Il testo La ricerca dell’identità, pubblicato da Pagine d’arte nel 2001, era stato in realtà scritto nel 1974 in occasione di una mostra ordinata da Gianfranco Bruno al Palazzo Reale di Milano che, a suo parere, individuava una presenza che percorreva l’intera arte del Novecento: le problematiche della realtà sociale e contemporanea. L’arte, insomma, come pratica capace di anticipare e svelare i problemi cogenti della società.
L’ordinamento della mostra era l’occasione per Gianfranco Bruno di cogliere al contempo anche gli aspetti paradossali di questa capacità dell’arte di porsi, e proprio mentre essa sembrava precludersi ogni diretta raffigurazione del mondo, come manifestazione delle sue energie più profonde. In particolare, il problema dell’individualità sembrava radicarsi nel problema della libertà e quindi in problema politico e, pertanto, la mostra andava a evidenziare che la pittura, muovendosi da un profondo accertamento delle condizioni della vulnerabilità umana, si rilevava centrale per i problemi del presente.
Bruno, nella sua analisi, inquadrava il problema dell’identità isolandone due aspetti: quello psicologico e quello sociologico. La mostra partiva dagli inizi del XIX perché il critico d’arte ravvisava proprio nell’attuarsi del processo di industrializzazione la crisi dell’identità. In tale periodo, l’esperienza dell’immagine appariva un veicolo privilegiato per la ricerca della nuova identità, consentendo l’”accertamento di un hic et nunc esistenziale, e come realizzato, in quanto altro da sé rispetto al soggetto operante”. In aggiunta si offriva come strumento opponentesi “alla logica cristallizzata dei sistemi sociali”, proponendo ipotesi di realtà alternative.
Da Théodore Géricault, il quale individuava negli emarginati una categoria opposta a quella degli integrati, passando per Munch con l’istituzionalizzarsi dell’angoscia e della follia che s’andava a integrare nel quadro di “una strutturazione sociale rispondente alla logica degli interessi di classe”, l’opera di Van Gogh veniva assunta come emblema per l’“impossibilità di armonizzare l’anelito di verità assoluta con la struttura di un mondo basato sull’ingiustizia e sulla convenzione”, e cercava “la sua realizzazione nei modi di una completa dedizione sociale”.
Proseguendo nella sua investigazione, Gianfranco Bruno citava come stazioni ineludibili in questo racconto le opere di Kokoschka, Dix, Grosz e in particolare di Klee, poiché le opere di quest’ultimo indicano un ritorno alle origini, alle forze primarie della creazione, al fine di cercare una “identità assoluta tra segni ed esperienza”. E senza trascurare il disegno infantile e la grafia dei malati mentali, Bruno si riferiva anche alle opere della Barnes come esempio in cui “la malattia mentale non è che un accidente che perde significato di fronte al loro essere espressive di una condizione umana”. Se, infatti, la malattia mentale è un ‘incidente’, non lo è “la creatività persistente nello stato di crisi” che annulla i confini che artificiosamente si pongono tra ‘sano’ e ‘malato’”.
Terminando il suo excursus con De Kooning, Wols, Bacon, il critico ribadiva che ”male sociale e male psichico sono gli estremi entro i quali si dibatte in una disperata ricerca d’identità“ l’uomo d’oggi. Il diritto dell’uomo a essere se stesso venendo dunque a coincidere, per Gianfranco Bruno, in un problema di coscienza politica avvertita, in un problema di libertà, appunto.
Rosa Pierno
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