Il silenzio e
la paura determinano l’atmosfera in cui i sogni hanno luogo, non come qualcosa
che salga dall’inconscio, ma come qualcosa di concretissimo, di cui il corpo si
fa termometro e che, appunto, corre sottopelle, come recita il titolo della
silloge di Stefano Iori del 2013. È di tutta rilevanza che sia la
consapevolezza a creare la scena in cui il sogno, a occhi aperti, naturalmente,
sgorga: “vortici lenti / di sciamanti traversìe / avvolte da alghe di mare”. La
scenografia prevede, nelle note per la realizzazione, anche la scansione di un
tempo lento, dolce, senza scosse, che avvolge nelle sue spire rallentando il
respiro. Dal corpo non si scappa. Niente di mentale in assoluto sotto il sole.
Assistiamo a
varie prove: l’allestimento scenico determina un particolare impulso
percettivo/emotivo: oggetti determinano reazioni soggettive. La scena potrà
dunque essere caratterizzata da una finestra su cui si osservano le gocce di
pioggia scorrere sulle incrostazioni delle precedenti oppure la descrizione di
una casa al terzo piano o di una zanzara. Da qualsiasi cosa il poeta si diparta
ritorna al sé, a un soggetto che si ritrova, che si riconosce. Poiché crediamo sia questo il cuore pulsante
della raccolta, il moto di esistenza che il soggetto riceve dall’esterno, in un
dialogo unilaterale e strumentale che mette in luce l’atto di disvelamento
fondamentale. Operazione certamente in disuso nella gran parte della produzione
contemporanea, ma di cui non si può non riconoscere l’importanza, anche sullo
sfondo di certa filosofia francese, si pensi a un Barthes o a un Derrida che
lavorano, invece, per il suo annullamento.
Il soggetto è
l’unica cosa che abbiamo e nonostante ciò sappiamo che è mutevole e
proteiforme, anche in senso negativo, cangiando come pelle di
camaleonte. L’io con cui abbiamo a che fare è incostante e infido eppure
è con lui e su di lui che bisogna lavorare per costruire il proprio progetto
d’umanità: “Mi vedo sfocato sul lucido metallo, / come un’ombra lontana, / e ciò mi turba ogni volta”.
Ma scendiamo
nel dettaglio del lavoro compiuto da Iori per scoprire più da vicino le
caratteristiche di ciò che dissotterra/costruisce. Sappiamo benissimo che il
soggetto è una creazione culturale e per questo è determinante comprendere ogni
volta che tipo di definizione o utilizzo se ne tragga. Lo ricaviamo
direttamente dalla voce di Iori: “Così abbandono / l’ultimo appiglio / e frano nel cielo
(buio), / sperando di capire, / sperando di ritornare, / con voglia di
rinascere / oltre l’orrore /del pensiero mutilato”. Ecco, c’è subito da
recepire che Iori pone il soggetto in relazione ai suoi limiti, ai limiti della
specie. In questo senso potremmo affermare che, lontani dal lirismo, siamo
nella sfera di un’interrogazione etica che coinvolge il destino umano.
A questo punto
si può collocare la malinconia, il tempo immobile della riflessione, la stasi
determinata dallo stallo conoscitivo (“Gioia malinconica / che piange sorrisi”)
non come oggetto tema, ma come portato di una consapevolezza: l’uomo è chiamato
a rispondere dei suoi atti, degli atti storici, degli atti collettivi e di
fronte a essi il singolo si sente inane. Tuttavia,
in ogni caso, rispondere è atto dovuto, atto responsabile. Sentire che ci si
deve attivare è appunto ciò che configura l’atto etico. Così come a fare da
contraltare alla pienezza dell’angoscia sta una volontaria disposizione alla
leggerezza, alla speranza determinata proprio dal porsi il problema: “Quel
minuto bagliore /che viene puntuale / a scandire lieve / l’avvio di giorni”.
Rosa Pierno
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