Giuseppe Santomaso (1907-1990) "Vite segrete", 1958
Ritrarsi e narrare
di Mario Fresa
C’è il senso di un’obliqua alterità e la sensibile eco di una lucida, raffinata sprezzatura in questi nuovi testi poetici di Giacomo Cerrai: essi appaiono immersi in un’atmosfera tutta brumosa e anfibia, nella quale gareggiano, alternandosi o convivendo, un’attitudine alla descrizione pura degli eventi e una prospettiva divagante ed enimmatica, tesa al nascondimento e all’elusione del soggetto che pazientemente registra lo schiudersi della realtà osservata. La narrazione-descrizione si fa essa stessa, allora, straniante e sospesa, nel segno di una continua trasfigurazione, misteriosa e mercuriale, di colui che guarda e di ciò che è guardato: una trasfigurazione nella quale, tuttavia, l’epicentro dell’osservazione digrada a poco a poco, e poi sfugge e si ritrae, infine moltiplicandosi e disperdendosi in una dimensione plurima, fitta di specchi e di rifrangenze che spingono l’occhio ad avanzare con movimenti liquidi e ingannevoli.
L’io non si appartiene più, e l’esperienza dell’analisi e dell’indagine degli eventi si fa remota e disorientata: sempre meno afferrabile e comunicabile, cioè, e sempre più corrotta, e corrosa, da una molteplicità di sensi che mira a una assidua trasmutazione del soggetto indagatore; così, l’enunciazione polifonica della poesia di Cerrai giunge, elidendola o scansandola con incessante sollecitudine, a disgregare la possibilità di individuare o di riconoscere una epistème fondante e rassicurante, col risultato di insinuare, nel gioco della scrittura, una costante idea di auto-esilio, di perdita di sé e di impermanenza dell’io. Si chiarisce, perciò, la posizione di colui che scrive: spogliato del greve peso dell’autorialità, egli si dà alla macchia e si ritira nel bosco, siccome la figura del Waldgänger ritratta con acuta maestria da Ernst Jünger in un celebre suo trattato. Il poeta, dunque, volendo scardinare se stesso e scegliendo, ora, di auto-bandirsi, confuta e dismette, a grado a grado, ogni miraggio di certezza assoluta e ordinatrice: ed è per questo che le sue parole si muovono sempre ai bordi di un centro incalcolabile, trovandosi, senza sosta, fuori di sesto o fuori quadro: quasi come in una sorta di ansiosa, incontenibile sfasatura dello sguardo, o nella vertigine di un equilibrio tanto precario, quanto pericoloso; sottraendosi, così, con sagacia, al destino di crepuscolare immobilità cui spesso è destinata, per sua natura, la stessa riflessione poetica.
Giacomo Cerrai, inediti da
“Luoghi scarsamente popolati”
calligrafie mutate nel corso del tempo
c’era una “o” così rotonda da commuovere.
non era più di nessuno, spossessata dal tempo
come altre vocali circoscritte in esatte colonne
in quadri in righe d’un ordine costituito
precisamente inclinato precisamente allineato
protese verso un orizzonte di nuvole e d’idee.
Una rotondità di frutto futuro, e libero
di costituirsi in parole forse preghiere
forse versi d’una brillantezza sconosciuta
o in quella promessa che l’avrebbe innamorata.
La rotondità dell’oculo, persa, come d’un cielo
scolorato, soprattutto speranza strappata, vista
dal fondo d’un ipogeo di scritture a perdere
che variano nel corso del tempo, variano
perché l’immobilità e la pace
sono solo della pietra indifferente.
(feb. – mar. ’15)
Da “Luoghi scarsamente popolati”
avantgarde
(de tout cela il faudra tenir compte)
appare a volte un’onda che rigetta indietro
tentativi d’una approssimazione.
Si conosce il rischio d’una levigata ritrosia:
a voler aderire, ad afferrare
un rotolìo di ciottoli smarriti,
una indistinta collocazione nel mondo
valigia smarrita volutamente
voci che risuonerebbero anche se
il soggetto fosse inutilmente confinato altrove,
solo il suono come una mistificazione dell’aria,
come colori che persistono anche al buio,
o forse ruotano con tutto il resto
forse suonano come tutto il resto
dicono no e no e può essere
in questo ritrarsi indifferenti in questo
acido accostarsi tanto quanto
una lontananza uguale e contraria.
Essere o non essere in frammenti
è un avvicendarsi di ruoli oggetti
la penetrabilità dei corpi
l’ipostasi di una coscienza in fuga
fuori dal cono di luce individuale
fuori dall’ombra di tutti
fuori dal paradigma, distanti
e con poca memoria, poco
da raccogliere per scritto
(da dire) (da fare) (da anteporre)
(ott. – nov. ’15)
post-post
(et de cela aussi, il faudra)
cosa asserisce un cielo grigio?
niente che non vi si iscriva: eppure asserisce
il riflesso d’una frase fatta
con buona pace di chi ricerca una religione
un a senso della vita un semema per quanto
incomprensibile
(e buon pro gli faccia)
mentre uccelli seguono una direzione in perfetto ordine
scrivono sull’ardesia del cielo una v vibrante
auspicio qualsiasi aporia d’un umore
a privativa
- nel migliore dei casi -
di quel seme stesso
daccapo
crepuscolare
(nov. ’15)
da “Soggetti”
soggetto due
(origine del design, love)
lei vorrebbe risposte è il solo dono che attende
e sinecura e garanzia lifelong al di là del bla bla dei primi corteggiamenti
di cambiarlo in un modulo abitativo riempire le stanze di roba
e parecchie risate – quelle sì, indispensabili - semmai componibili
senza interventi esterni o brugole.
Una cosa insomma assemblata con molta passione pur con alti e bassi
che danno peraltro una certa idea di movimento orgonico
e un passar di giorni condensati in rientri a casa ad ore fisse ciao
e buste di cellophane colme di lavori secondari d’una femminilità intrisa
e forme espresse in un susseguirsi di accostamenti in piena notte;
ma non è questo il punto lei vorrebbe risposte sulla trasformazione del corpo
nello spazio prescelto nella vita al terzo piano nei silenzi dei metri quadri
arredabili da un’identità plurale noi noi con colori adatti all’ambiente
e qualche certezza tipo mio mio un possesso cioè non catastale
una bellezza adagiabile in un giaciglio adeguato e consacrato all’uopo
e una certa propensione all’ascolto razionale ed estetico
anche ad ora tarda (distratte riviste fashion in contenitori di polimetilmetacrilato 1
forniscono allo sguardo una fuga)
mentre la stanza si anima di bagliori di figure in movimento grigie.
Lei vorrebbe il tempo onesto e sufficiente
all’usura dei legni dei segni dei simboli la giusta
patinatura che significa che il tempo fu clemente sulle cose e sugli incastri
senza brutte sorprese come un intreccio di linee pure e funzionali
e stanzette ordinate e immote nell’assenza d’echi di passi incerti e petulanti
che verranno a maturazione certo a tempo debito – un’altra forma come un lascito –
a Dio piacendo.
Lei vorrebbe mentre osservava con la coda dell’occhio un profilo con pochi tratti salienti
c’è qualcosa di plastico in te? si chiedeva nelle penombre odorose di cera
mettendo in conto qualche disillusione un difetto nello stampo una crepa
- si capirà strada facendo, immaginava – con lo stress
dell’utilizzo costante e quotidiano
ma in fondo quel che conta è la serenità (può esserci parola più allopatica?) perché
la vita si conta a panettoni diceva suo suocero settantacinque circa
la vita è una soap palatale diceva mamma.
1 forma essenziale e pratica, oggetto che può essere collocato con facilità in ogni ambiente (documentazione fornita dal produttore)
(mag. ‘15 - mar. ’16)
destinatario sconosciuto
la qualità eccellente di quel silenzio bianco,
del foglio opaco tante volte descritto come un campo arabile
assomiglia invece a una pazzia impossibile da guarire. Difficile dire
tra quali punti delle due dimensioni fissarti per sempre con un tratto
tirare d’un segno il momento in cui ha perso il suo senso maturo
ciò che era possibile scrivere.
Ora chi legge questo scritto non ha titolo e non importa ne abbia.
Sembra per lui per tutti una lingua accadica, una Ur lontanissima,
e il silenzio è un disordine, una macchia.
Ma la pazzia resta,
si prosegue.
(apr. ’14)
FINES
oltre la parete le voci dicono qualcosa che fluisce, e non partecipa.
Non è corrente, non trasporta, lascia solitario.
Il costante ritardo d’altre parole crea bocche vuote un silenzio retrogrado.
Oltre la parete si può solo immaginare ed è difficile che tipo di vita.
L’alternativa è nel ramo l’ombra percossa sul vetro un’anima di vento e clorofille
un’agitazione sur place di pensieri indisciplinati.
Questa reclusione volontaria è un limite costipato d’immagini
domesticate immodificabili da una immaginazione arresa
e qui finisce la terra ed anche il sogno
se si smette di sognare di zittire la voci di innalzare le braccia come
a un libro aperto poggiato su un ripiano troppo in alto.
(lug. ’15)
giustifichi il tuo esistere
il tuo passare nella carne a forme libere
senza elogi
qui
una metamorfosi che la prossimità alimenta
in migliaia di riflessi, nelle stanze.
Tu guardi ad un punto equidistante
tra cielo e terra,
ed è una preghiera, forse. Io
non credo alle rime, solo
a qualcosa che mutando
muta la coscienza
che tu sei qui
come un componimento.
Per me l’adattamento
a qualcosa che muta
è una lotta in versi contro l’estinzione
dare un ritmo a chi amo, come
- oltre il limite –
d’una attrazione di ritorno.
(mag. ’16)
molti modi per dire
molti modi di dire,
degli uni si usa per mostrare
il palmo delle mani
il vuoto o il pieno
o un ciottolo dorato per le gazze fanciulle,
degli altri per nascondere
sul dorso le cicatrici o i segni
di denti d’amanti o d’animali.
Come la bocca:
l’assente o il presente trapassato
l’attonita cerchia delle labbra
il silenzio dei lupi
o la canzone di chi dice o disse
la parola che richiama indietro
chi se ne andava.
C’è un modo per dire, certo,
nell’infinita varietà dei verbi
un modo possibile, un mondo
nelle voci che articolano voci
nei respiri che danno respiro,
che il dire è l’unico
per quanto incerto modo
di salvare il salvabile.
(nov. ’13)
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