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lunedì 24 ottobre 2016

Giorgio Linguaglossa "Blumenbilder. Natura morta con fiori", Passigli Poesia, 2013



Se è vero che il dato reale esiste, che non lo si può eludere, e che ciò che ha natura mentale non esiste, pur tuttavia, Giorgio Linguaglossa nel suo  "Blumenbilder. Natura morta con fiori", Passigli Poesia, 2013, decide di stabilire la sua dimora poetica in una teatrale mente. Tuttavia, la storia, oculo privilegiato da cui osservare la scena, sebbene basata su fatti, documenti, testimonianze, essendo incentrata su una sorta di setaccio che nel suo espungere "le comparse / inutili", nel resuscitare "i fantasmi",  svolgendosi in uno spazio soggetto all'illusione del racconto, diviene il luogo in cui "parvenze" ed "essenze" sono ricondotte a simil destino, viene a costituire lo snodo privilegiato ove si attua lo scambio fra reale e ideale.

Sdoganando il noioso assedio di una realtà incombente e prevaricatrice, divelte le concatenazioni causa-effetto, "gli alberi spingono il vento", falcidiato il doveroso attenersi all'esclusivo binario percettivo, il poeta è ora libero di ricreare le sue molteplici immagini. Nell'enciclopedico palcoscenico lulliano, gli abitanti vi esistono in duplice copia, parvenze reiterate, ritratte, accennate, ombreggiate, intraviste. Il gioco degli specchi non è meccanismo che serva a confondere le acque, svalutando l'identità, quanto a moltiplicare le istanze del soggetto, il quale non può accontentarsi del suo reale aspetto, della abitudinaria lingua, dei domestici utensili aventi contemporanee forme. E vedremo con quale ricchezza, semantica e sintattica, Linguaglossa disponga intorno al lettore il magico castello in cui si troverà ad essere un effetto della lettura e protagonista a sua volta.

L'individuo, nell'affrontare il problema della storia, deve affondare gli stivali nel fango del Trecento, si deve zavorrare con le bisacce del Seicento, deve potersi riconoscere nei suoi avi e vedere la sua compagna sotto le sembianze, numerose quanto varissime, assunte dalle donne nei diversi ruoli assegnati loro dalle varie epoche, deve provare a immaginare come egli sarebbe stato se fosse vissuto in un'età che imponeva differenti abiti mentali. Costruire l'ambiente è fondamentale per farvi agire i personaggi. Ma liberarsi da tutto ciò che è mero orpello, potrebbe far scorgere la vera natura delle cose, la loro immutabile sostanza. Sarà da individuarsi proprio in questa ricerca la responsabilità dell'artista, il suo non accettare nessun emblema come oro colato né gioiello a causa dei suoi baluginanti riflessi. A riprova, chiedersi "e l'amore, che cos'è l'amore?" servirà, infatti, solo da cartina tornasole per saggiare la fungibilità degli strumenti: figure ideali, poligoni, fumo, regole di retorica, suoni, onde...

Ah...carte taroccate, a voi la parola! Le figure simboliche della Torre, le scientifiche dimostrazioni dell'incompletezza vanno a braccetto in un mondo di fantasia e lì s'incrociano con colui, tentatore di turno, che issa stemmi e stendardi e mena per notturni campi. In questo speciale cosmo o gabbia per soli pindarici voli, o segreta, eppure, non manca la rappresentazione della realtà, nei suoi echi più macabri e crudi e mal si farebbe a credere che le poesie coincidano con brani di sola finzione, pure se i personaggi paiono fiabeschi.

Il tempo, nelle densissime pagine, è solo funzione di un presente che va saggiato, turlupinato, travisato, rovesciato al fine di non assumerlo a scatola chiusa, ma di ricrearlo. Storia dovrebbe servire anche a sperimentare possibilità diverse:  avere in sé il progetto di un diverso andamento, tant'è che persino il ripristino della memoria è soggetto a divieto, non può essere incauto incedere, leggero procedere: "la memoria è una stanza chiusa / dove non si entra senza bussare.../ dovremmo essere in due a chiedere / il permesso.../ ma questo il fato non l'ha concesso". Eppure, il poeta se ne assume il rischio e il compito.

Verificare, ricordare, persino fingere di ricordare pur di mettere in scena, di rivivere, di accettare. In questo senso rammemorare è nuovamente percepire. È poter scegliere, come se il presente ancora nulla avesse determinato. Nuovamente saggiare l'amore che fu, soggiacere letteralmente, come fosse ora rinato. La lunga sequela di ipotesi che percorre tutta la raccolta, è quasi da Mille e una notte: ogni notte il racconto ricomincia "...forse ci siamo incontrati in un budello / di Instabul - io ero il portantino e tu"; "...siamo i domatori / delle tigri del Bengala, belli come dèi".

Gli amanti si travestono invano, l'ironia segue le volute dei loro dialoghi, non fosse altro perché osservano loro stessi, mentre sono assisi in platea. O anche sono amanti immaginati, in pose desunte da quadri e corniole, da bronzi e arie musicali, sono l'amore come dovrebbe essere. "Una tranquilla aria nostalgica si diffonde, / serenamente dubitiamo / della nostra realtà  e della musica di Mozart". Il passaggio temporale può chiudersi, la morte sopraggiungere e fermare le macchine:

<forse appena il delirio, il collirio
della disperazione ci ha sbarrato
le porte>> - dicevi nel sonno - <replicavo - e, senza fuga, non c'è ritorno...>>.
Eravamo parzialmente veri, distratti, attratti
senza sospetto, esatti nel balcone a guardare
le fiamme dei gerani (...) incorporei
come due voci in falsetto".

Che i due personaggi si lancino domande dal divano occidentale o sui pendii dell'Orlando Furioso, immersi nella Primavera di Botticelli o fissati da un dagherrotipo, la commedia non muta. C'è dell'immobilità in tale cangiare, forse proprio la sostanza fondante, quella uguale per tutti: la caducità. Ma è una caducità resa sfavillante da un cortese e fiorito scambio in cui, con straordinario zelo, gli amanti amano i propri inganni, a tal punto che "<>". E l'amore ideale diviene per questo non falso! Oltre questo giardino metaforico e cifrato, forse disegnato da un "dio solitario", melanconico, "il napalm bruciava". Non è la lingua né la letteratura a rendere  fallace il mondo, ma la sua inderogabile realtà.






da Blumenbilder (Natura morta con fiori)

Rugiada. Nella lastra gelatinosa
della fotografia è entrato un bosco
pieno di foglie… hai ripreso a respirare
come il profilo di Simonetta Vespucci!
all’orizzonte, dietro il tuo ritratto,
s’intravvedono uomini armati che
scherniscono un prigioniero con le mani
legate che sostiene una croce;
una folla di pellegrini e pastori
li seguono; più oltre non posso gettare
lo sguardo: il limite esterno rivela
la cornice - la storia disegna il teatro
del mondo, sopprime le comparse
inutili e resuscita i fantasmi -
ma noi, dietro il diaframma, enigmatici...
il mio ritratto osserva il volto
del tuo ritratto; due parvenze, o due essenze!
stormiscono gli alberi; un lieve vento
inanella i tuoi capelli; tu sorridi
come la vittima al carnefice; sei sola
nella tua casa veneziana, slacci
il busto e ti avvicini alla mia ombra;
una farfalla si arresta sul tuo gomito
e tu sorridi fra i tre alberi in fiore
e i tre ritratti...
in una piega del tuo volto abita una stella.
dietro la parete vi sono tre vascelli
idrocaedro invisibile che non hai mai
visto; ma tu sospetti… e aspetti
che da una fessura esca uno stormo di uccelli
e una nuvola di anelli…

ma noi, dietro il diaframma, prismatici


*

... il tuo volto inscritto in una medaglia
maschera che abita la parvenza
inciso nella cornice che abbaglia
il profilo che irride l’essenza...
abitiamo il cielo come due corsari
la tolda della stessa nave; due mari
si uniscono nella chiglia,
noi, saldati alla nostra epoché,
scettici e logògrifi, sinopiche
entelechie, il fumo ci abbaglia...
noi, la medaglia irrisa, fotometria
invisa al tempo...  - forse siamo una
congettura che si dissipa nel fumo,
siamo l’ombra dell’ombra sullo specchio...
- noi che abbiamo amato l’oblio
e il funesto inganno del girasole! -
la ruota del vasaio che gira il vaso
il tornio plasma il profilo della clessidra,
l’orecchino brilla sulla tua gota e oscilla
gli alberi spingono il vento
il vento soffia le parole di un dio
minore e noi siamo già vicino al mare che verdeggia...
una verde collina
in cima un albero dai bianchi fiori
un nero vento scuote le sue fronde...
io sono giovane; fruscio di clessidra:
io sono il falegname e tu la giovane Maria
Pilato deve ancora venire...
sono felice con la mia giovane sposa
e le legioni di Roma sono lontane...
il cielo, le stelle, l’anima, il sole,
la storia degli uomini, cataclismi,
olocausti...
e l’amore, che cos’è l’amore?
policaedro, confutazione di artigli,
fumo che si disperde tra le colline,
frinire di grilli al tramonto?

... vedo un angelo gobbo
che salta giù dal melo e nasconde
nell’ampio panneggio il sospetto.
E tu piangi


*


... nella differenza dell’altezza il
ritorno alla Torre è la misura,
il cronometro dell’incompletezza...
il destino è il pronunciamento del barometro
dimestichezza del centro...
conosco una suprema finzione
che tu chiami apologia del delirio
mutazione dell’equidistante.
Pasiphae nel guardinfante incendia
il luogo, l’hic et nunc, corposamente
oscena. - sì, una drastica lussuria.
…………………………….
gli esercizi incruenti tra le pareti
infernali ci trovano consenzienti, irreali...
acclamiamo le virtù del paesaggio:
stemmi, stendardi, bandiere dal tortile
profilo, spadini che feriscono

*
... fauni di marmo e veneri nude
belle come orchidee lungo lo stagno
che cullava le pallide ninfee...
ricordi? regnava un’atmosfera di lussuria
e di oltraggio.
La Bellezza simbolo dell’idea
era la nostra irredenta consunzione...
il cupio dissolvi dei mangiatori
di loto assopiti nell’edera
era metafora e geroglifico,
allegoria del giardino...
se lampeggiava un lampo in limine
era abbaglio,
finzione d’un recitativo,
meditazione d’un dio solitario,
melancholia di fauni farseschi, irridenti,
di sileni lussuriosi assiderati nel gelo
del mattino, intreccio di ninfe sottili
e amadriadi callipige...

lontano, oltre il giardino, il napalm bruciava

martedì 18 ottobre 2016

Nota sulla traduzione di "In viaggio con Apolllinaire" di Mario Fresa, L'Arca Felice







Un traduttore di poesia deve lavorare siccome un interprete musicale. È questo il senso del gioco di queste mie traduzioni-imitazioni confluite nel quaderno “In viaggio con Apollinaire”ai testi ho voluto applicare minime inversioni sintattiche, dilatazioni o contrazioni metriche, sovrapposizioni, puntature, cadenzine. L’elemento di maggiore fascino nella traduzione poetica è d’altronde costituito, secondo me, soprattutto dalla forma e dalle modalità del processo di trasformazione del testo da cui deriva la traduzione stessa; un processo che non è un ʿcontrafactumʾ o un travestimento, ma una forma di scrittura trasversale che assume il valore di un omaggio-variazione, in cui si accolgono e si uniscono sia l’eco imitativa, sia la rielaborazione, fiorita e ampliata, del modello di partenza. 


Topino

O belle, mie belle, terribili, belle giornate!
Topini del tempo che la mia vita divorate!
Trent’anni, miodio, trent’anni li compirò tra un mese!
Che tempo perduto! Che ore malissimo spese!


Gambero

O dubbio, dolcissimo mio. La dolce mia altalena.
Ah ridatemi la strada. Non la vedo. Non la vedi.
Tu mi sventoli all’indietro: come un gambero procedi
Che sgambetta, si ripara, che alla fuga già s’allena.



La bianca neve

Ah, gli angeli in cielo, là in alto, là fuori!
Uno è vestito da brigadiere
L’altro è vestito da cuciniere
E gli altri, quel gruppo, son tutti tenori


O bell’ufficiale, color dell’azzurro!
La primavera, adesso, dopo quel lungo inverno
Sai che bella medaglia di sole ti assegnerà
               Ma sì, te la darà


Il cuciniere spiuma le oche
E che neve che cade: e cade, la neve,
Ricade: né v’è
La mia bella, qui adesso, con me!





Testi tratti da Mario Fresa, In viaggio con Apollinaire. Libro stampato in 199 esemplari numerati a mano. I primi 90 di essi contengono, fuori testo, un’opera originale di Massimo Dagnino. Edizioni d’arte L’Arca Felice, Salerno, 2016.

sabato 15 ottobre 2016

Emilio Tadini inaugura la nuova collana Parole & Figure di Pagine d'Arte




Ci facciamo accompagnare dalle stesse parole di Matteo Bianchi e Carolina Leite, per presentare il bellissimo volume "Emilio Tadini", inaugurante la nuova collana Parole&Figure di Pagine d'Arte, i quali "propongono questa volta un invito alla lettura e al piacere dello sguardo, oscillante fra immagine e testo, una corrispondenza fra parole & figure.

Il titolo parole&figure è anche quello dell'inedito collage di testi e immagini costruito a partire dalle carte di Emilio Tadini riunite nei classeur degli anni settanta.

Fogli di diario, appunti e citazioni, segni e colori animano la scena poetica di Emilio Tadini, nelle parole di Umberto Eco "scrittore che dipinge, pittore che scrive ".

Il collage ideale di parole&figure si attua nello spazio magico, fra le pagine di questo libro, che accoglie uno speciale ciel vague nella stanza che si dispone fra nostalgia e desiderio, memoria e progetto: collage, e ancora ciel vague per Emilio, costruito nel segno  attuale della sua poetica, stimolante e solare".

Il volume introdotto da un saggio di di Arturo Carlo Quintavalle, riproduce le testimonianze di Paolo Di Stefano, Giorgio Marconi, Anna Modena, Silvia Pegoraro, Tullio Pericoli, Rosa Pierno, Francesca Priori, Giacomo Raccis, Gianni Turchetta e Matteo Bianchi che, insieme a Carolina Leite, condivide questa iniziativa editoriale.


mercoledì 12 ottobre 2016

Mario Fresa su inediti di Giacomo Cerrai da "Luoghi scarsamente popolati"



Giuseppe Santomaso (1907-1990) "Vite segrete", 1958







Ritrarsi e narrare
di Mario Fresa


C’è il senso di un’obliqua alterità e la sensibile eco di una lucida, raffinata sprezzatura in questi nuovi testi poetici di Giacomo Cerrai: essi appaiono immersi in un’atmosfera tutta brumosa e anfibia, nella quale gareggiano, alternandosi o convivendo, un’attitudine alla descrizione pura degli eventi e una prospettiva divagante ed enimmatica, tesa al nascondimento e all’elusione del soggetto che pazientemente registra lo schiudersi della realtà osservata. La narrazione-descrizione si fa essa stessa, allora, straniante e sospesa, nel segno di una continua trasfigurazione, misteriosa e mercuriale, di colui che guarda e di ciò che è guardato: una trasfigurazione nella quale, tuttavia, l’epicentro dell’osservazione digrada a poco a poco, e poi sfugge e si ritrae, infine moltiplicandosi e disperdendosi in una dimensione plurima, fitta di specchi e di rifrangenze che spingono l’occhio ad avanzare con movimenti liquidi e ingannevoli.
L’io non si appartiene più, e l’esperienza dell’analisi e dell’indagine degli eventi si fa remota e disorientata: sempre meno afferrabile e comunicabile, cioè, e sempre più corrotta, e corrosa, da una molteplicità di sensi che mira a una assidua trasmutazione del soggetto indagatore; così, l’enunciazione polifonica della poesia di Cerrai giunge, elidendola o scansandola con incessante sollecitudine, a disgregare la possibilità di individuare o di riconoscere una epistème fondante e rassicurante, col risultato di insinuare, nel gioco della scrittura, una costante idea di auto-esilio, di perdita di sé e di impermanenza dell’io. Si chiarisce, perciò, la posizione di colui che scrive: spogliato del greve peso dell’autorialità, egli si dà alla macchia e si ritira nel bosco, siccome la figura del Waldgänger ritratta con acuta maestria da Ernst Jünger in un celebre suo trattato. Il poeta, dunque, volendo scardinare se stesso e scegliendo, ora, di auto-bandirsi, confuta e dismette, a grado a grado, ogni miraggio di certezza assoluta e ordinatrice: ed è per questo che le sue parole si muovono sempre ai bordi di un centro incalcolabile, trovandosi, senza sosta, fuori di sesto o fuori quadro: quasi come in una sorta di ansiosa, incontenibile sfasatura dello sguardo, o nella vertigine di un equilibrio tanto precario, quanto pericoloso; sottraendosi, così, con sagacia, al destino di crepuscolare immobilità cui spesso è destinata, per sua natura, la stessa riflessione poetica.




Giacomo Cerrai, inediti da
“Luoghi scarsamente popolati”





calligrafie mutate nel corso del tempo


c’era una “o” così rotonda da commuovere.
non era più di nessuno, spossessata dal tempo
come altre vocali circoscritte in esatte colonne
in quadri in righe d’un ordine costituito
precisamente inclinato precisamente allineato
protese verso un orizzonte di nuvole e d’idee.
Una rotondità di frutto futuro, e libero
di costituirsi in parole forse preghiere
forse versi d’una brillantezza sconosciuta
o in quella promessa che l’avrebbe innamorata.
La rotondità dell’oculo, persa, come d’un cielo
scolorato, soprattutto speranza strappata, vista
dal fondo d’un ipogeo di scritture a perdere
che variano nel corso del tempo, variano
perché l’immobilità e la pace
sono solo della pietra indifferente.

(feb. – mar. ’15)



Da “Luoghi scarsamente popolati”


avantgarde
(de tout cela il faudra tenir compte)

appare a volte un’onda che rigetta indietro
tentativi d’una approssimazione.
Si conosce il rischio d’una levigata ritrosia:
a voler aderire, ad afferrare
un rotolìo di ciottoli smarriti,
una indistinta collocazione nel mondo
valigia smarrita volutamente
voci che risuonerebbero anche se
il soggetto fosse inutilmente confinato altrove,
solo il suono come una mistificazione dell’aria,
come colori che persistono anche al buio,
o forse ruotano con tutto il resto
forse suonano come tutto il resto
dicono no e no e può essere
in questo ritrarsi indifferenti in questo
acido accostarsi tanto quanto
una lontananza  uguale e contraria.
Essere o non essere in frammenti
è un avvicendarsi di ruoli oggetti
la penetrabilità dei corpi
l’ipostasi di una coscienza in fuga
fuori dal cono di luce individuale
fuori dall’ombra di tutti
fuori dal paradigma,  distanti
e con poca memoria, poco
da raccogliere per scritto
(da dire)  (da fare)  (da anteporre)


(ott. – nov. ’15)


post-post
(et de cela aussi, il faudra)

cosa asserisce un cielo grigio?
niente che non vi si iscriva: eppure asserisce
il riflesso d’una frase fatta
con buona pace di chi ricerca una religione
un a senso della vita un semema per quanto
incomprensibile
(e buon pro gli faccia)
mentre uccelli seguono una direzione in perfetto ordine
scrivono sull’ardesia del cielo una v vibrante
auspicio qualsiasi aporia d’un umore
a privativa
- nel migliore dei casi -
di quel seme stesso

daccapo

crepuscolare


(nov. ’15)


da “Soggetti”

soggetto due
(origine del design, love)

lei vorrebbe risposte è il solo dono che attende
e sinecura e garanzia lifelong al di là  del bla bla dei primi corteggiamenti
di cambiarlo in un modulo abitativo riempire le stanze di roba
e parecchie risate – quelle sì, indispensabili -  semmai componibili
senza interventi esterni o brugole.
Una cosa insomma assemblata con molta passione pur con alti e bassi
che danno peraltro una certa idea di movimento orgonico
e un passar di giorni condensati in rientri a casa ad ore fisse ciao
e buste di cellophane colme di lavori secondari d’una femminilità intrisa
e forme espresse in un susseguirsi di accostamenti in piena notte;
ma non è questo il punto lei vorrebbe risposte sulla trasformazione del corpo
nello spazio prescelto nella vita al terzo piano nei silenzi dei metri quadri
arredabili da un’identità plurale noi noi con colori adatti all’ambiente
e qualche certezza tipo mio mio un possesso cioè non catastale
una bellezza adagiabile in un giaciglio adeguato e consacrato all’uopo
e una certa propensione all’ascolto razionale ed estetico
anche ad ora tarda (distratte riviste fashion in contenitori di polimetilmetacrilato 1  
forniscono allo sguardo una fuga)
mentre la stanza si anima di bagliori di figure in movimento grigie.
Lei vorrebbe il tempo onesto e sufficiente
all’usura dei legni dei segni dei simboli la giusta
patinatura che significa che il tempo fu clemente sulle cose e sugli incastri
senza brutte sorprese come un intreccio di linee pure e funzionali
e stanzette ordinate e immote nell’assenza d’echi di passi incerti e petulanti
che verranno a maturazione certo a tempo debito – un’altra forma come un lascito –
a Dio piacendo.

Lei vorrebbe mentre osservava con la coda dell’occhio un profilo con pochi tratti salienti
c’è qualcosa di plastico in te? si chiedeva nelle penombre odorose di cera
mettendo in conto qualche disillusione un difetto nello stampo una crepa
- si capirà strada facendo, immaginava – con lo stress
dell’utilizzo costante e quotidiano
ma in fondo quel che conta è la serenità (può esserci parola più allopatica?) perché
la vita si conta a panettoni diceva suo suocero settantacinque circa
la vita è una soap palatale             diceva mamma.

1 forma essenziale e pratica, oggetto che può essere collocato con facilità in ogni ambiente (documentazione fornita dal produttore)


(mag. ‘15 - mar. ’16)


destinatario sconosciuto

la qualità eccellente di quel silenzio bianco,  
del foglio opaco tante volte descritto come un campo arabile
assomiglia invece a una pazzia impossibile da guarire.  Difficile dire
tra quali punti delle due dimensioni fissarti  per sempre con un tratto      
tirare d’un segno il momento in cui ha perso il suo senso maturo
ciò che era possibile scrivere.
Ora chi legge questo scritto non ha titolo e non importa ne abbia.
Sembra per lui per tutti una lingua accadica, una Ur lontanissima,
e il silenzio è un disordine, una macchia.
Ma la pazzia resta,
si prosegue.

(apr. ’14)


FINES

oltre la parete le voci dicono qualcosa che fluisce, e non partecipa.
Non è corrente, non trasporta, lascia solitario.
Il costante ritardo d’altre parole crea bocche vuote un silenzio retrogrado.
Oltre la parete si può solo immaginare ed è difficile che tipo di vita.
L’alternativa è nel ramo l’ombra percossa sul vetro un’anima di vento e clorofille
un’agitazione sur place di pensieri indisciplinati.
Questa reclusione volontaria è un limite costipato d’immagini
domesticate immodificabili da una immaginazione arresa
e qui finisce la terra ed anche il sogno
se si smette di sognare di zittire la voci di innalzare le braccia come
a un libro aperto poggiato su un ripiano troppo in alto.

(lug. ’15)


giustifichi il tuo esistere
il tuo passare nella carne a forme libere
senza elogi
qui
una metamorfosi che la prossimità alimenta
in migliaia di riflessi, nelle stanze.
Tu guardi ad un punto equidistante
tra cielo e terra,
ed è una preghiera, forse.  Io
non credo alle rime, solo
a qualcosa che mutando
muta  la coscienza
che tu sei qui
come un componimento.
Per me l’adattamento
a qualcosa che muta
è una lotta in versi contro l’estinzione
dare un ritmo a chi amo, come
- oltre il limite –
d’una attrazione di ritorno.

(mag. ’16)


molti modi per dire
molti modi di dire,
degli uni si usa per mostrare
il palmo delle mani
il vuoto o il pieno
o un ciottolo dorato per le gazze fanciulle,
degli altri per nascondere
sul dorso le cicatrici o i segni
di denti d’amanti o d’animali.
Come la bocca:
l’assente o il presente trapassato
l’attonita cerchia delle labbra
il silenzio dei lupi
o la canzone di chi dice o disse
la parola che richiama indietro
chi se ne andava.

C’è un modo per dire, certo,
nell’infinita varietà dei verbi
un modo possibile, un mondo
nelle voci che articolano voci
nei respiri che danno respiro,
che il dire è l’unico
per quanto incerto modo
di salvare il salvabile.

(nov. ’13)




domenica 9 ottobre 2016

Disegno di Giulia Napoleone per la poesia "Finis Mundi" di Fabio Merlini




Disegno di Giulia Napoleone per la poesia "Finis Mundi" di Fabio Merlini, 
agosto 2016, inchiostro su carta Lafranca, Cerentino, CH, cm. 44x57


Un testo di Giulia Napoleone sull'incisione nel catalogo "Maestri-Allievi" in occasione della mostra tenutasi a Palazzo Gasparini a Mercatello sul Metauro, 1996, a cura del Conservatorio europeo di arti e mestieri.

Nel tempo che passa tra l'inizio dell'incisione di una lastra e la prima prova di stampa muore un progetto, un'illusione, nasce un'immagine; mi ripeto queste parole che riflettono uno stato d'animo destinato a ripetersi nel tempo.

La morte dell'illusione è solo apparentemente uno sconforto che viene dal non aver raggiunto lo scopo: viene dal verificare di non essere riuscita, ancora una volta, a dire esattamente quanto volevo. Ma ogni volta nasce un'immagine che si avvicina alla mia visione interna e penso che la prossima volta, cioè la prossima lastra, mi svelerà l'immagine intuita. Il conflitto, che vivo quando l'immagine si presenta simile alla precedente e a quella che seguirà, è legato in modo insondabile alla tensione dello spirito.

Il mio lavoro nasce da una visione, da una suggestione del mondo sensibile. La visione è spesso evocata da un verso-immagine, da una linea di passaggio, dal tramutarsi della luce o dal trascorrere del tempo. All'origine del mio processo creativo è spesso un'idea che vuole diventare immagine. La prima fase del lavoro si svolge in meditazione concentrata sul pretesto che si è insinuato in me e deve vivere di vita propria.  L'immagine è definita, ma il processo di chiarificazione è spesso accidentato. Affido a percorsi obbligati il mondo di ombre indistinte che chiedono di assumere una forma che sarebbe non rappresentabile se libera da costrizioni.

La precisione deriva dalla necessità di rendere la forma chiara, ordinata, leggibile e farne vivere e vibrare ogni più piccolo angolo, quasi granello di un immenso pulviscolo. I tempi di lavoro sono per me obbligatoriamente lunghi. Penso che il significato dell'arte stia proprio nel corpo a corpo con la materia, con la forza opaca che si contrappone alla materia da manipolare. Il tempo del lavoro si identifica con quello della vita e lo scopo è dare qualità ai propri tempi. Il lavoro fa coincidere intuizione e espressione e non è fine a se stesso, ma via alla conoscenza di sé.

                                                                    Giulia Napoleone






giovedì 6 ottobre 2016

Flavio Ermini "Della fine. La notte senza mattino" Formebrevi, 2016



Ma come fa una notte a non avere mattino? È ancora più scura, ininterrotta, priva di forme e colori. È una notte priva di dialogo e di alternanza, di mitigazione, di contraddittorio. La sua definizione, non nascendo da una contrapposizione, la renderebbe ancora meno splendente, meno luminosa, meno rischiarabile. Riconoscibili, fra le altre, nel tessuto testuale, le voci di Kafka, Cioran e Dostoevskij, caratterizzano in maniera ancora più serrata il percorso-viaggio che si snoda nel saggio, legando alcune stazioni fisiche o mentali: il monte, le rovine, il crepuscolo, la soglia, la dispersione, la caducità, il silenzio. Boe attorno a cui la notte si rapprende con un'immagine interiore.

Giacché come lo stesso Flavio Ermini afferma nel suo ultimo saggio "Della fine. La notte senza mattino" Formebrevi, 2016: "L'infelicità è inevitabile. Nasce dall'urto tra il carattere illimitato dei desideri e il carattere finito del bene che ogni essere vivente riesce a procurarsi". Vedremo subito come questa sia in realtà  un'opposizione del tutto apparente, poiché se esiste ciò che si fronteggia, se esiste cioè la possibilità di procurarsi il bene, nella sostanza esso non ha alcun valore, alcuna capacità d'incidere nell'esistenza, di bilanciare il male. La quantità di male è eccedente fuor di misura, il timone per orientare la nave è rotto e nulla può per influire sulla rotta della nave che va inesorabilmente a schiantarsi. In ciò consiste l'unica certezza che possiamo avere: moriremo.

In questo senso, se la notte è senza mattino è perché il mattino è ciò che è presente più di ogni altra cosa. Esiste la consapevolezza della morte, perché desideriamo non morire. Solo sotto siffatta mentale luce - nonostante il pensiero non sia strumento sufficiente a farci evitare l'ineluttabile - coincidente con l'atto della riflessione e della scrittura, per quanto entrambe non possano assolvere alla sua eliminazione, pure, sono un baluardo di dignità che per Ermini ci separa dalla pura bestialità, dalla mancata consapevolezza. Il non voler vedere in faccia la realtà spaventosa, ci porta a voler rifuggire, a nasconderci il vero, in una perdita di noi stessi a cui  giungiamo ben prima prima della morte.

Non a caso, delle notturne tenebre condividiamo l'oscurità: la capacità di distinguere  viene meno, il pensiero non puntella nulla. La natura che ci circonda è anche in noi. A nulla servono le categorie quando sappiamo di dover "morire senza che venga riconosciuto un senso alla caduta". Dalla mancanza di senso si generano ombre che intorbidano la nostra vita. Essere persi nell'ingranaggio del processo naturale che ci fa nascere e morire senza che ci sia dato di scorgervi un senso, nemmeno quello del vivere per vivere: ecco che cosa vuol dire per il poeta non avere speranze.

"Siamo risucchiati nei moti vorticosi della materia e della sua irriducibile volontà di annientamento". A ciò nulla si può opporre: ragione, idee, movimento dello spirito, metafisica; più l'uomo desidera più affonda. Desiderare è imbattersi nel limite che non possiamo oltrepassare. In Ermini vi è posto per le carezze, la condivisione, ma sono come una piaga ulteriore, un approfondimento del dolore: anche i nostri consimili muoiono. Una vita senza morte ci consentirebbe di abitare la casa per sempre, eppure non crediamo che in questo modo il dolore si mitigherebbe. Forse, il non detto che essuda da queste pagine, giacché la morte a cui si imputa ogni male, angoscia e sofferenza è astoricamente dato, nel momento in cui viene posta l'equivalenza tra natura e uomo, è che il macigno sulla condizione umana non è sollevabile. Fatta, inoltre, piazza pulita, di ogni illusione, ideologia e fede in una vita ultra mondana.


L'analisi condotta da Flavio Ermini nella sua accecante chiarezza non può non lasciarci intravedere - a partire da affermazioni così assolutistiche sull'infelicità, il dolore, l'angoscia e senza possibilità di remissione - lo squarcio di un ulteriore velo, forse distruggendo anche l'ultimo rifugio, appiglio a cui votarsi. Se morte non esistesse, come sarebbe "vivere"? Se non dovessimo morire, vivere avrebbe maggior senso? 

                                                                               Rosa Pierno