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venerdì 6 dicembre 2013

Jacques Derrida “Memorie di cieco” Abscondita, 2010

Partendo dalla proposta offertagli dal Louvre di imbastire una mostra con i materiali del museo, Derrida, in Memorie di cieco, Abscondita, 2010,  ha individuato un tema che è quello del vedere, che nel tipico stile derridiano ingloba necessariamente anche il non vedere, anzi la totale cecità. Sui punti di tangenza fra visibile/invisibile, disegnare/scrivere, egli finisce per tracciare un percorso che è anche linea di accerchiamento, linea mai chiusa, sempre svolgentesi. Decostruzionismo, infatti, starebbe per questo tenere incessantemente aperta la questione, creare una falla nei concetti, farli entrare in conflitto, miscelarli.

Ed è con questo armamentario che il filosofo francese compie scorribande intorno all’immagine, ma il lettore inevitabilmente avverte che i quadri, per il filosofo francese, appaiono sempre come originati da un testo: mito, storia, narrazione biblica e che questa promiscuità iniziale, che non può essere obnubilata, procura anche una inevitabile dipendenza o gerarchia fra le diverse forme espressive. Tant’è che ci si potrebbe chiedere dov’è finito il portato autonomo, la differenza tra testo e immagine. Nonostante Derrida insista sul fatto che l’atto del tracciare è comune a entrambe le attività, pure riconosce che il disegno necessita di un’abilità diversa. Ma qui si ferma. Assolutamente consapevole del fatto che il disegno inevitabilmente tiri in ballo la rappresentazione, la nomina soltanto, ma non la scava, non affronta la questione posta da Platone.

Crediamo che la proliferazione incessante del senso a cui si assiste in queste pagine nate dall’osservazione di immagini,  occasione senza la quale quei plurimi sensi non sarebbero stati intercettati, se è senz’altro originata da un problema interpretativo scaturito  da un’opera visiva, resta, però, come una superfetazione intorno e sull’immagine, come una scalata sugli impervi versanti o una discesa negli inferi di qualcosa che non si lascia in nessun caso ridurre, di cui non si possa venire a capo e forse ancor di più dei concetti quali verità e giustizia. Crediamo che proprio nell’abitudine della pratica filosofica di estrarre a viva forza o anche in maniera impalpabile concetti dalle opere d’arte si ottenga la più cocente disfatta della filosofia che di tutto vuol rendere conto: anche dell’invisibile. Ciò che notiamo è che, a tratti, le pale del mulino sembrino girare a vuoto: le associazioni, le analogie, le digressioni, i giochi di parole paiono accanirsi contro una muraglia e ciò ci dice soltanto che a volte si perde il normale senso delle cose, proprio cioè la lezione che il suo amatissimo Ponge ha invece voluto trasmettere attraverso i suoi testi poetici. 

Le descrizioni delle immagini sono solo un puro pretesto: Derrida vi si appoggia per spiccare il volo: sono proprio esse che gli consentono di agganciarsi ai testi di cui le immagini si pongono come rappresentazione. Certamente si resta nell’ambito delle metodologie iconologica e iconografica, le quali non sono certo metodi esaustivi per dar contro del fenomeno artistico, visto che restituiscono solo alcuni aspetti di un’opera d’arte. Ciò non toglie alcun valore all’operazione di Derrida, ma naturalmente la situa in un contesto di per sé limitato, anziché aperto ad oltranza, anzi livellante quando pretende la pura identità.


                                                      Rosa Pierno



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