Una serie di quadri di piccoli formato, acrilici su legno, che richiamano il formato del libro aperto, meno per la dimensione e più per la presenza di suddivisioni e cornici grafiche caratterizzanti la superficie pittorica, determinano il nuovo corso nel lavoro di Edith Urban. Si vedrà subito come peraltro l’ambiguità del mezzo (quadro o libro) si trasferisce anche alla superficie (planarità o bassorilievo) e al contenuto della rappresentazione (simbolo o figura).
L’ambiguità visiva così tenacemente cercata, ma anche così raffinatamente esibita, si articola in una oscillazione perdurante, volutamente non risolta, tra ciò che ha un corpo e ciò che ha un significato; tra ciò che ha un formato e ciò che è informale; tra ciò che ha tramite fisico e ciò che è solo mentale.
Quest’ambiguità, percettiva e non solo, è costitutiva dell’atteggiamento artistico che Edith Urban inaugura con la serie DONNE.VOCI. Sebbene elemento sempre presente nei suoi quadri, la scrittura assume questa volta posizione predominante o intreccia un equilibrato dialogo con i simboli visivi, semmai si possa parlare di equilibrio tra mezzi espressivi così distanti come la letteratura e le arti visive.
Il quadro si complica, staremmo per dire. Realizza un’azione paradossale, qualcosa che vuole uscire dai suoi limiti, che si avventa contro i limiti dell’arte plastica (per parafrasare Wittgenstein). E, come se non fosse sufficiente, l’artista include nel titolo della serie la parola “voce”. In una convocazione di per sé eloquente: si fa il quadro con tutto quello che si ha a disposizione, con tutta la propria cultura, finanche col proprio corpo.
Le voci di donna, che danno il titolo a ciascuna tavola, sono fra di loro distanti per epoca e condizioni. Le accomuna un’esistenza condotta ai margini, che ha causato loro dolore, ma che è contemporaneamente testimonianza della loro resistenza, del loro rifiuto ad accettare dogmi e verità preconfezionate. La Marie di Wozzeck, l’Orphelia di Heiner Mueller, la Candy di Lou Reed sono figure emblematiche, si accampano in aree vergini, non esplorate. Queste voci vengono di fatto a costituire il sottofondo della nostra visione: di fronte a questi quadri la percezione è richiamata da luoghi diversissimi, subisce sireneo ammaliamento.
Alcune opere recano il segno di una corda, ora distesa a segnare un percorso lineare con i suoi andare a capo, ora raggomitolata, ora groviglio inestricabile, ora incisa nella materia pittorica, ora affiorante in grumi: in ogni caso imprimente in noi il medesimo segno forte. Anche qui, l’oscillazione tra oggetto e simbolo viene sospesa, tenuta sulla “corda” della nostra attenzione.
Seguendo il percorso costituito da ogni quadro, rileviamo la presenza ferma, ma variamente declinata, per intensità o diluizione, del rosso: colore che finora ha caratterizzato le opere della Urban, sia come simbolo sia come puro significante, ma anch’esso, nei nuovi lavori, fortemente equilibrato dalla presenza di luminose e accoglienti gradazioni di colore crema, le quali ci invitano alla riflessione, a meditare sui molteplici fili restituiti da una tale percezione. Tuttavia è alle zone di confine, di trapasso che Edith Urban affida il compito più cogente, certa che un nuovo senso lo si può rintracciare soltanto in quelle zone esistenziali e artistiche in cui l’esperienza non sia esente da rischi.
Rosa Pierno
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