Carla Stroppa disegna due fuochi con
il suo ultimo lavoro Fantasmi all’opera
Moretti&Vitali, 2013. Disegna due fuochi nell’intento di circuitare nella
medesima figura l’intera sfera dell’arte. Disegna due fuochi mentre si
riferisce ai disagi, alle dissociazioni di un individuo rispetto a se stesso e
al suo ambiente. Il passaggio non è di facile realizzabilità, giacché, se a
volte si possono dare nella persona sia il normopatico che l’artista, non necessariamente
l’arte è risposta al disagio, né è possibile procedere all’identificazione
dell’effettivo raggiungimento della forma artistica nell’ambito della
psicanalisi. Lo indica la stessa autrice quando rileva che per Freud “all’opera
letteraria non viene riconosciuta quella libertà e autonomia di ispirazione che
fa di lei una creazione originale con valori intrinseci, non un sintomo”. Anzi,
in Freud, il personaggio letterario è visto come esemplificazione tout court “di un aspetto patologico
della mente del suo autore”, di un caso clinico, ove tutto, di fatto, appare
sempre spiegabile e senza resto, mentre per Carla Stroppa, psicoanalista
junghiana, non ha nessun senso cercare di ricondurre l’arte “nella “via
maestra” della psicoanalisi”. Se relazione si può tessere sarà quella di
rintracciare in tale “dono poetico”, ciò che “oltrepassa qualsiasi sistemazione
teorica”.
Più precisamente, per Carla Stroppa si
tratta di ricondurre alla polisemia, alla molteplicità delle interpretazioni la
lettura dei sintomi, al fine di rispettare proprio la creatività da cui essi
nascono. Punto centrale di tutta l’analisi della psicanalista è quello di
ricondurre “il vero e il falso, la realtà e la finzione” alla loro
inestricabile complessità e dunque alla ricchezza del loro significato
simbolico, strada che è, appunto, percorsa da Jung, il quale “vedeva nell’opera
d’arte la traccia di un’eccedenza creativa e spirituale capace di pescare nei
meandri più oscuri e lontani della memoria della specie e nello stesso tempo di
spingersi oltre per creare nuove forme, nuovi linguaggi, nuovi simboli”.
L’obiettivo perorato da Carla Stroppa è quello di insistere sul ruolo
fondamentale dell’immaginazione, definendo il normopatico come colui che non
vuole sapere nulla del suo mondo interiore e non è conscio di vivere “una vita
impersonale e senza afflato”: in una sorta di “morte in vita che cova nel suo
intimo l’ombra amara della radicale infelicità e la rigidità della difesa
costante dal rischio di soffrire”. Di contro è l’estasi, la felicità, la
capacità di comprendere e di affrontare, le quali si agganciano con le facoltà
immaginative, che divengono vere e proprie “bussole del profondo”, connessioni
di senso, possibilità concrete di ribaltare le situazioni psichiche.
L’inconscio non è, pertanto, solo un
serbatoio ribollente le cui pulsioni devono essere contenute, ma è soprattutto
un bacino di energie da cui attingere. Nell’indicare la sfera immaginativa come
risorsa nell’analisi, la psicoanalista junghiana sostiene il suo discorso con una messe di
citazioni ed esempi ricchi quanto adeguati, ove la letteratura, la fiaba, il
mito più che fare da sostegno alla teorizzazione psicanalitica, vengono
convocati in quanto esemplificazioni di azioni e soluzioni possibili, divenendo
centrali perché terreno di coltura delle risorse umane, quelle afferenti al
proprio sé in contrapposizione con i modelli omologati della società. Con
esempi lampanti, evidenzia come la presenza dei fantasmi interiori (fantasmi
erotici, fantasmi coercitivi e impositivi), possano essere addirittura
cavalcati per dirottare la produzione di senso verso una più consapevole
conoscenza delle dinamiche del sé, “in un processo di trasformazione”, se non
di normalizzazione, che può condurre verso un recupero delle proprie potenzialità.
In ultima analisi: “dall’egocentrismo e dai conflitti nevrotici che isolano e
lacerano il filo della grande tessitura umana, dal dolore annichilente,
all’amore per l’altro e per la vita in quanto tale”.
Carla Stroppa indica che se non è
possibile un integrale recupero della disponibilità di se stessi, delle proprie
capacità ed energie, è anche vero che questa non è che l’unica strada a
disposizione per accedere a un’esistenza
soddisfacente. E in questo senso è invero avvincente scoprire insieme all’autrice
le potenzialità che si sprigionano dalla sua analisi. Infatti, il metodo messo
da lei in atto procede attraverso non un recupero della razionalità, ma un
attraversamento dell’illusione, del fondo magico della mente carico di mito, di
magia, di immagini, in una sola espressione: del processo di simbolizzazione,
che poi è il medesimo attraversamento compiuto dalla parola poetica. In ogni
caso nella ricerca di quella mobilità e di quelle strategie differenzianti, non
sistemiche, che aiutano a comprendere il nostro situarci nel mondo e ci aiutano
a mettere a punto il modo in cui
possiamo abitarlo al meglio.
Afferrare dunque le opportunità
creative vorrà dire afferrare la chance
per non cadere nel patologico quando un sistema razionale diviene oppressivo, e
anzi “per intraprendere quel volo trasformativo intrinsecamente creativo che
avrà come fine non la netta distinzione tra realtà e fantasia, come auspicava
Freud, ma al contrario la sua sana, intrinseca – in una parola: poetica – riconnessione”. Sarà la medesima porta “che
ha segnato l’entrata nel labirinto” a segnarne anche l’uscita, poiché ancora
con le medesime forze si dovrà attraversare l’ignoto o l’esperienza dolorosa e
ricostruire “il proprio valore e il proprio posto nella scena”. Ma questo ovviamente
vale per tutti, per tutti essendo importante “procedere oltre l’alienante
conformismo dell’indifferenziazione che spegne ogni scintilla di soggettività
creativa”.
Rosa Pierno
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