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giovedì 19 maggio 2011

Gilberto Isella “Mappe in controluce” Book Editore, 2011


Leggendo i versi dell’ultimo libro di Gilberto Isella “Mappe in controluce” Book Editore, 2011, sfilano dinanzi ai nostri occhi cortei epici, parate delle mille e una notte, processioni di santi. In ogni caso vediamo scorrere lo scibile umano, non solo tramandato attraverso i libri, ma le opere tutte dell’umano ingegno. Che cosa dovrebbe implicare avere sotto gli occhi, la più grande quantità di conoscenze? L’artista sembrerebbe voler verificare che cosa è possibile fare/conoscere con la più grande quantità di libri possibile: sorta di sogno leibniziano, contrapposto a quello cartesiano, nel quale si sceglie attraverso un metodo: qui, invece tutto viene riunito sulla pagina senza distinzione: si scriverà il libro universale e poi si ricomincerà daccapo. Naturalmente qui la posta in gioco  non è solo quantitativa. Si cerca nel pagliaio l’indizio risolutivo, sapendo che si conosce già tutto fin dall’inizio: la chiameremo, allora, prova del nove.  Quel che si insegue è un risultato ottenuto per vie traverse, intestine, clandestine, inusuali, paradossali, errate. Se l’assunto è vero, e cioè che non esiste altro fondamento che la scrittura, allora si deve giungere anche per altre vie al medesimo risultato. E l’esperimento consisterà nello scrivere il libro dei libri, il libro sintesi: la mappa per gangli, nodi focali, sintetica, che funziona come un indice di tutte le mappe esistenti. Nuovo libro: sia chiaro! Di autonomo valore, di altissima cifra stilistica, in cui la sintassi è fratturata come un vetro realizzato con la tecnica del raffreddamento ad acqua che sia stato colpito e ricomposta in un impossibile collage che voglia addivenire a integra forma.

Gilberto Isella individua nel tempo una componente essenziale dell’esperimento/esperienza: risuona qui integra la visione benjaminiana del passato come proiezione proveniente dal futuro: indubbiamente la domanda è lecita: con tutte le testimonianze che l’uomo ha lasciato a se stesso, nulla l’uomo impara? Nulla gli insegna a evitare la guerra, la sopraffazione, il dolore? E’ dunque con una non retorica volontà di riproporre il problema, quasi fosse l’estratto finale che si può trarre da tutti i libri prodotti dall’umanità, che Isella, ridicolizza il monumento culturale eretto dall’uomo: “salva sguardo criptato la guerra / e l’abbaglio in un occhio disfatto /  l’armonia la ritrova per l’embolo / che balbetta nel sangue eclissato”. Qualcosa incrina dunque il totalizzante  progetto e pare essere il linguaggio stesso con il suo scarto tra significato e significante:

il minimo colpo di tosse che ha il gotico vento
muove l’asse dei segni in questa chiusa cattedrale

occulte nervature trovano nuovo alimento
palinsesti si accendono nel vuoto sepolcrale

dai costoloni rifulgono creature d’oblio
nei monogrammi si staglia la parvenza del dio

ove si comprende che il linguaggio, ciò che crea, ciò che tesse trame, oggetti e presenze  è al tempo stesso infido e instabile: vi si annidano trappole e imprevisti. La costruzione dei mondi è certa almeno quanto è temporanea. E dalle costruzioni umane la scienza non è esclusa, essendo anch’essa un prodotto storico. Né, dalla perlustrazione, è esclusa l’arte, con i suoi valori eterni, poiché ampliando i territori di ricerca, si scopre sempre la medesima falla: “la legge del sospetto metta in guardia dal traforo / che ogni vano domestico condanna a lente usure / utopie di tele nuove diano belle imposture / se bianca crema al muro appesa è tavola d’orrore”. Non v’è nemmeno modo di rafforzare le barricate difensive atte a salvaguardare un’area di tregua creando relazioni, stringendo alleanze tra diversi ambiti del sapere, ad esempio tra trascendentale e immanenza: “ a morsicare anime nell’aldilà / sono sempre i denti falsi a farla franca”. Dopo tanti secoli di cultura occidentale risultiamo esangui, “aventi un fosco interno” abbiamo perlustrato in ogni dove, “con discrezione abbiamo leccato tutto il pasto”. E ora, nel presente, “non è chiaro chi guadagna o perde in quest’impresa / mimesi di magnifica sorte o atto mancato”. Ma c’è ancora tempo per una magnifica rappresentazione teatrale, sorta di convocazione finale di oggetti e persone che abbiamo tanto amato, di cui non potremmo in alcun caso fare a meno, anche quando se ne sia saggiata l’illusoria presenza o consistenza:

arcimboldesca faccia a virtù elevata
rampa virente in varia carne finita
brillante labbro per frasca derelitta
o gambo giovane per ruga imbolsita

a testimonianza anche dello stile varissimo dei versi che si susseguono nella raccolta di Gilberto Isella, i quali formano un collage visivo delle forme metriche della tradizione e che appare infinita rispetto a quell’altro infinito che la sovrasta: il futuro e in cui il finito, l’uomo, appare un niente secondo la lezione pascaliana. Né nulla può fissare il finito, racchiuso tra questi due infiniti: “queste lezioni sullo schermo passano / per inventario o poster naturale / si celebra così anche postremo  un cosmo / nei gesti in cui involvendosi risale”. E’ amara quanto disillusa la perlustrazione compiuta da Isella, e non esente da un cinismo paradossalmente sofferente, poiché al cinismo il poeta si sente costretto dalla situazione di crisi  dell’epoca in cui vive: “ci propose la più alta algebra dello sguardo, e noi faremmo di tutto per postillarla, piccole rane cieche nello stagno, postume dentro la divina palude”.  Ed è certo un cinismo strettamente legato alla malinconia, quasi una sua estrema variante, aura tormentosa che emana dalla figura di Saturno e che connota sinistramente il ruolo del poeta, il quale è, inoltre, consapevole del suo “povero dire”, rivestendo un ruolo che la storia ha fatto fuori: “al dio triste il partire e senza alloro / verso derive dell’età dell’oro”. Il cinismo può però ancora essere  tramutato in ironia, una forma comunque costruttiva poiché critica: vengono messi in contatto in un avvampante corto-circuito i materiali culturali con i moderni mezzi mediatici, ottenendo una critica alla società contemporanea la quale svilisce, anziché riattivare, la nostra capacità di costruire una diversa visione del mondo. La conclusione della silloge prefigura uno scenario agghiacciante: paesaggio disegnato da radiazioni. Ma resta nitido un messaggio: la cultura, comunque, è la nostra unica possibilità per deviare il tracciato segnato da un incombente destino.

Rosa Pierno

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