende per grammatica del segno, come si genera tramite tale struttura la visione?
I segni appartengono al vivere. Tracciare è ricercare, comprendere, è dialogo tra sé e la società, e non è  necessariamente verbale: ricordi e primissime adesioni al proprio vissuto. Al principio c'era il tatto, il respiro, solo dopo lo sguardo come finestra sul mondo della luce e del buio. E questa comprensione che relazione ha tra il mondo interiore dell'uomo e quello dell'artista? Comprendere, prendere in sé, ciò che si fa gesto, traccia. In che termini diviene segno?

Ma prima di tentare di dare alcune risposte in relazione all'attività dei tre artisti e alla mia diretta esperienza, premetto che  sono un'artista visiva particolarmente fortunata perché, dei tre artisti presentati, ho avuto il piacere di averne due come docenti, Massimo Cavalli qui a Lugano negli anni '80 e Guido Strazza a Roma alla fine degli anni ottanta. Ho la fortuna, dunque, di essere in amicizia con Cavalli e Strazza e, riconoscendoli come maestri, li pongo all'interno di quel processo che riguarda a sua volta la trasmissione del sapere all'interno del processo di insegnamento, il quale oggi è una vera e propria sfida:  generare conoscenza intorno a una pratica apparentemente "superata“ legata al tempo del corpo come a quello della materia. Oggi, incanalare la forza, l'energia, il senso in un segno, per chi non si muova nell'ambito delle arti visive della mia generazione, sembra non appartenere al mondo contemporaneo, in particolare, alla sofisticata tecnologia che ci circonda.

Parlare di incisione calcografica vuol dire però anche accorgersi di quanto il mondo dell'incisione sia vasto, basti pensare alla pietra e all'incompatibilità delle sostanze che si adottano, per giungere ai segni che vengono solo in un secondo tempo registrati e inchiostrati e passati alla carta, alle reazioni di incompatibilità tra i diversi materiali utilizzati, al metallo, alla pietra, alle punte...ebbene è PARLARE DELLA STORIA DELL'UOMO e della sua evoluzione...
È una cosa molto diversa dal lavorare con le immagini precostituite, magari con l'ausilio della fotografia, le quali invadono come rumore il nostro immaginario e contribuiscono a una visione superficiale. Usare registri figurativi sottratti da fotografie o da immagini già elaborate dal computer è diverso che cavare da sé un segno come atto e direzione di senso, ricercando il superamento nel proprio agire, anche nell'inevitabile acquisto del dubbio.

Un segno tracciato a grafite ha una sua nobiltà e appartenenza che si riscatta nella pressione, ma anche nella grana della carta, tra pastelli grassi e inchiostri magri e la loro impermeabilità, tra inchiostri grassi e acquarelli. Qui dovremmo necessariamente entrare nelle tecniche pittoriche,  renderci conto che segnare, disegnare e dipingere, hanno diverse fasi e gradi di conoscenza, i quali comportano anche conoscenze chimiche, oltre che riguardare i problemi della mimesis e la concertazione del pensiero... Quanto cioè ci sia di meccanico” o fisico che, come direbbe  Leonardo Da Vinci, vuol dire che chi ha in grembo una verità chimica ha già una  dimensione analitica.
Hans Hartung


Ma vediamo, cosa scrivono a tal riguardo gli artisti presenti nella mostra, partendo da Hans Hartung, pittore tedesco, nato a Lipsia nel 1904 e deceduto ad Antibès nel 1989, il quale ha compiuto gli studi artistici e musicali a Dresda e a Monaco, inizialmente vicino all'espressionismo, ma da sempre attratto dai segni più forti e incisivi in natura. Voglio indirizzare l'attenzione su quanto nell'incisione ci porta a contatto con il passaggio, con l'afferrare o meno il visibile... Accade nell'istante, ma è in grado di generare esperienza...e soprattutto appartenenza, orientamento, chiarezza di lettura. Lo stesso Hartung giovanissimo pare avesse un taccuino dove registrava lo zizzagare dei fulmini, dove annotava  un segno in qualche modo indescrivibile, tra sperimentazioni e ampliamento del gesto, con scope, rastrelli e faggine. “L’arte astratta mi pare un movimento particolarmente sano nella storia dell’arte. Con essa, dopo un lungo periodo di rilassatezza, si ritrova una tendenza purificatrice, che aveva avuto inizio con Cézanne,  proseguendo con il cubismo analitico. La macchia torna ad essere una macchia, il tratto un tratto, la superficie una superficie. Le opere vivono per se stesse, di per se stesse, sbarazzate dalla sottomissione alla figurazione. Il che consente di ricongiungere i poli principali dell’uomo: l’universo e l’uomo nell’universo".

Le sue parole sottolineano quanto la dimensione dell'esperienza come atto del proprio agire diviene per questi artisti primaria relazione con il mondo. Quindi credo che se leggessimo i loro segni con questa consapevolezza, certo comprenderemmo perché un Paul Klee diceva che la pittura era rimasta indietro rispetto alla musica. Perché ancora oggi, nelle arti visive, il ruolo della disciplina come ordine, come ordine del fare, come continua esperienza e quindi pratica è desueto. Tuttavia, proprio la sua immediatezza, che non è velocità fine a se stessa, ma esperienza acquisita tramite la pratica, diviene anche esperienza del tempo.

Credo che il compito oggi dell'arte sia accorgersi dell'urgenza di mantenere la diversità, come priorità, al fine di salvaguardare l'esprimersi come atto autentico primario e individuale, e credo che l'arte sia questa ricerca o almeno a questo dovrebbe sempre tendere. Concetto intorno a cui la lezione di Guido Strazza si è particolarmente articolata: ricca di avvertenze, di riflessioni sul segno. Guido Strazza, nato a Grosseto nel 1922, vive e lavora a Roma. Ingegnere formazione, grazie alla poesia entra nell'ambito delle arti prestissimo.  Marinetti a invitarlo attorno all'aero-pittura. Ecco alcune sue parole dal suo testo "Segnare":
Guido Strazza

"Non è un foglio bianco in attesa dell'ispirazione, ma una fitta rete invisibile, già tutta intessuta delle sue e delle nostre pulsioni a un suo (nostro) ordine tutto da decifrare. Materia e significati (ecco la fondamentale doppiezza) che troveranno accordo in quella forma di incrociati riconoscimenti e identificazioni che usiamo chiamare opera. Ma, fin dal primo istante qualcosa si sta facendo diverso dal previsto. Senza fine. Si provoca la materia, questa risponde. Non parla di sé, ma del suo rapporto con noi. Che non è cosa cosi certa e chiara. Un pensiero si fa segno, segno di sé e qualcos'altro ancora".

Ma anche gli aspetti che riguardano la carta, la dimensione e orientamento del foglio sono aspetti centrali a cui  Massimo Cavalli dà particolare rilievo: nato a Locarno negli anni '30, pittore ed incisore dalla coerenza sbalorditiva, dal '49 studente a Brera a Milano all'Accademia di Belle Arti, si affeziona al naturalismo lombardo, guarda Morandi, per poi abbracciare l'informale. Seguiamolo in alcune affermazioni: "Non mi faccio irretire da nessuna forma, l'imprevedibilità dei segni è essenziale", "Affronto ogni dipinto come se fosse ogni volta la prima volta, non so quando inizio, dove mi condurrà, so che comunque ricerco la tensione massima".

Il segno in questi tre artisti è un dialogo tra crescita e tensione, si situa tra lo spontaneo e l'atto energico, a volte graffiato, portato davvero fuori da sé. Le possibili direzioni generano quasi una lotta, imponendo spesso una propria arbitrarietà come libertà d'ogni segno. Espresso con strumenti diversi: la punta in punta secca, dove il segno sposta il metallo in superficie, le barbe con le loro varianti e la traccia morbida eppure intensa. Oppure il bulino  con la sua punta a triangolo che estrae nella direzione del segno un ricciolo, come se fosse legno. Ebbene il segno poi porterà sul foglio di carta la presenza del corpo dell'inchiostro che va a riempire il solco, ed è netto e spesso, vivendo anche di pressione diversificata, dalla massima alla lieve, sulla lastra. Non dimentico il punzone a sua volta a cuneo appuntito, il quale crea uno schiaccio sia come punto sia come foro. Lì si deposita l'inchiostro, la diversificazioni di tali punti è data dalla forza del martelletto che batte sul punzone che è come un chiodo, oppure dalle punte più fini o spesse...Poi interviene la distanza o vicinanza d'ogni punto battuto...e una inesauribile possibilità di campiture. Appartiene alla stessa famiglia di tecniche dirette anche la mezza luna o Berceaux, una lamina di diverse grandezze che ha una zigrinatura che genera, poggiandola sul metallo e dondolandola, premendo, o ruotandola piano piano in ogni direzione,  una sorta di graniglia, un tessuto di segno che può avere incroci fino a 16 giri...e raggiungere dei neri di una profondità indicibile.
Massimo Cavalli

Le tecniche indirette, sono tutte quelle che nell'incisione calcografica usano l'ausilio di acidi, nitrico o solfati o sali, i quali producono i segni nelle cosiddette morsure. Qui tutto è aperto, la differenza tra spessore o sottigliezze, ripetizione, giustapposizione o interposizione, assunte come linguaggio dell'azione, dai ritmi quasi musicali, segni come suoni sospesi come note che precipitano, ricercano pentagramma... o generano aprendo, e non necessariamente concludendo la forma, sono andamenti lievi, ma non troppo, moti, forti, andanti contenuti, vivaci, ritmati assordanti...segni che si fanno tramite la nostra azione. L'interesse per la luce è ricerca di contrasto, un continuo contrappunto tra pieno e vuoto, linea e linea, affermazione o cancellatura, cromatura e buio: è il dubbio che ramifica le sfumature dell'assoluto.

Per concludere questo primo viaggio, abbracciando i nostri artisti attorno al segno, tento alcune brevi considerazioni tra l'incisione che per tutti e tre è spina dorsale della pittura, dando ruolo sostanziale anche al colore: segno, come gioco forza dalla tensione alla profondità, dalla verità che parte semplicemente dalla lettura tra cielo e terra, alto-basso-gravità, per raggiungere in ognuno astrazione o appartenenza poetica, libertà. È una scelta importante e oggi ardita, perché è di moda dimenticarsi del passato e della storia, come forza e paradosso, apertura e discussione sempre aperta, per poi cadere nello scontato di un agire mai nuovo. Carole Haensler, direttrice di Villa dei Cedri a Bellinzona, con questa mostra sottolinea che la ricerca d'ogni artista consiste, se parte dal segno, nell'affrontare e recuperare la dimensione della storia dell'Arte come valore forte.

Hartung, Strazza e Cavalli, hanno sempre guardato e studiato la natura attorno a loro e compreso la storia dell'arte anche come processo del fare. Delle tensioni che possono essere affrontate o confrontate nel loro tessuto linguistico e storico, e portate sempre su strade diverse, per avvalersi della propria verità e quindi della propria adesione al tempo come metafora della storia, della materia affrontata dal gesto, come corpo e spirito, dalla traccia che si è e si fa storia. Traccia che genera visione, per percorso e appartenenza d'ognuno, al proprio tempo certo, ma anche a quella dimensione profonda che poi segna una via collettiva...una traccia delle emozioni come comune valore, luogo anche della ragione d'essere, unendo natura e storia. Questo l'arte dovrebbe far avvenire...e nell'avvenire ritornare e rigenerare quella pregnanza storica che dovrebbe essere la cultura: luogo d'ogni ricerca del senso agito del nostro vivere anche spirituale.

                                                                                                                           Loredana Müller



Per le visite guidate consultare: www.villacedri.ch

Catalogo della mostra edito da Pagine d’Arte www.paginedarte.ch


mercoledì 23 novembre 2016

Elena Zuccaccia, terza classificata al Premio Nazionale di Poesia Terra di Virgilio, 2016




In Elena Zuccaccia, tre poesie che abbiano per oggetto il corpo non necessariamente inclinano verso una facile etichettatura: non siamo in presenza dell'ennesima poesia su tale tema. Non solo perché l'esposizione, cosi lenta, sovrimpressa satura lo sguardo, (un po' come accade nel quadro di Coubert L'origine del mondo) quanto per l'opposto: il corpo rinvia ad altro. Il corpo sta per una specie di segnaposto, di simbolo che segnala l'esistenza del mentale. Ed é il mentale a dichiarare l'assenza, la mancanza. C'é sempre qualcosa da operare intorno al corpo, affinché il pieno conceda l'affioramento dell'ipotizzato, anche sub specie immanente. Infatti, persino per convocare il concreto c'é bisogno di un'esca. Pragmatico utilizzo della materia con cui saggiare pur anche i comportamenti morali, quand'è sai si situino al limite dell'illegale o del plausibile, se non addirittura sfocianti nell'immoralità (si veda l'ultima poesia con l'orrido pranzo) il che fa di Elena Zuccaccia una sperimentatrice intelligente e pacata, che gestisce le sue risorse e i suoi mezzi espressivi con raffinate messe a punto, prossime alla costruzione di una trappola che abbia di mira la cattura del lettore, visto che questa  é una poesia "specchio delle allodole", dove si sa che il vero é gia perso in partenza, che il cuore dell'amato é nuovo, mai usato, che persino mangiarlo a pezzettini lascia digiuni. Una sorta di cerebrale alambicco disegnante una mappa piena di lacune e rabberci, tutti individuati sul solo piano esistenziale, ma limpidissima in quanto a resa formale, tanto da far apparire nuovo persino il linguaggio chiaro e consueto per la politura e la precisione raggiunta. Una prova di assoluta eleganza.

(dall'Antologia del Premio)
È possibile scaricare il bando dell'edizione 2017 sul sito www.poesiaterradivirgilio.it

L’ARTISTA

gli usuali aggettivi di possesso
con te io non li conosco
potrei al massimo azzardarmi ad
infilarmi nel plurale
confondendomi nel mucchio tra il
resto
allora potrei anche provare a dire
nostro
e accaparrarmi quanto di te rimane
:
brandelli di fegato
non certo di prima scelta
non opzionati da chi ha preferito tenersi
parti meno usurate
– il cuore, ad esempio, tra le più ambite
appare intatto
rivendibile come nuovo
mai usato


IL CORPO LIQUIDO

mi sento tutta liquida
non ho mani
nessun organo prensile

si stende il corpo liquido
tra le scanalature delle
mattonelle
/ ora acqua che corre
nervosa
/ ora pigra lenta cera

o stagna informe fermo in una
pozza
 / gli occhi spalancati al soffitto
e una paralisi del corpo liquido
immobile fino ad inghiottirsi


SÅSOM I EN SPEGEL

di vedere questo
corpo nudo non
ne posso più crepare
immagino almeno
lo potessi cuocere
per dire
la carne mi piace
alla brace
certo di te bianca così
come tacchino
più che Canova
che si può fare
(potrei)
imbracarti di spago
a mo’ di involtini
mangiarti a bocconcini
fare nell’olio la
scarpetta col
pane sciapo

per sempre digerire

venerdì 18 novembre 2016

"Renée Lavaillante. Une archéologie du dessin" a cura di Nathalie Miglioli, Occurrence/Sagamie, Canada, 2016




Boîtes et blocs, 1992, bâtons gras et de cire, acquarelle et gouache, sur plâtre

L'uscita del catalogo "Renée Lavaillante. Une archéologie du dessin" a cura di Nathalie Miglioli, Occurrence/Sagamie, Canada, 2016 è l'occasione per ripercorre alcuni dei punti salienti di un percorso di ricerca che ha incentrato sull'attività del disegno il suo precipuo interesse. Se l'immagine si situa prima delle parole, essa coincide con la parte non esprimibile linguisticamente se non per infinita approssimazione. Così che se il gesto costruisce un disegno, l'artista può affermare che tale immagine, luogo,  oggetto coincide con la sua interiorità. "Personne ne sait que vous êtes ici, n°6” del 1988 intende specificare che l'altrove esiste, è il luogo realizzato sulla carta, reso visibile.

Donare a questo luogo il moto equivale a mettere in azione il primo agglomerato della materia - quella dell'origine - il cominciamento assoluto. Prima dell'io, infatti, che decide di dare l'avvio al suo racconto visivo, non c'è la natura allo stesso modo in cui non è rintracciabile l'individuo se non a posteriori, sulla carta. Tutto ciò non certo per affermare il ruolo secondario e inconsistente della realtà quanto il fatto che la sua incidenza viene messa fra parentesi nel processo creativo, il quale sintetizza l'esperienza, rendendo centrali il gesto e l'ideazione.

Nelle grandi carte, che oscurano le nostre pupille come per il passaggio di ali e vortici minacciosi, è in agguato la macchina analogica che trasporta i segni della ricchissima texture dei lavori (ottenuta con pastelli secchi, all'olio, a cera e poi matita, acrilico, inchiostro) sulla mappa mentale di ciò che già conosciamo. La natura, dunque, come effetto dell'artificiale. Ma il divario tra questi due elementi è ciò che consente di situare il pensiero artistico: proprio fra le due sfere. I titoli che tracciano un resoconto, una cronaca diaristica, "Mouvement pour sortir", 1989, "Tourment avec écharde, n°1”, 1991, per cui chi scrive si sente autorizzato a parlare di narrazione, spostano l'accento sulla visualizzazione del sé, come d'altra parte invita a fare anche il lavoro che raggruppa temporalmente in serie lo snodarsi della ricerca.

Renée Lavaillante è nel suo percorso spesso attratta da una geometrizzazione che attiva il dialogo tra contenitore e contenuto, forma ed espressione, lucidità e incertezza. É il caso della serie "Boites et blocs", 1992,  una verifica tra ciò che può essere contenuto e ciò che può contenere, quando il contenuto è un masso e il contenente è una scatola di cartone. La tracciatura delle caratteristiche materiche è di per sé un tema che già da solo impegna tutto l'essere! La lotta è sempre impari fino a quando sulla carta non si ha la rivelazione della materia. Da siffatta materia caviamo ciò di cui eravamo in cerca. Ora soltanto, sembra porsi dinanzi ai nostri occhi come una rivelazione.

Il ricorso al collage, la stratificazione delle carte sapientemente lavorate, consente all'artista di operare distintamente sulla ricostruzione formale che in questo senso pare opporsi al trattamento delle superfici (superficie verso volume, bianco verso nero). La creazione delle forme non può che essere un assembramento effettuato in una fase successiva, studiato, ritoccato, confortato da incastri o disilluso da incongruenze. Forse l'io artistico non è tracciabile al di fuori del mito.

Ancora, la ricerca prosegue in questa direzione con un esperimento in cui l'artista socchiude gli occhi, ottenendo il tracciamento d'una linea 'alla cieca', e dunque introducendo contemporaneamente l'alea. La Lavaillante ha di fatto sempre costeggiato il dominio scientifico nel tentativo di rovesciarlo nel suo opposto: il dominio artistico (serie "Qui sait comment toucher le sol, n°6”, 1998).

La regolarità della tracciatura questa volta registra una sorta di ordine mentale che si situa prima della vista o che comunque si sottrae al suo imperio. Tuttavia, la disposizione, ordinata o anarchica che sia, svela un processo che marca l'essere, che decide della sua definizione. Se ne rintraccia la flebile presenza attraverso righe di grafite, le quali s'interrompono nei pressi di un immaginato contorno, ritagliando  una sagoma (serie "Dibutade n°3", 2015) o rilevando ispessimenti e intensità, come nella serie  "Giornate ( 45 jours), et detail”, 2014, o in quella più ossimorica "Points de chute n°2", 2014,  la quale a partire dalla caduta di ciottoli sul foglio registra l'addensarsi, intorno al punto toccato, di una concrezione di linee il cui spessore, scurito in alcuni tratti, crea un effetto di profondità, di vero e proprio abisso, in cui l'essere si delinea.

Ora,  l'associazione casualità/precisione è il tramite di condensazione di quello spazio oscillativo in cui trascorriamo dall'effimero all'eventuale, dal caotico all'ordinato, dal determinato all'indeterminato, cioè la messa in chiaro - in forma di grafite - di una inscindibile complessa materia: quel che dell'uomo si vede nell'arte.

                                                                           Rosa Pierno


Le fotografie sono di Eliane Excoffier e Yvan Boulerice





Dibutade, n.1, 2013, crayon graphite sur papier

www.reneelavaillante.net

giovedì 10 novembre 2016

Quirino Principe “AIΩN” Fiorina Edizioni, Varzi, 2016





Porgere alla vostra attenzione lo squisito leporello di Quirino Principe “AIΩN” Fiorina Edizioni, Varzi, 2016 vuol dire porgervi un'istantanea scattata su un baratro in cui non si può precipitare. Su tale ultima spiaggia vi è un oggetto, diruta torre o scettro, e poi un testo, un copione fungenti da balaustra da cui si osserveranno altre scene, tutte ultimative. In una natura morta tenuta in vita da una resa filmica o anche in un interno ricostruito in uno studio dove si rincalzano l'un con l'altra scene tratte da quadri o da testi, da trattati matematici o da partiture musicali, tutto ciò di cui si parla trova un limite contro un tendone metafisico.

Perché il mondo simbolico è un universo chiuso a tutti gli effetti, ove si riproduce solo quello che vi abbiamo posto e dove la domanda incessantemente evocata batte sui lati di un quadrilatero rimbalzandovi: ancora quadro, foglio, partitura, libro. Null'altro che perfetta corrispondenza: le rime AbAb delle quartine del Preludio (una delle cinque parti che compongono il simmetrico poemetto), un Postludio "in forma di sestina arnaldesca",  e fra di esse "una trilogia di sestine arnaldesche" nella struttura del "tripartito Lied", ricalcano le pareti di un chiuso cosmo, rispetto al quale la dichiarata percorrenza effettuata su un nastro di Möbius servirà soltanto a ribadire l'illusione di un'interiorità rispetto a un'esteriorità: nessuno sfondamento è possibile.

Le regole, dettanti simmetria e alternanza, costituiscono una musica  smaterializzata: canone ripete la forma traslandola o variando la posizione degli elementi, mentre l'insieme rimane musicalmente o semanticamente sensato; pertanto, presentando le possibili combinazioni, aumenta la sensazione della massima formalizzazione. Che tutte le arti si presentino sulla scena ad allestire l'ultima rappresentazione: di esse vogliamo vivere e nutrire la nostra disillusa presenza, eppure eroica, proprio per questo! Nella scatola teatrale, o artistico contenitore che sia, s'inscena una nuova mitologia formata dalla sovrapposizione di tutte le storie, le quali sembrano raccontare di un nulla che è l'essere, il quale può essere definito "un non-universo parallelo. Possiamo assumerlo come mito, e soltanto come mito l'essere è sopportabile" ribadisce Quirino Principe nella nota.

La musica, la quale sembra più delle altre arti riuscire a registrare la totalità, è presente nella struttura mentale ancor prima del suono che si scriverà sulla pagina, come quei numeri di Bach citati dal poeta nella nota ad esergo. Bach ritorna, inoltre, anche nel riferimento al nastro di Möbius avendo composto Canone a 2 cancerizzante nell'Offerta musicale in cui due musicisti suonano lo spartito in direzioni contrarie. Ma il nastro ritorna anche in altra forma, con quel riferimento alla forbici e alla carta, le quali ricordano un'altra caratteristica del nastro: se tagliato lungo una linea che corre parallela al bordo si determinano due nastri ancora inanellati.

Non ci traggano su falso binario i riferimenti al crollo, al disfacimento, all'incendio o all'esplosione a cui sarebbero soggetti i suddetti mondi fotografati nell'atto che s'approssima alla loro fine, non fosse altro perché la teca, sorta di scatola cineraria, ne conserverà in ogni caso le spoglie. Cultura, pure quando morta, si tramanda! Insomma, tanto evocata fine, tanto vuoto nell'ultimo gelo non ci diaccia la pelle né ci procura horror vacui, ma una sorta di euforico tuffo in quel plasma primordiale in cui la nostra nascita ha avuto luogo: meraviglioso cosmo, ancor più prezioso quando  il poeta ne mette in nuce il carattere finito e precario o costringe l'esistenza a soggiacere a imperiose adamantine regole.

Ne sarà testimone, ancora una volta, la limpida struttura in forma di sestina "Bare" del secondo componimento in cui magma o plasma, buio o luce, fiamma o gelo condividono, pur in quanto coppie antitetiche, il medesimo schema versificatorio che tutto ridistribuisce e riposiziona in nuove costellazioni semantiche. Ci sostiene in tale lettura ancora il gioco cinese della carta, delle forbici e della pietra: gioco infinito da ripetere infinitamente perché se tutto è stato già detto, occorre in ogni caso ripeterlo, citazione da Remy De Gourmont, che Quirino Principe pone alla fine del suo testo.

Che il poemetto appaia stampato su un leporello rilancia la questione in maniera geniale: poiché esso partecipa formalmente alla chiusura, all'apertura e al dispiegamento di un mondo totalmente artistico a cui i disegni di Loredana Muller si accordano fornendo una sorta di partitura visiva che stria e modella a sua volta, campisce e arretra pur formando lacune - suggerendo a suo modo la tracciatura di una linea - e si attesta tra partitura e testo ingenerando anch'essa una sovrapposizione di immagini mentali che dipingono splendidamente le pareti delle scatole di Quirino Principe. Ma lo sappiamo, ora: si tratta di multipli nastri.

                                                                       Rosa Pierno

http://www.fiorinaedizioni.com/product/aion-quirino-principe-leporello/




lunedì 7 novembre 2016

Imre Reiner "La calligrafia e il segno" in mostra a Giubiasco presso lo spazio polivalente Arte e Valori




Il tempo storico è annullato in favore di un'alternanza delle stagioni, una ciclicità senza ulteriori marche, in cui tutto è segno: frutta e calligrafia, pieghe dei petali e ornamento tipografico.

Le cose, anche rigide, s'inchinano, mostrano risvolti, un gentile modo di offrirsi e adornare, ove le lettere marchiano, più che dire, si pongono come oggetti della composizione, bella in sé.

Nessun profilo è intonso né campitura è mai piatta. Bottiglie e  steli s'intersecano, materie riflettono quelle vicine intaccate da un'acida luce.

Lettere, emblemi della possibilità di scrivere/leggere, rmostrano, nelle immagini, una eventualità non fattuale.

Si può scrivere la parola rosa accanto a una rosa? La R è scomponibile in un'asta verticale e in un cerchio che ingloba un ovulo rosso.

Forme si compenetrano: un labirinto intricato da un altro labirinto.

Potrebbe essere tutto disegnato in una gigantesca lettera di cui non vediamo che una porzione. La maiuscola iniziale con cui si disegna il mondo in un antico libro.

Le esili linee sulle carte marezzate segnano gli itinerari di viaggi compiuti all'interno di territori scritti, inchiostrati.

Anche il colore scrive, mentre le lettere disegnano. Il foglio accoglie, incurante dei figuranti che vi svolgono esercizi al trapezio, i tappeti del sottobosco, le macchie delle foglie secche.

Opera dispiega un testo illeggibile, se non nella sua esplicita affermazione di non voler fare riferimento a un senso.

Dalla natura si diparte distillando lettere e liane. Ogni cominciamento resta un mobile indizio.

Sulla carta, che funge da filtro e rete, dispone forme familiari nel  tentativo  di crearne un equivalente in altra forma: astratta, ma sempre si  distinguono petali e semi.

Brillanti colori con false prospettive e finte profondità rilevano una compresenza di multipli sguardi e un lirismo che si coglie nell'assoluto equilibrio di una linea su un occhiello giallo.

Ciò che è esile, è quanto c'è da cogliere. L'effimera rivelazione, impressa nell'animo.

Un sogno entra nel quadro come fosse un materico rinvenimento. Vi galleggia, olio sull'acqua.

Sotto un cielo inverosimile - la cui consistenza è soggetta alle sole scorribande del pigmento - si distende uno sperone di roccia sul quale l'inchiostro si spande in funzione di una trina d'acqua precedentemente disposta. Al centro s'accampa una figura casualmente intrecciata da linee colorate.

Vividissimi colori, figure che si formano da filiazioni improbabili, cerchi e lettere, amebe e figurine oniriche si spartiscono l'unico spazio che le intercetta.

L'opera è un ricettacolo di materiali incongrui che suonano in comune accordo una lirica visiva.

Da caratteri tipografici germinano mondi che nemmeno nei sogni è dato vedere.


                                                                  Rosa Pierno




Dal 5 novembre al 27 novembre 2016
Spazio polivalente Arte e Valori
Via Ressiga, 9
CH-6512 Giubiasco



martedì 1 novembre 2016

Gilberto Isella su “Veramente, quando” di Augusto Blotto





 Guardato da anni con un certo sospetto dalla critica accademica (fa eccezione Stefano Agosti, il suo estimatore più qualificato) il poeta torinese Augusto Blotto (1933) merita quell’attenzione che si deve a ogni progettualità poetica costruita sulla ‘differenza’ espressiva e sulla radicalità del linguaggio. Nel solco di Amelia Rosselli,  Edoardo Cacciatore o Emilio Villa, tanto per intenderci: figure né apocalittiche né  avanguardistiche, solo spiriti liberi posseduti dal demone della scrittura. Scrittura che non fa concessioni all’immediatezza comunicativa,  avventura della parola tesa a indagare l’indicibilità su cui il cosiddetto dicibile è fondato.  Veramente, quando (a cura di Gilberto Isella, ADV, Lugano, 2016), una  raccolta scritta tra il 1966 e il 67 e solo ora data alle stampe, s’inserisce in un corpus fluviale e in continua espansione: 25 volumi editi e 29 disponibili in rete. “Il poeta italiano più prolifico del suo tempo e forse della storia italiana”, ha scritto Philippe Di Meo.

*

  La poesia di Blotto, antimimetica per vocazione, vive, attraverso l’esperienza dell’horror vacui, l’incanto di una durata. Sperimenta, ulissicamente,  la sfida a ogni limite del dire, immaginario e/o epistemico. Il suo tema esplicito è il viaggio –  annotazioni di date e toponimi ne delimitano ipotetiche sequenze, con effetti paradossali di realismo autobiografico – seppur col presupposto che ogni partenza racchiude un ossimoro, il “clamoroso non incominciar neppure”, e che ogni transito corrisponde a “questo lupo di velluto dell’esser fermi”. Viaggio oltre la fattualità dunque, viaggio nei recessi più problematici dell’agire conoscitivo:

Il conoscere parte dai piccoli aggeggi,
prove accorate di modesto dimostrano,
e si unì a una ripetizione, a renderci adatti
a vivere con lo sgretolìo pedagogico
che è un pensare al nascere, non dico al cognome
che porto e porteranno, ma al modo di usare il procedere
che imparò a gradi e, già adulto, vedeva,
in quegli anni, davanti a sé una zona turbolentetta
che non vedeva, v’era una piega, il taglino
robusto del “non prima di allora, e sarà
tra poco”

   Qui abbiamo solo parvenze di metadiscorso: labile sovrastruttura subito metabolizzata e resa ‘altra’ da aporie dove l’indecidibilità dei pòroi - passaggi o sbocchi inerenti all’ordine scrittorio – tracciano le coordinate, in realtà scoordinatrici, di un senso in continuo differimento.  Il senso, appunto, quale improbabile punto di convergenza di stringhe inconcluse, realizzate dai “piccoli aggeggi” del verbalizzare. E se l’agire pedagogico  (“sgretolìo”) consiste in un faticoso e forse poco remunerativo “modo di usare il procedere”, lo dobbiamo al fatto che è proprio l’esperienza del pro-cedere entro uno spaziotempo di segno caotico e anomico a venir messa in causa. Spazio e tempo, svincolati da ogni norma aristotelica, sembrano decostruirsi di fronte a tale o talaltra “zona turbolentetta”: zona turbata e tendenzialmente lenta, secondo quel fecondo impiego di parole-macedonia che rappresenta un tratto distintivo dello stile blottiano. Custodendo nel loro processo iterativo memoria e oblio, oltre al pathos ondivago dell’interiorità, zone del genere segnalano pieghe, punti di svolta, invisibili tagli inferti a questo singolare universo. Quanto al soggetto, è l’occasione del suo autosospendersi, lasciando fluttuare in una sorta di “vento medio” la  nozione del tempo:

Felice come l’uomo si toglie, per essersi
riconosciuto, sono in orecchia
fiamma di vento medio; e non so andar più piano
di questo capir se è ora o prima; i giorni,
i giorni miei in spasimo di gradino

*

  E i luoghi? I luoghi vanno dislocati, mimetizzati sotto la veste ‘arcimboldesca’ della scrittura: la lettera come abito-idioma del soggetto. Autarchica-autistica dovrà perciò risultare l’esplorazione dell’esistente, all’insegna di una privata geosofia (“per essere io presso/ al mio vestito”) dove la distinzione tra qui e là, prima e poi, stasi e movimento, natura e artificio, avrà scarse probabilità di sussistere. È quando la trans-realtà  – che accoglie unicamente percezioni fantasmatiche del presunto reale, inaccessibile in sé – si fa strada, supportata dal vertiginoso e barocco rimbalzare della parola da un’isotopia semantica all’altra,  agitando “elenchi” aleatori, immaginarie “carte da gioco”.

Poiché far un po’ di strada confusa,
fra noi, è un disporre elenchi
leccati, tipo le carte da gioco, in questi
paesi che è le soste, nel comporre,
acerbe, cattive, tutto un saperci, con gomiti
sbussolati a conoscer l’aerea carne o curva,
il salato zenzero che attacchella brioche
sfumata alle spatole del pensar d’esser qui e restarvi.

   Babele canta, per il tramite di questa “aerea carne”. Ci si sta avvicinando, suppongo, ai confini dell’ordine simbolico. Sovvertire quell’ordine è faccenda di hybris, e Blotto lo ammette a più riprese, ad esempio in un testo risalente al 1963: “Quasi/ avventare di flagri, il pensare, il troppo”. O in un componimento anteriore, del 1958 (Analizzare le località), dove non lasciava indifferenti lo iato tra “Analizzare le località, possibilità apertissime/ di scegliere coincidenze”, da una parte, e “impraticabilità e campibilità sovrumana/ topografica, come la cervice/ fragile, vermiglia”, dall’altra. E tuttavia l’impraticabile è e sarà sempre oggetto di una sfida che compete al poeta, al poeta come operatore del rischio e della vertigine, come diabolico agrimensore attratto dal potenziale buco nero in cui ogni luogo consiste. Buco nero e allo stesso tempo, per paradosso, grembo innominabile dove si annida uno spirito vitale? Così Blotto in un precoce scritto del 1953, alludendo all’archetipo dell’uovo cosmico: “Il paesaggio d’inverno ha il tuorlo intimo/ del sole che coagulato risale”.

*

  Nel genotesto di Veramente quando, Blotto inscrive i contrassegni di un Lucrezio postmoderno. Di un poeta, cioè, che ‘bada’ al mondo in quanto physis e semêion, che ne osserva sbalordito l’incerto e contraddittorio formularsi tra una materica, pulviscolare o ‘aghiforme’ ridda di particelle e un ordine geometrico consegnato al sapere delle planimetrie, “crudeli quel tantino”. Tra i due poli, forse, si apre l’interstizio provvidenziale che consente di udire la voce dell’Essere:

Terra coi numeri che la distinguono, oggi
successivi e componenti: dei tocchi della polvere
s’accetti il dirigersi, il mondo rettilineo,
aghetti mosci in cielo all’atto del vederlo
odorano di come è la spalliera, o attraversata,
di terra di nocciola l’incontrar, salto
annoverato: purché stiamo a badare.