Da sempre assiduo studioso di una
letteratura che fa dell’assenza e dell’indefinito il suo oggetto di ricerca,
Antonio Prete, nel suo ultimo libro Meditazioni
sul poetico, Moretti&Vitali, 2013, conduce la sua analisi quasi assimilando
il linguaggio con cui le opere analizzate sono costruite: il suo stile,
difatti, segue dappresso le opere studiate. Per ogni lemma che vale come
emblema, realtà figurata, “iconica impresa”, egli sviluppa la rete di sinonimi,
attirando concetti limitrofi, ampliando fin dove possibile il senso, cercando
di tenere assieme quanto più riferimenti semantici sia possibile. Questo gli riesce perché la letteratura si distingue
dalla filosofia proprio per la sua capacità di reggere un discorso teso fra
diverse aree semantiche, tra diversi livelli, senza incorrere in errore, anche
se naturalmente si accede, per tale via,
alle aporie. Ma le aporie anziché essere temute (come avviene in campo
filosofico) sono qui tenute aperte per evidenziare che qualsiasi risoluzione di
esse equivale a una perdita. La poesia mostra, pertanto, una fioritura aporetica,
mentre Prete si fa carico di una critica che la enuclei con assoluta
delicatezza al fine di conservare la ricchezza semantica che emerge attraverso le
possibilità offerte da un’espressione linguistica carica di sottintesi e
rimandi, di evanescenze e di diffrazioni.
Prete è esplicito nei confronti del
rapporto poesia-pensiero: il pensiero della poesia pretende un legame con il
visivo, l’esistente, il sensibile e con la lontananza, l’impensato. È una
pulsione alla rappresentazione, “una volontà del pensiero: la volontà di
fingere l’infinito” e dunque: “Il disegno dell’infinito è solo la lingua che si
tende verso la rappresentazione dell’infigurabile”. Da cui si ottiene una
diversa concezione del pensiero rispetto a quello della filosofia
(esclusivamente logico e dialettico) e lo studioso salentino ne disegna una
vera e propria pianta con i nomi di Leopardi,
Celan, Bonnefoy, Rimbaud, Mallarme, Jabès, Baudelaire, Char, ma quasi secondari
rispetto all’evidenza del lessico utilizzato da questi poeti e del campo
metaforico da loro dispiegato. Si avrà allora il nulla, il vuoto, il deserto,
il silenzio, l’esilio, la lingua, il nomade, l’abisso, l’oasi, l’altrove,
l’assillo, il fiore, la madre, il dolore, anche campeggianti nei titoli dei
paragrafi come insegne che si incaricheranno di disegnare relazioni e tangenze.
L’area si mostrerà fin da subito ampia e stratificata, con molte zone sovrapposte
e sempre assottigliata ai bordi, come richiede un senso che non può mai essere
definito o ieraticamente infilzato.
Tuttavia una questione centrale è
rintracciabile ed è il rapporto tra astratto e sensibile che si rintraccia
nella lingua. In questa frase pulsa il pensiero platonico e aristotelico, con
la questione della mimesis e con la
trasformazione della realtà ad opera del pensiero. Ora, la tesi di Prete è che
questo passaggio sia visibile in maniera preponderante e appaia come vivificato
nell’opera degli autori da lui citati, poiché in essi rimane come la spoglia
del sensibile e pare di vedere, appunto, il momento in cui spogliandosi delle
sue particolarità assurge ad essenza. Sarà proprio questo passaggio a
determinare la tendenza all’assottigliamento, alla trasparenza, diremmo, del
senso, quel punto in cui il senso incontra il suono non come coincidenza, ma
come esitazione, varco, aporia. E’ chiaro che la ricerca dell’inespresso, in
cui si può dire consista questo assalto che i poeti portano al linguaggio trova
forse la sua realizzazione nell’aporia: il poeta è in esilio dal senso, ma non
demorde dal raggiungerlo. Sfida, naufragio, distanza, nomadismo, esilio,
perdita, soglia completano la pianta di cui parlavamo. “Fare della smagliatura
del discorso (aporia) una sovversione dell’ordine del linguaggio e dell’ordine
dei rapporti” è ciò che trasforma il vuoto in parola. Ma attenzione, non vi è
mai coincidenza, semmai, tensione, lavorio costante, senso che non si deposita
mai.
L’accostamento di Eros e Poiesis
conduce Prete a scavare il tema dell’amore, e inevitabilmente del corpo, quasi
una seconda pianta con le sue stazioni, le sue tappe, i suoi ricorsi: dal Simposio di Platone, passando per
Marsilio Ficino fino a Baudelaire.
Oppure, come un filo rosso che percorra l’intero saggio, il tema della
visione, “l’oltrepassamento dell’iconico” assieme a Baudelaire, Valery,
Bonnefoy, alla ricerca di una poesia che muova “dall’opera grafica, dalla
scultura, dall’affresco, dalla caricatura, dal quadro, dall’incisione” per
seguire le evoluzioni del linguaggio da una forma all’altra, ove il figurativo
se è inteso come una sorta di seconda natura è allo stesso tempo anche
artificio. Lì dove nessun concetto può fermarsi, sedimentarsi, risiede il senso
aperto dove l’immaginazione “ha il potere di dislocare il vero nell’universo
del possibile”, cioè di indicare l’altrove come propria meta. Naturalmente,
sempre in questo suo viaggio, Prete, costeggia la nostalgia, la malinconia come
altri luoghi di elezione dove il fantasma di un linguaggio dell’essenza sia
possibile: come dire il luogo stesso della poesia.
Rosa Pierno
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