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sabato 29 ottobre 2011

Luciano Canfora “La natura del potere” Laterza, 2009

Pubblichiamo, in occasione dell’assegnazione a Luciano Canfora del Premio Feronia Città di Fiano 2011, XX Edizione, per la sezione “Critica militante”, una nota su uno dei libri appartenenti alla sua vastissima quanto profondissima produzione saggistica.




Credere che il potere sia incarnato o “invisibile, inattingibile” offusca la capacità di localizzarlo e individuarne il funzionamento. Non interessa a Luciano Canfora, l’ideale, il concetto astratto dal suo inverarsi nella realtà. Nel libro, “La natura del potere” Laterza, 2009, che parte dall’analisi della posizione politica di Lucrezio per approdare agli odierni dilemmi politici, lo scopo non è quello di effettuare comparazioni tra concetti inconfrontabili (quel concetto di democrazia degli antichi che per essere a partecipazione diretta non ha più niente in comune con la democrazia rappresentativa dei nostri giorni, la quale contempla la equiparazione dei diritti di tutti i cittadini, inesistente nell’Antichità), ma di individuare le forme assunte dalla democrazia, e dal potere in generale, da un punto di vista storico. Canfora, infatti, sottolinea come sul dato in sé agisca sempre il metodo storiografico che quel dato elabora, la posizione ideologica dello storico, oltre alla correlazione analogica che viene attivata tra fatti anche molto diversi fra di loro (la rivoluzione francese confrontata con la rivoluzione bolscevica). Tutte cose che conviene avere ben presenti quando si cerchi di comprendere il fenomeno del potere e la sua rappresentazione. L’esercizio della riproposizione e del confronto ha, in Canfora, proprio questa duplice valenza: riportare alla memoria le scritture storiche alfine di svelare sia i meccanismi che riguardano il potere, sia le alterazioni introdotte da chi interpreta i dati.

La radicalità dell’assunzione lucreziana, per cui il potere è “cosa vuota”, “non prendibile”, “non viene né assunto né dato”, è tale che l’unica cosa che si può opporre è l’utopia. A fare da contrappeso, la frase pronunciata da Pericle  e diretta agli Ateniesi stanchi di una politica imperiale: “l’impero è tirannide, e dall’impero non ci si può impunemente tirar fuori”.  Pertanto, sulla faglia del rapporto rifiuto/accettazione della prassi politica e dei rapporti di dominazione sono possibili esclusivamente le due vie: “non si fuoriesce unilateralmente da una situazione di comando”; al più la si nega tramite il progetto utopistico di Lucrezio.

Il potere ha i suoi dispositivi, di autotutela e di diffusione: durante l’Impero Romano “i tre princìpi – monarchico, oligarchico, popolare” si equilibrarono fino a giungere al camuffamento della “prevalenza del princeps” con “la restaurazione della repubblica” in età augustea, ove si vede che in atto è solo un passaggio di potere “da un’élite all’altra” di cui il popolo è all’oscuro e la cui effettuazione prevede però “l’appoggio, la conquista, l’utilizzo e  la eventuale disillusione delle grandi masse”. Canfora  prosegue la sua analisi con l’obiettivo di chiarire se, anche oggi, l’attuale democrazia rappresentativa non coincida, ancora una volta, con la conquista del potere e, inoltre, da parte di chi e con quali mezzi.

Gramsci faceva coincidere lo Stato con il governo di un capo, con la necessità che si coagulassero intorno a pochi nomi, a uno solo alfine, le aspirazioni delle masse oppresse e riteneva di non ostacolare la formazione di questa adesione quasi religiosa, poiché è impossibile “che il comando non si individui, non si personalizzi”, e giungeva a formulare le due definizioni di “cesarismo progressivo” e “cesarismo regressivo”, tramite le quali distingueva poi capi autentici da capi non autentici (“diametrale polarità tra Lenin e Mussolini”). L’analisi del cesarismo si rivela “terza via” tra regime oligarchico e regime popolare. Il cesarismo è sia apprezzato da Marx sia rilanciato dal fascismo: nella ricostruzione dell’uso di quest’ideologia, il filologo e storico mostra, infatti, come esso sia presente nei totalitarismi di destra e di sinistra.

E’ necessario chiedersi se il tirannicidio interrompa davvero il processo storico e politico che ha favorito il suo sorgere. Canfora propende per il no: eliminare il tiranno “non significa necessariamente spezzare tale sistema, e talvolta anzi significa rafforzarlo” dal momento che eliminato il tiranno sussistono gli interessi del ceto che l’ha sostenuto. Inoltre, la stessa “democrazia ateniese ha avuto bisogno, per legittimarsi, di fare della ‘tirannide’ la propria antitesi negativa e di creare, all’interno di tale mito, degli eroi fondatori”. Fondamentale appare dunque il riconoscimento della “distinzione tra il fatto che dimostra l’inutilità del tirannicidio e “la mitologia che si costruisce su di esso”, essendo, quest’ultima, falsa. Il tiranno “è un’invenzione, una creazione politico-letteraria”, la quale ha dalla sua parte “un pezzo più o meno grande, talvolta molto grande, della società” .  

Naturalmente, Stati forti “non hanno sempre bisogno della ostentazione della forza”. E in questo senso gli Stati sono “ormai quinte teatrali”: “il potere risiede nel più ‘internazionalista’ dei soggetti, il capitale finanziario sovranazionale”. Tale potere è all’opera anche in quella che noi chiamiamo democrazia, esistendo, oltretutto, tanti tipi di regimi democratici quante sono le minoranze “capaci di guidare le maggioranze”.

Tracciato questo quadro, non ha senso fare riferimento a un inevitabile pessimismo nei confronti dell’attuazione di una reale democrazia. Canfora mostra come sia necessario uno studio costante alfine di raggiungere consapevolezza, di comprendere il fenomeno “potere” in tutta la sua complessità. Solo con la conoscenza decade qualsiasi possibilità d’illudersi e di disilludersi.

                                                                                                                  Rosa Pierno

mercoledì 26 ottobre 2011

Edmond Jabès “Il libro delle somiglianze” Moretti&Vitali, 2011


Somigliare, vocabolo chiave ne “Il libro delle somiglianze” di Edmond Jabès, (traduzione di Alberto Folin, premessa di Vincenzo Vitiello, postfazione di Flavio Ermini), non narra di un avvicinamento che tenda al limite dell’identità. Seppure “Dalla sua somiglianza con il libro, al libro della sua somiglianza”, sembrerebbe indicare una finale tangenza in un medesimo punto tra soggetto e libro, tuttavia la somiglianza, la quale s’inscrive nella differenza, non può produrre leggibilità piena né del soggetto né del libro. E “illeggibilità” resta coniugata alla somiglianza per questa via. Tant’è che ““Tu sei colui al quale somigli” ma io assomiglio, ogni volta, a un altro”. Ove nemmeno il soggetto è fatto salvo dalla differenza, dal divenire, rispetto a se stesso. Siamo nel cuore della questione: negare l’essere come qualcosa di fisso, immutabile, dato una volta per tutte.

Interrogazione, racconto, commento sono le strategie messe in atto da Edmond Jabés per sfuggire alle strettoie di una definizione che ha nel nome uno dei maggiori nemici. Sebbene lo scrittore sia inchiodato al libro da scrivere, tale scrittura non consisterà che in un protrarre. Questo protrarre – azione non diluita nel tempo, ma tenuta nel tempo – è anch’esso una strategia: “Chi è padrone assoluto del proprio corpo?”. Si comprende che già solo rispetto al corpo si apre una voragine, che parlare del corpo non è scontato, né facile.

E il tempo, in questo tentativo di adescare i vocaboli che  consentiranno la cattura del senso in divenire (azione, si vede bene, che non potrà mai essere portata a compimento), è come un cursore che rende presente il passato e viceversa consentendo quella promiscuità e quella coesistenza, la quale si mostra maggiormente adeguata alla restituzione di un senso che intercetta l’essere mentre diviene.

“Di libro in libro” è quasi il percorso che si attua su ogni pagina di Jabès con quei magnifici spazi bianchi, che l’edizione Moretti&Vitali ha consentito di amplificare. Si può leggere il libro, o anche solo guardarne gli interstizi, le asole vuote, quell’irraggiarsi del vuoto solo a stento trattenuto dalle ritmiche righe.

Leggere è slegare e riannodare continuamente. Leggere è il nostro legame e leggendo e scrivendo scopriamo il nostro io come  “nodo di corrispondenze”. E scopriamo che la pagina ancora da scrivere è quella da strappare all’eternità. Se anche cogliamo un’eco leibniziano, in cui l’eternità è presa nel laccio del finito, diversamente accade in Jabès, in cui tutto è ancora da strappare all’eterno. E mai se ne potrà immaginare il compimento.

Reiterazione, ripetizione si basano sulla memoria,  e non si dà erranza senza la memoria del perso, della meta da raggiungere. Se il desiderio di voler trovare risposta ai quesiti fondamentali dell’esistenza è un impulso insopprimibile, solo con la resistenza si riuscirà a non cedere a nessuna risposta. Trovare una risposta può voler dire perdere pezzi di verità, frammenti di molteplicità, forme frammiste di divenire.

Nella scrittura che non conosce soluzione di continuità se non nella spaziatura della riga, nei margini della pagine, il senso non si sfilaccia a causa della sua impossibilità di dire: più che un’incapacità, crediamo sia appunto un criterio di sopravvivenza: non credere che ci sia un senso raggiungibile, che dia risposte immodificabili. Il senso stesso allora sarà erranza ininterrotta. Il soggetto verrà a coincidere con la sua azione. Il soggetto erra, come erratica è la scrittura. Il soggetto muta, si adegua, coglie i segni, li accoglie, non li trancia, né li scarta. In questo senso una parola può nascere, poiché viene accolta, amorevolmente curata dal poeta.

Lì dove la profondità coincide con l’estensione e dove uno scrittore “è un’ombra che porta un uomo”, si vedrà all’opera un rovesciamento: pratica che sventra, che sfonda, che apre dimensioni in cui la percorrenza non è lineare, nonostante la bidimensionalità della pagina.

Questo percorso temporale e spaziale serve a tenere sempre ben presente che se “il Mondo si limita a noi”, “Il libro è un momento della ferita o dell’eternità”. E’ come la falla tenuta aperta da un soggetto che nel saldare il proprio legame riconosce la propria libertà e anche il rinnovato legame con quella parte di sé che ha potuto produrre l’innominabile. “Nodo tranciato” e “vita del legame” sono come saldati.

L’impersonalità che Jabès sottolinea: “ per quanto si possa affermare che il libro, di cui lo scrittore è strumento, gli appartenga – è in realtà il libro trasmesso da tutti i libri” sui quali “lo scrittore non ha alcun potere”.  “Opera illimitata”: Nessuna origine individuabile, così come nessuna teoria deve essere a essa sovrapposta. Unico criterio è l’interrogazione.

Interrogazione effettuata con “la parola sorgiva, tollerata, combattuta”, con la parola che “ha preso il nostro posto”, cancellazione compresa. Perché, come dicevamo, il soggetto si realizza non solo con l’azione dell’interrogare, dell’errare, ma tramite le somiglianze istituite dalla scrittura. L’immagine creata ogni volta dalla scrittura è rivelazione della somiglianza. Tra soggetto e universo: tramite la sua proiezione” al fondo di noi stessi”.

“La somiglianza ha tutto da perdere dall’inessenziale. Essa è l’essenziale riprodotto nel circuito delle forme, delle idee, delle metafore e delle alleanze – essenziale conservato dai rapporti tra oggetti e parentele di oggetti”.

A dimostrazione che sono proprio le proprietà del linguaggio a rendere possibile tale interrogazione. Soltanto paradossalmente Jabès ha identificato il raggiungimento dell’identità: “Quando a forza di privazioni, giungeremo a non essere che un punto in tutti i libri, la nostra somiglianza a Dio sarà compiuta”. Esito impossibile che annulla la prospettata riduzione al punto. Peraltro “L’eternità è conflitto di somiglianze”.

Cadono così le cesure tra morte e vita, tra nulla e pienezza dell’essere, tra l’io e l’altro. Ci si apre a “un ordine imprevedibile”, ci si lascia trascinare, certi che non ci si perderà, proprio se si adempie a questa ricerca incessante.  In ogni caso “Quel che è da leggere, resta sempre da leggere”. E questa a nostro avviso può costituire l’epigrafe di questo inesauribile libro, qualcosa che non possiamo non pensare rispetto al lavoro inconcludibile di conoscenza che abbiamo dinanzi. 

                                                                                                       Rosa Pierno

domenica 23 ottobre 2011

Tiziano Salari su “La mela d’oro” di Susanna Mati, Moretti & Vitali, 2009



La mela d’oro  è tutto un’interrogazione sulle grandi parole della mitologia greca, filtrate da millenni di filosofia e di disincanto, ma che si riaffacciano qui inquietanti a chiederci conto delle nostre vite, del nostro destino. ”Quando si comincia a comprendere quale sia il proprio destino, non si può che disperare-perché dietro la sua parzialità (voluta, subita: è uguale) si intravede la forma della Moira”. E la Moira è agganciata direttamente ad Ananke.
L’ANANKE domina inesorabile.. Allora, ci dice la Mati, “obbedire al proprio destino, trasformandolo in fabula, è ricreare  la necessità e il caso come liberi e voluti: rendendoli un  hypermoron”. L’eterno ritorno di Nietzsche, del mordere e sputare la testa del serpente che ti avvolge. Può l’amor fati rappresentare questa salvezza? Su questa scommessa s’impernia la ricerca dolorosa, gioiosa, appassionata di Susanna Mati nelle pieghe del mito, inseguendo la traccia  del pomo d’oro,”da sempre frutto desiderato e problematico, ovverosia critico, o proibito” di un mito che “fruttifica all’infinito”. L’Occidente non fa che inseguire da sempre  quel pomo, e lo insegue tuttora, lungo la sua interminabile agonia. L’Occidente, terra del tramonto. Esperia.  Esperia nel senso di Italia, e soprattutto di Europa, “la alata, l’insofferente, la geniale, l’esaurita”, dove cresce il pericolo, e da cui, citando Hölderlin, potrebbe crescere ciò che salva. E ciò che salva potrebbero essere i frutti promessi da Nietzsche nel suo Zarathustra.  Frutti che possono maturare solo nel tramonto, in Esperia, nella terra in cui “gli dei sono frutti morti”, e questa morte corrisponde al nostro tentativo di “sottrarci alla tragedia”?  Eppure la vita dell’uomo è una ripetizione eterna della stessa tragedia. “Eppure l’uomo patisce allo stesso modo di un tempo la propria caducità; egli non ha risarcito il mancante, il vuoto prodotto lo perseguita, ancora partecipa del medesimo grande patema” (p.20). Niente ha sostituito gli dei morti, se non un grande vuoto e la disperazione. In Hälfte des Lebens  (Metà della vita), Hölderlin ci porta, con un’antitesi tra estate e inverno, a sentire il brivido della scissione  dell’”uno differente in se stesso”, così come sono le facce contrapposte della natura, tra la pienezza e vitalità estiva e il muto rigore del gelo invernale. Da una parte vegetazione rigogliosa di fiori e di frutta, estatica immobilità di un lago, in cui tuffano il capo i cigni nella  sacra sobrietà dell’acqua. Da una parte la pienezza dell’estate, dall’altra il gelo dell’inverno, in cui nel vento stridono le banderuole. Susanna Mati cita il Canto del destino di Iperione: dove avviene la stessa frattura, ma tra mortali e immortali, uomini e dei, tuttavia accomunati dallo stesso logos di Ananke, dallo stesso destino. “Quindi se i mortali dolenti precipitano pesantemente da un’ora a un’altra, dileguando verso un cieco ignoto, tuttavia come misteriosa genealogia, in nascosta solidarietà, appartengono con gli dei alla stessa stirpe” (p.27). E sono morti anch’essi, lasciandoci tra mura fredde e afone dove , im Winde/Klirren die Fahnen..
“Tutte le nostre faccende si legano qui, a noi, venuti tardi e che veniamo presto:usciamo dal fondo e dal tutto e questa uscita si chiama storia, Occidente e mondo, tecnica” (Jean-Luc Nancy). ”Noi ultimi stiamo alla fine, viviamo nell’estremo momento, siamo posti alla frontiera dell’accadere, nell’attimo più giovane”. Sono le prime righe de La mela d’oro di Susanna Mati, che ha il sottotitolo di Mito e destino. Ma che rapporto può sussistere tra noi che “sorgiamo, estranei, inquietanti, da un’apertura dappertutto spalancata che rinvia al non luogo ogni coesione di fondo e di totalità”(Nancy), e “quel racconto tramato di dei, di tragedie, di parole[…]ovvero di verba, di fabulae divine: di estroflessione di luce” (Mati) del mito? .
L’occidente deve accettare fino in fondo il proprio destino, che è ”volere il proprio tramonto, dunque, volersi tramontare” (p.44). La via ci è stata indicata da Hölderlin e da Nietzsche. Il destino che, da un punto di vista esistenziale “è sempre funesto”, il “brutto poter che, ascoso,  a comun danno impera” del Leopardi di A se stesso, può essere visto sotto una diversa luce? Possiamo trasformare in fabula/mithos  l’irrequietudine delle nostre vite? Volere l’eterno ritorno delle vite che abbiamo ricevuto? La Mati ci porta a varcare questo abisso e a nutrire questa speranza.

                                                                                                                 Tiziano Salari

venerdì 21 ottobre 2011

Francesco Marotta “Senza titolo” in “Ante Rem. Scritture di fine Novecento”, Anterem Edizioni, 1998


non sarà vegli l’infinitudine la riva rincorsa  
dallo sguardo si incrocia qui tra onde concesse
al disfarsi la parola che inventa il suo paradigma
di stagni e deserto un mare che ancora ci somiglia
vastità di oggetti che più prossimi alla polvere
gridano fiotti di percorsi a increspare superfici
di simboli dolenti epifanie di corpi disadorni
anime irrisolte di navigli al largo delle notti
che l’orizzonte contrae in un lampo il porto stesso
in lontananza labirinto di un mondo in frantumi
di cui non reggi i fili possibile mare mare plurale
che brucia di epigrafi rapinate ai coralli luminoso
del lucore ramato di cocci di vetro mare implicito
nel corollario di esserne il custode lo scriba
della sua ottica rovesciata trama di vele tattili
da cui l’occhio ignaro si ritrae vago degli arazzi
che simula il vento deposito di infanzie riemerse
a ogni nuova luna un’isola fredda a pelo di lingua
che tace la sua radice esiliata


Siamo al cospetto di un’analogia che per descrivere il linguaggio si serve di metafore appartenenti alla natura, al paesaggio. Ma, poiché Francesco Marotta dichiara di porsi da un’”ottica rovesciata”, guarderà al mondo sentendosi esiliato non da esso, ma dal linguaggio. La fittissima tramatura che  il poeta istituisce linguisticamente fra “riva”, “onde”, “deserto” e “mare” mostra - quasi un contrappasso -  ampi squarci nella tessitura del linguaggio a cui nessuno sguardo potrà porre rimedio: non si potrà tirare nessun filo. Se il mare diventa plurale, se le epigrafi sono tratte dai coralli, se il mare assume carattere implicito, se ne desumerà non una continuità, ma una discontinuità “a pelo di lingua”. La realtà infatti apparirà non ricomponibile perché avrà assunto le sembianze del linguaggio. Saranno ancora gli elementi naturali a tentare di assumere una voce: oggetti che gridano,  navigli con anima, onde e stagni che mimano parole disfatte o paradigmi, ma il linguaggio vi apparirà come un calco, desunta forma: sarà sempre ciò che manca.  Straordinario rovesciamento che ci induce a porre sotto esperimento ciò che invece diamo per scontato, credendo che il linguaggio sia saldo e la realtà fugace. A nulla varrà, pertanto, riconoscere “un mare che ancora ci somiglia” poiché la proiezione della nostra interiorità sugli oggetti avviene col linguaggio ed è esso a determinare la frantumazione del mondo. Marotta assegna però un ruolo “riparatore” allo scriba, il quale sarà il custode, colui che potrà ricostruire “la trama di vele tattili”, appunto, tramite scrittura. A definire in maniera irreversibile anche lo scarto tra linguaggio e scrittura, oltre a quello esistente tra pensiero e realtà.

Biografia di Francesco Marotta (1954)

Tra le sue pubblicazioni in versi: Le Guide del Tramonto (1986); Memoria delle Meridiane (1988); Giorni come pietre (1989); Alfabeti di Esilio (1990);  Il Verbo dei Silenzi (1991); Postludium (2003, Premio “L. Montano”); Per soglie d’increato (2006); Hairesis (E-book 2007); Impronte sull’acqua (2008, Premio "R. Giorgi"). In antologie ha pubblicato le sillogi Creature di rogo (1995), e Notizie della Fenice (1996). Gestisce lo spazio web http://rebstein.wordpress.com/

giovedì 20 ottobre 2011

“Parola Per Parola” Convegno Internazionale di Poesia della rivista Anterem, Verona

In occasione dei venticinque anni del Premio Lorenzo Montano, la rivista “Anterem” e la Biblioteca Civica di Verona promuovono un Convegno internazionale di poesia.
Sono in cartellone dodici appuntamenti che prevedono eventi poetici, filosofici, musicali e artistici con autori internazionali. Tali eventi si svolgono da venerdì 11 novembre a domenica 20 novembre 2011 negli spazi della Biblioteca Civica di Verona.
La nozione sulla quale ruoterà il Convegno è “Parola per parola”. La finalità è far emergere l’intima relazione che unisce la poesia e l’umana esistenza, ponendo al centro dei vari incontri le questioni che legano la poesia alle complesse problematiche del nostro tempo.
Saranno oggetto di riflessione e dialogo le opere di alcuni grandi poeti e filosofi, tra cui Bonnefoy, Celan, Cvetaeva, Heidegger, Jabès, Martini, Nietzsche, Rimbaud, Spatola, Zanzotto.
Questa manifestazione muove da un’identità poetica molto precisa, caratterizzata dalla posizione concettuale e dal percorso di conoscenza della rivista “Anterem”. L’intento è quello di far amare a un numero sempre più vasto di lettori la grande poesia contemporanea e della modernità.
Con questa iniziativa “Anterem” vuole dare una visibilità sempre maggiore alle opere dei poeti vincitori, dei finalisti e dei segnalati per tutte le sezioni in cui il Premio Lorenzo Montano si articola: “Raccolta inedita”, “Opera edita”, “Una poesia inedita”, “Una prosa inedita”, “Poesie scelte”. L’intento è di offrire loro un’occasione pubblica d’incontro e di riflessione critica davanti a una platea qualificata di studiosi e appassionati.

Per ulteriori informazioni e per scaricare il programma del convegno:

lunedì 17 ottobre 2011

Jean-Jacques Du Plessis “Field Of Signs” a cura di Pia Candinas


che cosa sappiamo dei segni
e del loro bianco vapore
ciò che fa vedere

non è più visibile
del didietro
dell’occhio

Bernard Noel

Quando nel settembre del 2010 Jean-Jacques du Plessis arrivò a Roma, aveva appena cominciato a usare un nuovo metodo di dipingere: fissava al muro una grande e spessa tela grezza sulla quale incollava delle forme ritagliate da tele dipinte. Dopo nove mesi di sperimentazione, l’artista ci presenta un gruppo di dipinti ricchi di colori e forme ritagliate che sembrano simboli o segni sconosciuti. Nel corso di pochi mesi l’artista ha perfezionato questo nuovo modo di dipingere, e acquisito un linguaggio che, come tutti i nuovi linguaggi, apre una strada che a sua volta ne apre altre. Il risultato è questa mostra piena di allusioni, invenzioni e sperimentazioni pittoriche.

La tecnica è ingegnosa e semplice: du Plessis dipinge dei pezzi di tela usando colori piatti e uniformi, poi li ritaglia e crea delle piccole forme. Queste figure vengono in seguito distribuite sul campo della tela, modificate a più riprese, spostate millimetro per millimetro, finché ognuna di esse prende un suo spazio definitivo. Le composizioni sono il risultato delle regole stabilite dall’artista, e il risultato finale consiste in un insieme  di opere in cui domina leggerezza, luce e  movimento.   

Si direbbe che il pittore ci inviti a viaggiare insieme a lui tra colori netti e vivaci, come quelli che si trovano talvolta nella vita quotidiana. Du Plessis, usando l’acrilico e colori semplici, inventa via via forti accordi di colore di intensa impronta emotiva. Lo stesso accade con piccole figure che assomigliano a ideogrammi  indecifrabili. Sono immagini dense, distribuite come “appliqués” che fanno venire in mente la tecnica degli aggiustamenti millimetrici usata da Mondrian per il quadro “Broadway Boogie-Woogie”.

E vengono alla memoria i frammenti di pittura messi in gioco dalle avanguardie del secolo scorso: i ritagli di Matisse, la lucidità e l’eleganza di Boetti, i simboli dell’arte post-moderna italiana.  Nel nostro caso l'artista mette in gioco centinaia di forme  e segni diversi, spazi bianchi, collages; attinge in modo disinvolto alla memoria di secoli di pittura. In alcuni casi si riconoscono immagini che nascono dai video-games, da immagini segnaletiche, da calendari, da partiture musicali, da diagrammi, ma anche da antiche tradizioni artigianali come arazzi, stoffe ricamate, patchwork, per citarne solo alcune. Recentemente mi è capitato di incontrare in vari luoghi opere d’arte non solo contemporanee e moderne, ma anche antiche, che mi ricordavano i quadri di Jean-Jacques:  tuniche peruviane di centinaia di anni addietro decorate da infinite file di piccoli simboli geometrici, dipinti murali egizi fatti da geroglifici disposti su grandi spazi color grano; quilts americani, un’immensa pittura murale di Keith Haring, come anche un arazzo di Picasso del 1934 intitolato Confidence. Tante cose nei nostri musei mentali confermano che du Plessis fa un’arte che appartiene al tempo esteso della pittura e anche se le sue immagini non rivolgono lo sguardo indietro verso l’arte degli indigeni o verso l’arte manuale  (fabric arts), sono comunque testimoni del suo profondo legame con la pittura e per la sua lunga storia.

Nel XX secolo il collage era diventato dovunque un linguaggio potente per rivoluzionare le tradizioni artistiche. Oggi che le immagini digitali sono create da pixels impercettibili, la pittura ha il compito di riuscire a rendere visibili le minime parti di una composizione, anche quando non sembrano determinare l’idea dell’insieme della sua superficie. Du Plessis costruisce questo insieme grazie alla sottile e quasi impercettibile tessitura degli appliqués  che funzionano come fondo uniforme della tela. Sceglie con cura  la posizione delle forme e dei colori: assomigliano a note musicali estesi in accordi, armonie, ritmi, contrappunti. Ci si propone un mondo talmente complesso da apparirci semplice.  


When Jean-Jacques du Plessis arrived in Rome last fall attending his first year as a graduate painting student at Temple University Rome, he had recently invented his technique of stapling a canvas directly to the wall and then gluing bits of painted canvas to it. By spring he had produced this fresh and elegant group of paintings. If not for the practical demands of an exhibition, they might still remain works of free-hanging fabric. In a brief period, Jean-Jacques du Plessis perfected his new way of painting, inventing a language of his own that is open-ended and capable of saying many things.
The technique is ingenious and simple: Jean-Jacques paints pieces of canvas in flat, even colors, and then carefully snips out invented little shapes. He arranges these on the canvas field, making constant, millimetrical adjustments, until finally he fixes them permanently­­, the way Mondrian moved around strips of tape while composing Broadway Boogie-Woogie.  Like Mondrian, Jean-Jacques seems to follow a secret set of rules. Despite their precision, the paintings are not a bit solemn, but instead communicate jazz-like improvisation, lightness and good humor.
On a recent trip to New York, I kept encountering art­­––not only modern, but also ancient things––that reminded me of Jean-Jacques' paintings:  thousand-year-old Peruvian tunics adorned with rows of little geometric symbols, and Egyptian wall paintings, with their repeated hieroglyphics on open, straw-colored fields. American quilts. A huge wall drawing by Keith Haring, a musical score at the Morgan Library, and even a 1934 tapestry by Picasso called Confidence. These artifacts were all highly tactile and material. Repeated elements were often arranged in a kind of strategic formation, like soldiers or chess pieces on light-colored, open grounds. The structures seemed to be diagrams of a sort, or codes; they had been made for other eyes than my contemporary ones, but my ignorance of their grammar did not spoil my pleasure in their obvious intentionality and physical presence.
I don't mean to suggest that these works of Jean-Jacques are looking backwards at indigenous art or "fabric" arts. Their appearance is entirely contemporary, because they evoke our daily world. We can't help thinking about supermarket packaging, game boards, video games, signage, calendars, informational diagrams, and the like.
Above all, Jean-Jacques is in love with painting and its long history. While renouncing the seductive, expressionistic touch of oil paint in favor of flat acrylic shapes, Jean Jacques paradoxically finds a way to reinterpret the idea of "painterliness." He shares the modernist idea of making visible his materials and means. A contemporary collagist, he synthesizes the whole from disparate fragments. Collage is the emblematic art-making principle of modern art, a ubiquitous metaphor for the disjunctions, random juxtapositions, and atomization of modern life: cells, particles, pixels. In painting, the trick is to keep the component parts individually visible, but at the same time subordinated to an integrated whole. Jean-Jacques achieves this wholeness through the uniformity of the canvas ground, the subtle texture of the appliqué, and his careful disposition of shapes and color, which at first look bland and even childish, but are really like notes in music, which add up to chords, harmonies, rhythms, counterpoint, and finally, magically, to a newly imagined world.
                                                                                            Pia Candinas

sabato 15 ottobre 2011

Aldo Ferraris “Nel cadere della corsa” in “Ante Rem. Scritture di fine Novecento"



“ancora non parlano che una lingua di colori
vibrata intorno come ragnatele senza vittima
si nascondono i bambini in luoghi pronunciati una volta
in angoli dai nomi come sassi tirati contro un vetro
rivelano la propria assenza i bambini prigionieri
una riga per terra a impedire la bufera”


“ancora non parlano che una lingua di colori” è il primo verso del componimento di Aldo Ferraris da “Nel cadere della corsa”, in “Ante Rem. Scritture di fine Novecento”, (Antologia a cura di Flavio Ermini, Anterem Edizioni,1998, pag. 252), oggetto di questa brevissima nota.
Coloro che non parlano che tale lingua sono “i bambini”.
Quell’ “ancora”, ben lungi dal dover essere considerato quale riferimento a un’infanzia ritenuta minore, per così dire, rispetto all’età matura, va letto come affermazione di positive qualità.
Il meccanicismo, rigido e sbrigativo, ossessivamente rivolto a esaurire l’argomento, non si è ancora imposto: la lingua coincide con i colori, gli odori, il tatto, le emozioni, le sensazioni, ossia è, in definitiva, esistenza.
Così le parole dei bambini – monelli sono “nomi come sassate contro un vetro” in un mondo nel cui àmbito l’espressione è confusa con la vita.
Mi chiedo: qual è la posizione del poeta?
Il suo è un racconto dall’esterno?
Una rappresentazione, sia pure molto precisa e raffinata?
Sì e no.
Sì, se si guarda all’età anagrafica dell’autore, ormai adulto, no, se si pone attenzione al suo linguaggio.
La poesia è, in generale, ricca di valenze evocative, dice (molto) proprio in virtù di peculiari allusioni e metafore che nell’uso quotidiano sarebbero tacciate di vaghezza.
Aldo, originale ed elegante, descrive una certa situazione e, nello stesso tempo, la rende viva, presente: con ferma affabilità suggerisce come dall’interno, mostra una situazione esistenziale rendendone il lettore intimamente partecipe.
La sua è anche (e soprattutto) “una lingua di colori” che non tende, come spesso accade nel discorso comune, a imprigionare nel problema, bensì ad aprirsi, in maniera feconda, all’enigma.
È un’occasione, insomma, per raggiungere maggiori consapevolezze.

                                                                    Marco Furia
                                                                                                                

mercoledì 12 ottobre 2011

Michel Foucault “Illuminismo e critica” Donzelli, 1997


Nel testo “Illuminismo e critica”, Donzelli, 1997, Michel Foucault affronta la definizione del concetto di critica, sul quale si fonda il suo lavoro intellettuale. Tant’è che critica riguarda “una certa maniera di pensare, di dire e anche di agire, un tipo di rapporto con l’esistente, con ciò che si sa, con ciò che si fa, un rapporto con la società, con la cultura, con gli altri”. Critica, dunque, coestensiva al campo morale, alla costruzione del proprio sé. Della critica Foucault traccia una brevissima storia, approfondita, peraltro, in numerosissimi altri suoi libri, a partire  dalla pastorale cristiana, la quale mette a punto tecniche per governare gli uomini, fino all’età della Riforma, durante la quale esse si espandono e si diramano  nell’ambito della società civile: l’arte di governare i bambini, i folli, i malati, la famiglia, i poveri, le città, gli Stati.

Dall’analisi di queste pratiche affiora anche la questione inversa: come non essere governati  “in questo modo, in nome di questi principi, in vista di tali obiettivi e attraverso tali procedimenti”, che è in fondo la questione centrale dell’atteggiamento critico: l’“arte di non essere eccessivamente governati”. L’atteggiamento critico si è naturalmente sostanziato in alcune forme storiche. Foucault ne cita alcune: critica del rapporto con la Scrittura (critica biblica), individuazione dei limiti del governo tramite il diritto naturale (critica giuridica), critica al problema della certezza rappresentata dall’autorità (critica al diritto, alla Bibbia, alla scienza, alla natura alla legge). Siamo giunti, così, al nucleo originario della critica che “rinvia a quel fascio di rapporti in cui s’intessono i problemi del potere, della verità e del soggetto” e attraverso cui “il soggetto si riconosce il diritto di interrogare la verità nei suoi effetti di potere e il potere nei suoi effetti di verità”.

Foucault riconosce la continuità del suo pensiero con quello kantiano, in particolare col testo “Che cos’è l’Illuminismo?”, in cui Kant, dopo aver disegnato l’ambito di riferimento (l’umanità, che per mancanza di decisione e coraggio non usa il proprio intelletto, viene tenuta in stato di minorità da uno stato autoritario) individua nell’atteggiamento critico una risposta non banalmente oppositiva all’obbedienza al potere: “La critica dirà, in sostanza, che la nostra libertà è messa in gioco da ciò che affrontiamo, con più o meno coraggio, dall’idea che ci facciamo della nostra conoscenza e dei suoi limiti” rispetto a cui Foucault precisa che la storia del XIX secolo sembra proseguire più il concetto di critica kantiano che non il fenomeno stesso dell’Illuminismo, cioè quello scarto, in termini di conoscenza (che riguarda la legittimità dei modi storici del conoscere). In ballo vi è quella stessa ragione che è all’opera anche nella governamentalizzazione e, infatti, la critica alla ragione come responsabile di un eccesso di potere è stata condotta anche negli ambienti della sinistra tedesca (Scuola di Francoforte) nell’ambito del positivismo, nell’oggettivismo, nella tecnicizzazione, mentre in Francia la questione dell’Illuminismo si è riannodata “a quella del senso e di ciò che lo può costituire” (“non si forma senso se non come effetto di strutture coercitive”).

Nietzsche, da cui il pensiero di Foucault è estesamente ispirato, criticherà l’idea kantiana di una critica della ragione da parte della ragione stessa, di una ragione che è al tempo stesso “giudicante” e “giudicato” e dirà che essa ha come suo unico obiettivo quello di giustificare, cominciando proprio col credere in ciò che critica. Egli formulerà una propria  risposta a Kant esprimendo la necessità di una  critica che non si limiti soltanto all’ambito della conoscenza e conferendo esclusivamente alla volontà di potenza (in quanto principio non trascendentale) la possibilità di realizzarla. Nietzsche, dunque si contrapporrà alla critica kantiana, proponendo non principi trascendentali, non un pensiero che si reputi legislatore, ma un pensiero genealogista. (Per un approfondimento si veda Deleuze “Nietzsche e la filosofia”, Einaudi1 992).

Foucault individua, in conclusione,  nell’Illuminismo il problema della filosofia moderna, in particolare, nelle sue forme d’analisi: “Si tratta, in questa pratica storico-filosofica, di farsi la propria storia, di fabbricare, come per finzione, la storia che sarebbe attraversata dal tema dei rapporti tra le strutture razionali che articolano il discorso vero  e i correlativi meccanismi di assoggettamento” immettendo, dunque, nell’analisi i temi del soggetto e della verità. La questione dell’Illuminismo è “il rapporto tra potere, verità e soggetto”. Foucault approfondisce la sua analisi prendendo in considerazione le “connessioni tra  meccanismi di coercizione e contenuti di conoscenza”. L’obiettivo allora non sarà più quello di distinguere tra ciò che è vero e ciò che è falso, “fondato o infondato, reale o illusorio, scientifico o ideologico, legittimo o abusivo”, ma i legami tra potere e sapere, “ciò che permette a questo processo di coercizione di acquistare le forme e le giustificazioni proprie di un elemento razionale, calcolato, tecnicamente efficace” il quale “è sempre inserito in un campo di possibilità e quindi di riversibilità”.

                                                                                                Rosa Pierno

domenica 9 ottobre 2011

“Le dessin chercheur” video di Renée Lavaillante

L’ammaliante video di Renée Lavaillante, artista canadese  che ha esposto due volte in Italia, si declina nei toni pressoché preponderanti del bianco, interrotti soltanto dal nero di  linee mai geometriche. Alla visione delicata e raffinata concorrono le sensibilissime mani, strumenti rabdomantici che servono a captare le direzioni che si rapprendono sulle superfici dei fogli e solo qualche accenno di figurazione: con questi elementi è stato realizzato uno fra i più bei filmati sull’essenza del lavoro di un artista.

Esso consente quasi lo svelamento del processo  artistico di Renéè Lavaillante, nel senso che è uno svelamento che non esaurisce il significato che le sue opere producono in noi, ma lo amplificano: ci fanno comprendere il senso del suo lavoro fin nelle pieghe più riposte, ammesso che esso risieda in profondità. Anzi sembra che per la Lavaillante il senso si dia sulla superficie. Che si crei solo a partire da essa. Che sia  la superficie l’oggetto da interpretare. E non solo quella del foglio immacolato, ma anche quella del foglio ottenuto con fibre vegetali che il processo di lavorazione consente di distinguere, lasciando intrappolati, nelle sue fibre, grumi che, con il loro rilievo e diverso colore, intaccano la purezza e la levigatezza di una canonica superficie cartacea. Per questa via, si saranno introdotte perturbazioni nell’ordine.

Le mani, e si direbbe che il volto sia bendato, sebbene nel video non si veda mai, sembrano sostituire gli occhi nella visione: con gesti impercettibili, che corrispondono a sobbalzi nella percezione, esse seguono la grana ruvida della carta, individuano le sporgenze e tracciano con la matita direzioni possibili da un grumo all’altro, intorno ai quali, inoltre, tracciano linee circonflesse, rendendoli segni.

L’imprevisto vi ha ruolo essenziale: quando l’artista getta sulla carta piccoli sassi  e successivamente li toglie uno a uno sostituendoli con segni concentrici della matita, ne stigmatizza la presenza così come si è venuta configurando nel lancio,  attuando quel passaggio dall’evento al segno, che è il risultato dell’operazione artistica che caratterizza il lavoro di Renée Lavaillante.

Ciò che si determina in maniera occasionale - ma parlare di circostanza è lecito soltanto considerando che l’artista seleziona una piccola porzione di realtà e ivi  lascia accadere  piccoli scostamenti dall’atteso – è per analogia lo scostamento che c’è tra ideazione e realizzazione nell’operazione artistica.

Portiamo, a sostegno di quest’ipotesi, anche i disegni ottenuti tramite il fissaggio di un carboncino a un giunco: i movimenti del polso (dettati dalla volontà artistica)  vengono invariabilmente dirottati  dai piegamenti che il giunco restituisce attraverso la sua flessibilità e influiscono sul segno prodotto, ma il segno ottenuto reca traccia della volontà dell’artista e del dirottamento determinato dal giunco e, dunque, si può parlare di sommatoria delle due forze. I disegni sono la testimonianza di questa somma algebrica tra riflessione astratta ed esistenza.

Analogamente, individuare nel bianco assoluto della neve segni, imporre all’indeterminato direzioni; creare contingenze, affinché si crei l’occasione del disegno, vuol dire cercare l’affiorare della componente estetica come prodotto  congiunto dell’accidente e del concetto. Insomma, una modalità del disegnare che non è concepita totalmente in via preliminare, che non è, cioè, determinata in  tutte le sue parti prima della sua realizzazione, e che è formalizzata attraverso un’esperienza che non passa necessariamente attraverso gli occhi (in questo, articolandosi un altro fondamentale snodo nella pratica artistica d Renée Lavaillante) ottiene come risultato di circoscrivere l’elemento umano e più specificatamente la sua ineliminabile tendenza artistica. Che è, appunto, il contenuto, straordinario, di questo video.



La vidéo envoûtante de Renée Lavaillante, artiste canadienne qui a exposé en Italie, se décline dans des tons où les blancs prédominent, interrompus seulement par le noir de lignes jamais géométriques. À une vision délicate et raffinée concourent des mains très sensibles, instruments rhabdomantiques servant à capter les directions qui se cristallisent sur la surface du papier, et quelques rares accents de figuration : avec ces seuls éléments est réalisé un des plus beaux films sur le principe du travail d’un artiste.
Cette vidéo dévoile le processus artistique que conduit Renée Lavaillante, mais c’est un dévoilement qui, loin d’épuiser la signification que les œuvres produisent en nous, l’amplifient plutôt. Elle fait comprendre le sens du travail jusque dans ses replis les plus cachés - si le sens réside dans la profondeur. Or il semble, bien au contraire, que le sens se donne ici sur la surface, qu’il se crée d'abord à partir d'elle, et que cette surface devient ainsi l’objet à interpréter. Par surface nous entendrons, non pas uniquement celle de la feuille immaculée, mais aussi celle qui se présente avec des fibres végétales que le fabricant du papier a intégrées, prenant au piège, ici et là, des petites rugosités - petits grumeaux, disons - qui, avec leur relief et leur couleur distincte, entament la pureté et le lisse d’une surface de papier normale. Ainsi sont introduites des perturbations dans le dispositif.
Les mains - on imagine que les yeux sont bandés, bien qu’on ne voie jamais le visage dans la vidéo -, semblent remplacer les yeux dans la vision. Avec des gestes imperceptibles, qui correspondent aux soubresauts de la perception, les mains suivent le grain rugueux du papier, repèrent les saillies et tracent avec le crayon des directions possibles d'un grumeau à l’autre. Elles entourent enfin de lignes ces grumeaux, qui sont ainsi transmués en signes.
Quand l’artiste jette sur le papier de petits galets, pour ensuite les enlever un à un, les remplaçant par des signes concentriques au crayon, elle en marque la présence, configurée dans la chute. L’imprévu joue un rôle essentiel. Le passage de l’événement au signe est le résultat de l’opération artistique qui caractérise le travail de Renée Lavaillante.
L’artiste sélectionne une petite portion de la réalité, puis elle laisse advenir l'événement imprévu, qui s'installe, pour l’opération artistique, quelque part entre conception et réalisation. L'attente est toujours trompée.
Voyons, pour appuyer cette analyse, les dessins obtenus avec un fusain fixé à un jonc. Les mouvements du poignet, dûs à la volonté de l’artiste, sont invariablement déroutés par les fléchissements qu'engendre le jonc par sa flexibilité. Ces fléchissements influencent le signe produit, mais le signe produit porte la trace de la volonté de l’artiste et du détournement du jonc. Il y a addition des deux forces. Les dessins se situent au croisement de la réflexion abstraite et du monde matériel.
Articulation fondamentale de la pratique artistique de Renée Lavaillante : une expérience qui ne passe pas uniquement par les yeux. Repérer des signes, dans le blanc - parfois absolu comme celui de la neige -, imposer des directions à l’indéterminé, susciter des contingences afin que se crée l’occasion du dessin, c'est chercher l'émergence du faire esthétique dans le produit conjugué de l’accident et du concept. Voilà le propos, magnifiquement montré, de cette vidéo.

                                                                                      Traduit de l'italien par Gilles Cyr

giovedì 6 ottobre 2011

Giuliano Mesa “Finisce ancora. Endecasillabi e altri reperti” da “Ante Rem. Scritture di fine Novecento” Anterem, 1998


Inauguriamo una nuova rubrica, dopo quella su Gabriella Drudi, attraverso cui riportare alla ribalta testi importanti che meritano rinnovata attenzione: in particolare, quelli presenti nell’antologia  “Ante Rem. Scritture di fine Novecento” a cura di Flavio Ermini, edizioni Anterem, 1998.


Ci concentriamo sul finale della  poesia “Finisce ancora. Endecasillabi e altri reperti” di Giuliano Mesa presente nell’antologia “Ante Rem. Scritture di fine Novecento” a cura di Flavio Ermini, edizioni Anterem, 1998, per poi risalire ai versi iniziali, poiché ci pare sia quello il luogo in cui si possa riconoscere una chiave di lettura particolarmente importante: “come stornare l’idea dal concetto”. Ci sembra di riconoscere immediatamente la matrice heideggeriana, il quadro di riferimento assunto da coloro che vogliono risiedere in un mondo in cui non si faccia più riferimento alla metafisica. Se la metafisica pensa l’ambito sensibile come ciò che ha l’aspetto dell’ente senza però mai essere tale, per quanto il sensibile renda percepibile qualcosa, l’essenza, tuttavia, vi appare ristretta, impoverita. Essa può essere colta soltanto con l’intelletto e la ragione e dunque, il sensibile è immagine-di-senso e il sovrasensibile è “modello”. Estirpare pertanto l’idea dal sensibile è esattamente l’operazione di colui che voglia superare la metafisica. Ma la sfiducia mostrata da Giuliano Mesa si basa proprio sul linguaggio, il terreno comune del filosofo e del poeta. Sebbene Mesa non utilizzi simboli, allegorie, metafore e rimanga solidamente ancorato a un livello in cui tali rappresentazioni non diano adito a immagini-di senso, pure egli denuncia l’inanità di una tale operazione: “sarebbero sempre altre parole”, in cui inevitabilmente l’idillio tra cose e mondi e visioni prolifererebbe.  Le splendide parole “reggicose”, “spegnicause”, “trovaforme” che ci fanno pensare al fondamento, al rapporto causa-effetto, all’arte, precipitano, nonostante il qui e l’ora, che sono le coordinate che Heidegger utilizza per indicare la condizione dell’abitare dell’uomo non più metafisico, nell’imbuto ove il mondo, nonostante “che ieri che oggi che domani” e nonostante “andare verso e cosa” finisce. E dunque, a questo punto, possiamo riprendere la lettura dall’inizio, ove il corpo si pone come barriera insormontabile, come bloccatempo che rende inutile ogni mutamento. L’ancorarsi al corpo però è anche salvezza, in qualche modo. Quel corpo che è muta superficie distesa sul profondo, eppure,  ineludibile, poiché mai sarà possibile separare il fisico dal mentale, il sensibile dal senso.     

 
1

questo è deriso
perché non ha capienza
è una maceria mutilata
una glottide secca
una mucosa dove non permea nulla
né nulla trattiene perché s’intorbidi
o s’intrida almeno di globuli
nei ruvidi interstizi
prima e dopo che sia finito
che sia deciso questo almeno
questo passarsi la mano

2

apri una vena e spargi il sangue
fai una pàtina rossa
un impasto per curare la ferita
olio di gomito fracassati
poi prendi la lingua del bue
docile la cospargi di origano
la triti nel mosto la spalmi
sulla lingua che lecca la ferita
sulla mano che trema
guardi la vena che pulsa
con le mani tocchi tutto il corpo
tutto questo corpo
per tutta questa notte che finisce

3

Che cosa ne sarà
perché si muova e svuoti
spolpando e masticando
succhia il midollo e rimanga
un’apertura per il fiato
un suono duplice per muovere i passi
(ogni perfezione va distrutta
il dubbio, senza darlo in pasto,
tirato su per i capelli
su per le palpebre, sopra tutto il profondo
muta che è
tutta la superficie)

4

andare verso e cosa
corpo sfasciato testa lorda
se tutto muta inutilmente
che ieri che oggi che domani
qui riversato a negare
in pochi chili di carne ed ossa

5

conserva anche questo fianco smagliato
quest’anca con la sua garza e i lividi
le nocche spellate le guance rosse
per quanto ti resta quando verrai
pochi ultimi giorni per convincerti
ancora per questo equinozio
a rimanere in te

6
oggetti per riflettere
come stornare l’idea dal concetto
fare la figura immediata
ma sarebbero sempre altre parole
anche le dette con spasimo
contratte striate
idilli di lingua e mondo
reggicose spegnicause
trovaforme d’accoglienza del qui
dell’ora per palpare

questo mondo che struscia
rapido su se stesso rapidissimo
fino a che non finisce

da I loro scritti, VI,

sabato 1 ottobre 2011

Siegfried Giedion “Breviario di Architettura” Bollati Boringhieri, 2008

Riveste un doppio interesse rileggere dopo 50 anni un libro che è stato al centro di numerosi dibattiti dell’epoca: “Breviario di Architettura” di Siegfried Giedion (uscito per la prima volta in Italia nel 1961 e tradotto in moltissime lingue) sia per il punto di vista storico da cui osservare le critiche messe a punto da Giedion sia per verificarne l’efficacia.

Individuiamo, innanzitutto,  il recupero del valore della storia, la quale deve essere considerata dinamica e non statica, poiché sempre dipende dallo sguardo e dalle risposte che si cercano nel passato. D’altronde, non è che l’eco della lezione di Burckhardt: l’arte va studiata insieme al contesto sociale, storico, culturale in cui le sue forme nascono e si trasformano. La creazione artistica è un processo immerso nella storia  e Giedion non analizza mai nessuna forma o progetto senza menzionare anche le forze sociali (committenti, pubblico, interesse economico, esigenza estetica) che concorrono alla sua nascita e sussistenza. Ma soprattutto non è possibile leggere il libro di Giedion senza avere presente come sfondo la “Scuola di Francoforte”, in cui sono stati messi a fuoco i meccanismi tra società di massa, politica e cultura. In questo senso, Giedion risulta un banalizzatore di quelle dottrine, ma quello che stiamo cercando è il rapporto che egli vuole istituire tra società di massa e architettura, come  vuole cioè definire la funzione dell’architettura in questo quadro. 

E in questo senso è interessante notare come Siegfried Giedion faccia riferimento alla necessità  di riferirsi a un essere umano che dimostri di avere integrato in maniera armoniosa la sua razionalità e il suo sentimento.  L’essenziale per lui è evitare che il razionalismo sia visto come elemento predominante della progettazione, pertanto invoca il sentimento come componente necessaria per una rivitalizzazione della capacità di giudizio. Anche qui il riferimento obbligato è al Nietzsche che critica la visione di Socrate, che la realtà sia governata da ragione, da cui nascono la scienza e la morale razionale.  Ma al solo sentimento, Giedion imputa  le scelte arretrate e scontate per cui c’è nel gusto artistico dei decisori una “frattura tra un pensiero razionale altamente sviluppato e una struttura emotiva arretrata”. Anche se a noi sorge un dubbio sul fatto che la classe politica vi sia presentata come immobilizzata solo da una mancanza di competenza, e non anche da una precisa volontà di favorire componenti diverse da quelle estetiche e culturali.

Se il pubblico non ha un grado di cultura sufficiente per dirimere con chiarezza le questioni qualitative dell’arte, il ruolo del critico assume, di conseguenza, enorme importanza poiché riconosce per primo e indica agli altri in che cosa risiede il valore. Il ruolo della critica è una diretta filiazione della lezione illuminista, che  Kant ha raccolto e la scuola di Francoforte ha accentuato in una specifica direzione, ma che qui è relegata solo a specialisti e non inerisce al singolo, nemmeno come obiettivo futuribile tramite adeguata formazione (com’è invece in Adorno).

Uno dei temi maggiormente perorati dal testo di Giedion è la necessità di dare una nuova spinta alla funzione del monumento. Esso ha un ruolo centrale nelle sue riflessioni non solo perché la sua mancata presenza nelle città attuali è indice di una crisi dei valori collettivi in cui appunto una comunità si riconosce, ma anche perché il monumento si situa come una cerniera tra scala architettonica e scala urbanistica, entrambe saldando in un tessuto connettivo. Egli propugna l’utilizzo di materiali colorati e in movimento, nuovi e tradizionali ed elementi naturali (alberi, acqua)  in un avvicinamento alla natura: “A queste condizioni l’architettura monumentale  tornerebbe ai suoi fini originari e ritroverebbe il suo contenuto lirico. Architetti e urbanisti potrebbero così toccare quel grado di energia e di libertà creative, che si è affermato nel campo della pittura, della scultura, della musica e della poesia”. Non si comprende come mai Giedion espliciti il suo credo nella preminenza delle altre arti rispetto all’architettura, come se quest’ultima non facesse che ripercorrerne le orme: “dobbiamo sottolineare che nell’attuale momento dell’architettura non può esistere un artista veramente creatore, che non sia passato attraverso l’esperienza dell’arte moderna” . Un attacco come questo è difficilmente comprensibile in un’epoca che vede una straordinaria rinascita dell’architettura attraverso le grandissime personalità di Mies Van der Rohe, Walter Gropius, Le Corbusier, Frank Lloyd Wright, Alvar Aalto, ma l’elenco sarebbe lunghissimo.

Abbiamo ripreso dallo scaffale questo impolverato libro per saggiare quanto delle implicazioni filosofiche di cui era impregnato siano state fatte interagire con la concreta pratica architettonica e quanto siano state effettivamente prese in considerazione le reali forze in campo con cui ogni pratica progettuale si deve confrontare, e il risultato è apparso insufficiente poiché filosofia e architettura ci sono sembrate giustapposte. Se, dunque, il libro di  Siegfried Giedion, a nostro avviso, si dimostra inefficace per un pubblico di specialisti, non ha però nemmeno assolto al compito di formare un pubblico competente.

                                                                                                                 Rosa Pierno