Pubblichiamo, in occasione dell’assegnazione a Luciano Canfora del Premio Feronia Città di Fiano 2011, XX Edizione, per la sezione “Critica militante”, una nota su uno dei libri appartenenti alla sua vastissima quanto profondissima produzione saggistica.
Credere che il potere sia incarnato o “invisibile, inattingibile” offusca la capacità di localizzarlo e individuarne il funzionamento. Non interessa a Luciano Canfora, l’ideale, il concetto astratto dal suo inverarsi nella realtà. Nel libro, “La natura del potere” Laterza, 2009, che parte dall’analisi della posizione politica di Lucrezio per approdare agli odierni dilemmi politici, lo scopo non è quello di effettuare comparazioni tra concetti inconfrontabili (quel concetto di democrazia degli antichi che per essere a partecipazione diretta non ha più niente in comune con la democrazia rappresentativa dei nostri giorni, la quale contempla la equiparazione dei diritti di tutti i cittadini, inesistente nell’Antichità), ma di individuare le forme assunte dalla democrazia, e dal potere in generale, da un punto di vista storico. Canfora, infatti, sottolinea come sul dato in sé agisca sempre il metodo storiografico che quel dato elabora, la posizione ideologica dello storico, oltre alla correlazione analogica che viene attivata tra fatti anche molto diversi fra di loro (la rivoluzione francese confrontata con la rivoluzione bolscevica). Tutte cose che conviene avere ben presenti quando si cerchi di comprendere il fenomeno del potere e la sua rappresentazione. L’esercizio della riproposizione e del confronto ha, in Canfora, proprio questa duplice valenza: riportare alla memoria le scritture storiche alfine di svelare sia i meccanismi che riguardano il potere, sia le alterazioni introdotte da chi interpreta i dati.
La radicalità dell’assunzione lucreziana, per cui il potere è “cosa vuota”, “non prendibile”, “non viene né assunto né dato”, è tale che l’unica cosa che si può opporre è l’utopia. A fare da contrappeso, la frase pronunciata da Pericle e diretta agli Ateniesi stanchi di una politica imperiale: “l’impero è tirannide, e dall’impero non ci si può impunemente tirar fuori”. Pertanto, sulla faglia del rapporto rifiuto/accettazione della prassi politica e dei rapporti di dominazione sono possibili esclusivamente le due vie: “non si fuoriesce unilateralmente da una situazione di comando”; al più la si nega tramite il progetto utopistico di Lucrezio.
Il potere ha i suoi dispositivi, di autotutela e di diffusione: durante l’Impero Romano “i tre princìpi – monarchico, oligarchico, popolare” si equilibrarono fino a giungere al camuffamento della “prevalenza del princeps” con “la restaurazione della repubblica” in età augustea, ove si vede che in atto è solo un passaggio di potere “da un’élite all’altra” di cui il popolo è all’oscuro e la cui effettuazione prevede però “l’appoggio, la conquista, l’utilizzo e la eventuale disillusione delle grandi masse”. Canfora prosegue la sua analisi con l’obiettivo di chiarire se, anche oggi, l’attuale democrazia rappresentativa non coincida, ancora una volta, con la conquista del potere e, inoltre, da parte di chi e con quali mezzi.
Gramsci faceva coincidere lo Stato con il governo di un capo, con la necessità che si coagulassero intorno a pochi nomi, a uno solo alfine, le aspirazioni delle masse oppresse e riteneva di non ostacolare la formazione di questa adesione quasi religiosa, poiché è impossibile “che il comando non si individui, non si personalizzi”, e giungeva a formulare le due definizioni di “cesarismo progressivo” e “cesarismo regressivo”, tramite le quali distingueva poi capi autentici da capi non autentici (“diametrale polarità tra Lenin e Mussolini”). L’analisi del cesarismo si rivela “terza via” tra regime oligarchico e regime popolare. Il cesarismo è sia apprezzato da Marx sia rilanciato dal fascismo: nella ricostruzione dell’uso di quest’ideologia, il filologo e storico mostra, infatti, come esso sia presente nei totalitarismi di destra e di sinistra.
E’ necessario chiedersi se il tirannicidio interrompa davvero il processo storico e politico che ha favorito il suo sorgere. Canfora propende per il no: eliminare il tiranno “non significa necessariamente spezzare tale sistema, e talvolta anzi significa rafforzarlo” dal momento che eliminato il tiranno sussistono gli interessi del ceto che l’ha sostenuto. Inoltre, la stessa “democrazia ateniese ha avuto bisogno, per legittimarsi, di fare della ‘tirannide’ la propria antitesi negativa e di creare, all’interno di tale mito, degli eroi fondatori”. Fondamentale appare dunque il riconoscimento della “distinzione tra il fatto — che dimostra l’inutilità del tirannicidio — e “la mitologia che si costruisce su di esso”, essendo, quest’ultima, falsa. Il tiranno “è un’invenzione, una creazione politico-letteraria”, la quale ha dalla sua parte “un pezzo più o meno grande, talvolta molto grande, della società” .
Naturalmente, Stati forti “non hanno sempre bisogno della ostentazione della forza”. E in questo senso gli Stati sono “ormai quinte teatrali”: “il potere risiede nel più ‘internazionalista’ dei soggetti, il capitale finanziario sovranazionale”. Tale potere è all’opera anche in quella che noi chiamiamo democrazia, esistendo, oltretutto, tanti tipi di regimi democratici quante sono le minoranze “capaci di guidare le maggioranze”.
Tracciato questo quadro, non ha senso fare riferimento a un inevitabile pessimismo nei confronti dell’attuazione di una reale democrazia. Canfora mostra come sia necessario uno studio costante alfine di raggiungere consapevolezza, di comprendere il fenomeno “potere” in tutta la sua complessità. Solo con la conoscenza decade qualsiasi possibilità d’illudersi e di disilludersi.
Rosa Pierno
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