Immagini e testo, i quali condividono un medesimo soggetto, entrambi composti da Ruggero Savinio e presenti nel bellissimo libro “Cartavoce” edito da Pagine d’arte, 2011, mostrano, comunque, un’incerta rispondenza nel confronto, cosa che avviene naturalmente quando si affianchino immagine e testo se appartenenti al dominio dell’arte. A caratterizzare quest’opera è però anche il puro pretesto dell’assunzione dell’avere qualcosa da dire: dove il tessuto di eventi è più lasco, tanto più è pretestuoso il racconto e tanto più si fa insistente l’assunto metafisico dell’essere, quell’essere che è pensato a prescindere dalle sue specificità, il quale s’accampa nel rado spazio lasciato dall’esiziale dato esistenziale.
Poiché le lasse e i disegni di Savinio, nemmeno epifanici, appaiono essere descrizioni e immagini di qualcosa che non fa sorgere senso e, anzi, esso è talmente labile che, in genere, neppure viene evidenziato, quasi fosse secondario. Si pensi alla descrizione di una palma che viene scaricata da una gru in un giardino o alla descrizione di alcuni elementi d’arredo appartenenti a una sala in cui si sta ascoltando un concerto. Ma ciò che è interstiziale, il senso che, comunque, s’abbarbica tra le sconnessure che esistono tra testo e immagine affiancati, emerge, in queste pagine, a maggior ragione e con particolare virulenza.
Il testo, parco e come prosciugato, nella collezione delle pagine delinea comunque un io: accogliente e disabitato, pura cassa di risonanza, in cui la considerazione degli oggetti o delle situazioni, i quali appartengono al flusso che normalmente passa sotto silenzio o sotto la soglia di attenzione, viene ad assumere un ruolo egemone. In quest’esercizio di scrittura e disegno così strenuamente perseguito, il percipiente riflette sulla propria presenza sulla scena e sulla propria durata esistenziale, paventando un’inevitabile, non lontana, chiusura del proprio ciclo vitale individuabile in una progressiva perdita di forze, mentre le immagini percorse da un tratteggio furioso e vitale, lasciano affiorare occhielli di vuoto, di laconica luce bianca.
Le immagini attraggono con la forza del moto con cui sono realizzate, recano impresse un impeto vitale che prescinde dal soggetto rappresentato; il segno si impone rispetto alla scena raffigurata, elettrizza, polarizza, rimescola le parole che sostano sulla pagina sinistra, deforma e attrae letteralmente il testo calamitandolo nella sua orbita nera.
All’immagine mal si attaglia, infatti, il senso pinzato dal testo, e per quanto essa apparentemente rappresenti la medesima situazione, in realtà, rispetto alla parola scritta, distrae e deborda, lima e assorbe, in un’oscillazione non sopibile.
In questa lotta condotta con armi affilate e dissimulate, l’essere s’impone rispetto al dato esistenziale, poiché crediamo che la questione che l’artista pone riguardi il valore: la durata delle proprie opere.
Inutilmente si riporrà il libro credendo di averne terminata la lettura. Il volume, contenente una insanabile frattura, continuerà a lavorare nella nostra mente spostando continuamente la finitezza del proprio oggetto e creando slabbri e lacerate discontinuità. Che cosa chiedere di più a un libro d’arte?
Rosa Pierno
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