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venerdì 22 luglio 2011

Giandomenico Romanelli “Il mistero delle Due Dame” SKIRA, 2011

Un freschissimo, affascinante racconto quello  svolto da Domenico Romanelli nel suo “Il mistero delle Due Dame” SKIRA, 2011, com’è spesso il resoconto della scoperta dell’attribuzione di un autore a un quadro, quasi un racconto poliziesco, con indizi da decifrare e peripezie o viaggi da compiere da un paese all’altro per seguire le peripezie dell’opera, e che in questo caso è particolarmente  intrigante poiché riguarda anche componenti sociali, politiche, storiche e di costume come certi atteggiamenti del Bel Paese nella gestione dei propri Beni Culturali. Un libro che sicuramente consente di comprendere quanto sia complesso il processo di attribuzione e quanto si avvalga di tecniche e considerazioni diversissime tra loro, dal lavoro di scavo nei documenti notarili, di vendita, nei lasciti testamentari, persino nei furti, seguendo la ricomparsa del quadro  in aste o fiere o negozi d’antiquariato, soltanto per fare qualche esempio. Tutto può concorrere a rintracciare l’autore, anche gli elementi più esigui e impropri, che casualmente cadano nel setaccio.   

Ma qui l’autore del quadro intitolato a posteriori “Le Due Dame” è noto fin dall’inizio: Vittore Carpaccio.  Quello che non è noto è che cosa il quadro rappresenti e perché è così anomalo il taglio della rappresentazione: due donne che insistono sul lato destro dell’immagine, una che guarda verso un cane di cui si vede solo la testa, mentre l’altra mira a un punto esterno al quadro, ed è appoggiata a una balaustra su cui un vaso contiene un fiore reciso dal bordo del quadro stesso. “Su questi caratteri, su questa sorta di gelo impassibile e chiuso che mostra di aprirsi unicamente verso un punto a noi invisibile e sconosciuto, su questa atmosfera sospesa e non-misurabile si sono costruite ipotesi e leggende, denigrazioni rabbiose non meno che celebrazioni smodate”. Il che la dice lunga sull’arbitrarietà e sulla difficoltà di mantenere sempre la barra al centro tra interpretazioni e ipotesi di ogni tipo, anche da parte di grandi storici dell’arte.  

Romanelli spiega le difficoltà inerenti al riconoscimento del significato del soggetto, alle numerose ipotesi e alla loro verifica. Ad esempio, per quel che riguarda il supporto, la tavola poteva essere stata tagliata: essa, infatti, sul retro presenta un’altra immagine e alcune tacche che fanno pensare a dei punti di aggancio, a cerniere, e quest’ultime fanno presumere che la tavola potesse appartenere a un’anta, a una portella, a un pannello applicato su qualcosa. Romanelli ricostruisce la complessa vicenda dell’opera e delle sue parti mancanti con linguaggio fluido e preciso e con rigore metodologico. Il racconto si sdoppia per seguire le vicende del ritrovamento del tutto fortuito della parte superiore che combacia perfettamente con quella inferiore (al gambo sarà restituito il giglio) e che consente di comprendere qual è il soggetto. “Stesso legno, medesimo andamento della vena e delle nervature, addirittura perfetta coincidenza e continuità delle gallerie scavate anticamente dai tarli” e inoltre “stessi strati di preparazione sotto il pigmento, stessi materiali impiegati; stesse tracce dei chiodi disposte su una medesima linea”.   Parte superiore a cui, nonostante la riconosciuta importanza del pezzo, sarà ugualmente  dato il parere positivo per l’esportazione.

La ricomposizione dei due frammenti (la prima collocata presso il Museo Correr a Venezia, la seconda al J. Paul Getty Museum a Los Angeles) darà la possibilità di ricostruire la vicenda della tavola, la provenienza e il significato. Ma la sorpresa non termina qui: l’indagine della “fitta ragnatela simbolica della scena”   si va a “collocare dentro a una tradizione letteraria, narrativa,   allegorica la cui trama non apparirà più quell’inspiegabile e bizzarro disporre figure e oggetti nell’umida pesante atmosfera di mollezza senza senso apparente, provocatorie e lascive, di cui s’è spesso favoleggiato”: la sua matrice letteraria immediata  sarà infatti individuata nel proemio del Decameron, nulla, fra l’altro perdendo “della sua smagliante ed enigmatica imperturbabilità”.

Rosa Pierno

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