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martedì 20 settembre 2011

Gio Ferri “L’assassinio del poeta. Canti I-IX” Anterem, 2003

Gio Ferri è giunto al quarto libro edito del poema “interminabile”: “L’assassinio del poeta. Chanson de geste exécrable”, mentre un quinto è in fase di stesura.  Ripercorriamo i canti iniziali (I-IX) del primo libro (edizioni Anterem, 2003). Si tratta per esplicita dichiarazione autoriale di un progetto che è un racconto poetico popolare che si sviluppa per ottonari (multipli e sottomultipli), vero e proprio poliziesco: non si sa quanti canti seguiranno, chi è l’assassino, se ci sarà una soluzione, chi è l’assassinato, se il poeta sia l’assassino o l’assassinato o sia la poesia “la vera colpevole: ai danni di ogni discorso comune e di buon senso (cosiddetto)”. Con queste premesse viene  da pensare che il genere venga  totalmente svuotato e che si debba andare a caccia di ben altri colpevoli. Tant’è che già sulla prima pagina è evidente il disegno di una microfosica del potere:  

in coscienziosa vacatio
e timorosa al sostegno d’una ratio, sazio disdegno,
violenza d’una sapienza antica e più innimica
la pietosa rimordente coscienza che pur sollecita
giustifica disquisita disponibile passione
civilissima e crudele
tanto che nessuno può essere punito d’un fatto,
articolo uno, che legge non voglia per quanto reato;

ove non è ragione di dubitare che alla poesia appartenga quella capacità di pensiero che può sovrastare,  comprendendole, le altre discipline. Facciamo riferimento a una microfisica per la relazione che sulle pagine viene tracciata  tra sapere e potere, ove la poesia può giocare un suo ruolo alternativo. Il quadro indiziario, il processo che vi si sta per svolgere è al medesimo tempo il tribunale della ragione, ove però quando si tratti della poesia è a un altro tipo di ragione che si deve fare riferimento. Esiste, infatti, una specificità del pensiero poetico rispetto a quello filosofico.

E che s’ingaggi, immediata, una contesa, un torneo, tra” norma incriminatrice” e  “Orazio fanciullesco” vale come conferma per le nostre intuizioni. In tale contesa fa capolino un io che chiede statuto, ruolo, autorità, riconoscimento con uno flusso irrefrenabile di parole, a testimonianza dell’uso della lingua come arma. Il linguaggio manifesta la sua carica eversiva: “Verginità e amistà sbrodola alla scrofamùta / e la predica s’inchiavica s’immalizia spudorevole / improbata / stessa giustizia e nequizia”; arma irrinunciabile, dunque, per non cedere all’addomesticamento, di cui Nietzsche si fece strenuo oppositore.

Quello di Gio Ferri è un linguaggio che muta incessantemente, reso con sapienza duttilissimo strumento al fine di esprimere un contenuto non disgiungibile dalla forma. Lì dove c’è necessità di descrivere la noia della redazione del verbale relativo al rinvenimento del cadavere, la scrittura rallenta il ritmo, lo fa incespicare, non scorre come non scorrono i minuti in quel repulsivo lavoro: “ Lambrate pulvea e deserta  alla strozza  del curvone / mostruosa e maleodorante la catatonica al sole“ e l’intersezione di un’aurea citazione dantesca è trattata come materiale linguistico perfettamente cesellato all’interno dell’economia del testo. La vicenda narrata è espediente per una rivisitazione delle forme poetiche della tradizione, ripercorse e come rinvigorite dal flusso sanguigno di  Giò Ferri. Vi è necessità di usare tutte le forme a disposizione, poiché ogni forma consente una espressività che non potrebbe essere esplicitata in nessun altro modo se non in quella particolare forma, col che viene a cadere qualsiasi altra necessità di giustificare il ricorso alla tradizione. Le forme non possono essere superate, esse devono sempre costituire il bagaglio del poeta, nessuna esclusa, nessuna considerata fuori corso.

Allora il ritrovamento del biglietto con la poesia, il sogno in cui il personaggio descritto nella poesia ritrovata occorre al Commissario, gli infidi riconoscimenti del cadavere, con le prime illazioni sull’assassinato non sono che stazioni di un gioco da tavolo, in cui la poesia disegna corsi e ricorsi e in cui appaiono le dimensioni incommensurabili tra un’inchiesta condotta con passi logici e una poesia che mostra nelle sue fibre di voler addivenire a puro suono, riducendo la verità a mancanza di senso: “Parola senza parola  / se dice poesia dice /  in tutta poesia nient’altro”, ove il riferimento è all’inesprimibile, compreso e disatteso al tempo stesso.

Né è lasciato inevaso il confronto tra la banalità del quotidiano e la tragicità dell’evento o quella insita nel pensiero, che lo sfondo poliziesco permette d’inscenare, né l’investigazione di alcune situazioni culturali (una serata PATAFISICA), le quali con crudeltà massacrano”ogni senso sensato”,  quasi in Gio Ferri sempre esista l’istinto a tastare col piede il terreno contiguo tra poesia e realtà, se mai esso esista:

Stare alla vita  che ormai più non può essere vissuta.
E beatamente morirne. Oppure capirne l’innata
colpa dell’essere: nel suo divenire può darsi
ancora come l’ultima  illusa (il)libertà?

Domande che appartengono all’ambito filosofico, giacché questo è un poemetto che intreccia nel suo tessuto i due livelli dell’esistenziale e della riflessione su di esso. E dove la poesia, nella concretezza del suo tessuto, mostra la distanza e la specificità d’un pensiero proprio che non coincide con quello filosofico. In fondo, l’inesprimibile è al regno dell’arte che appartiene. E Gio Ferri lo pedina, lo insegue, quasi lo acciuffa. Dovunque questioni irrisolte. Eppure il poeta promette proseguimento: la poesia non è morta (come vorrebbe hegeliano dettato)…..

                                                                                                                     Rosa Pierno

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