Computare gli elementi presenti in un
quadro in maniera polita, ottocentesca, con
parole che hanno la lucentezza dell’argenteria in una cristalliera e che si susseguono
in una sequenza verificabile visivamente, perché ogni testo è associato al
quadro che si sta descrivendo, dà una sensazione di falsa sicurezza, sebbene del
quadro vengano descritti elementi effettivamente presenti, i quali danno luogo
a una sorta di narrazione, tutta aderente al piano psicologico. Infatti,
d’improvviso, lo scarto, lo scollamento straniante e la pagina diviene il luogo
di un dispiegamento concettuale che si situa sul limitare del filosofico e del
letterario, non più del visivo. Comprendiamo ora che quella descrizione, così
aderente all’immagine, era servita solo a caricare la molla, che, libera
dall’ingranaggio, sta liberamente correndo.
Lo scarto ci fa comprendere come Marco
Furia utilizzi il quadro per sperimentare il modo in cui i sedimenti culturali e conoscitivi tesaurizzati
possano essere riattivati in forma creativa attraverso un meccanismo visivo che
proprio con la parola ha una relazione di estraneità. Il coraggio con cui Furia
affronta il quadro è dello stesso grado della libertà che si concede. Siamo in
presenza di uno svelamento. Il processo creativo letterario si espone nella sua
arbitrarietà rispetto al referente (e a un referente di tale riconosciuta
tradizione: da G. Tiepolo a Turner, da Canaletto a Cézanne) e regge l’impatto.
La strada è spianata, ora il legame lo si deve rintracciare nello sviluppo
argomentativo che ha le sue regole propriamente letterarie, ma avulse da un
binario tracciato. Il testo infatti mostra autonomia dai generi canonici (prosa
d’arte, critica d’arte). Il lirismo delle definizioni è come raggelato dalla predella
concettuale agganciata dopo avere abbandonato il terreno della superficie
pittorica, proprio mentre le argomentazioni sono rivolte a divellere i concetti
per aprirli alla molteplicità del senso. “Non è facile dipingere l’attimo fugace,
ma non meno difficile è ritrarre
l’attimo che contiene tempo, che
intenso perdura”.
Anzi, meglio, il testo letterario di
Furia partecipa di tutti i generi. Compie evoluzioni nel suo farsi e il
passaggio al ragionamento filosofico si tiene affianco il buon senso,
l’attaccamento al percepire: “Un’intensa sobrietà, ovunque diffusa, non esclude
alcun singolo elemento che, individuato con chiarezza, trova nel dipinto la sua
giusta collocazione”. Una larvale distanza non colmabile, dicevamo, resta tra
il referente e il testo che da esso sarebbe originato, si potrebbe dire
addirittura che la posizione del periodo, relazionato ai singoli quadri, sia
indifferente, quando non si tratti ovviamente della descrizione del quadro: “La
coscienza di un uomo può raggiungere dimensioni davvero immense e il gesto
cosciente non soltanto rappresenta, soprattutto è”.
Basti questo a testimoniare quanto il
testo si ponga in maniera autonoma rispetto al pretesto che gli ha dato luogo, pur
mantenendo sempre una relazione ambigua con esso. Una sorta di assemblage di aforismi di natura spesso
etica, indicanti un orizzonte più ampio dell’occasione pretestuosa del
godimento di un’opera d’arte: “Vivere un’immagine affinché altri, anche a distanza di secoli, la vivano a loro volta:
un dono che davvero non ha prezzo”. Siamo in presenza di un sistema in cui la
saggezza è l’insieme che contiene gli altri insiemi e gestisce forme di vita,
pretendendo per sé un ruolo fondante. “La vita propria dell’opera d’arte non è
mai fine a se stessa, poiché si offre al rapporto con l’altro, allo scambio”. Pensiamo,
dunque, che per Marco Furia sia centrale la considerazione del dono e della
relazione con l’altro da sé, quello intraducibile in altra forma e che gli fa
dire: “L’arte, quella vera, non si dimentica mai degli altri” soltanto in vista
di quest’altro orizzonte. Va a configurarsi in questo modo una visione
dell’arte collegata alla conoscenza e perciò al destino dell’uomo.
Rosa Pierno
Nessun commento:
Posta un commento