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martedì 29 marzo 2011

Alcune poesie da "Nella storia" di Sebastiano Aglieco

Tra forma e non forma esiste un passaggio che è piuttosto incessante evolversi dell’una nell’altra, anziché frontale contrapposizione. Ciò che si credeva fermo, fisso, immutabile viene travolto dalla storia come da un alito di vento-respiro. Porsi come soggetto in questo voltolare di nastro di Möbius  è  perciò stesso eroico. L’appartenere è sradicarsi, la legge è fiato, eppure bisogna governare questa mutevolezza,  bisogna dare forma. E’ questo ciò che viene affermato dall’atto creatore del poeta, il quale, fissando le proprie parole in una forma, prende su di sé il carico di una fondazione – intanto che continua a registrarne ogni mutevolezza – la responsabilità di avere operato una lettura, di avere imposto un ordine  e di averla fissata come immutabile: fu, infatti, altro mai il poetico verso se non mutevole e fisso insieme?


Da “Nella storia” di Sebastiano Aglieco, edito da Aìsara, 2009

Aforismi della veglia

I
Credevo in una forma
e nel suo essere per sempre
in una volta sola –
un fiore obbligato
da una decisione:
ecco, sono qui.

II
Voce, fratello mio concluso
appartenere è sradicarsi
togliere fino a vederti
lasciarti respirare in una bocca.

III
Posso arrivare a te da
un fiore di campo
le striature di un calice
il vento che lo cambia in un respiro.



Esiste la conformità a una legge
uno schianto della luce
che bisogna governare
il latte del mattino
la corrispondenza dei fratelli.

La parola ha un fiato lungo
una retta infinita
che ci attraversa una mattina
con il dolore di una precisazione.


Noi saremo giudicati per
il tempo che la parola si è fermata
ospite come un fratello
estranea nell’incedere del verso
esatta e calcolata come
un sorriso donato
una verginità che non ci difende.

Noi saremo giudicati per una
rifondazione, l’essere appartenuti allo
stesso paesaggio, a una sola preghiera
all’unica ferita nella Storia.


Sebastiano Aglieco è nato a Sortino (SR), il 29 gennaio 1961. Vive a Monza e insegna a Milano nella scuola elementare. Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: Minime, Lalli 1984; Grandi Frammenti, Tracce 1995; Le colonne d’Ercole, Firenze Libri 1996; La tua voce, Polena 1997, con una nota di Milo De Angelis; Giornata, La Vita Felice 2003, presentazione di Milo De Angelis, premio Montale Europa 2004; Dolore della casa, Il Ponte del Sale 2006; Nella storia, Aìsara 2009. Collabora a numerosi blog. Da molti anni si occupa di teatro di scrittura poetica  in ambito educativo, ed è attivo come regista, attore e formatore. Tutto il lavoro critico svolto in questi anni è ora raccolto in Radici delle isole, i libri in forma di racconto, La vita felice 2009

venerdì 25 marzo 2011

"Ultimo quarto" mostra di Giulia Napoleone a Mendrisio


Mostra di inchiostri e incisioni presso la galleria Stellanove Spazio d'Arte, Mendrisio, Svizzera, dal 10 aprile al 22 maggio 2011

  
Se mai fosse possibile definire barocchi i disegni di questi ultimi anni di Giulia Napoleone, non lo si sussurrerebbe, ma lo si esclamerebbe investiti da un’incontenibile sorpresa, poiché rispetto alla rarefazione, alle trame larghe a sufficienza per mostrare ampi occhielli di vuoto, alla prevalenza del bianco baluginare della carta tra gli arati segni tracciati dal pennino, questi fogli letteralmente grondano di segni: essi s’infittiscono fino al punto da sovrapporsi più volte, mimano profondità che non sono solo quelle analogiche del firmamento, siderali, ma sono quelle di un’interiorità che afferma, che ritorna sullo stesso punto per ribadire, per portare alla medesima evidenza dell’esistente ciò che è soltanto immaginato. E grondano anche di caratteristiche, di attributi, quasi che la materia più che sostanza fosse un’infinita lista di qualificazioni. Mai essenza!

E contemporaneamente da questo firmamento che fa impallidire l’ideazione grafica dei vortici di Cartesio, da questo vuoto che pullula di materia e di luci – e non si sa se i grani bianchi siano lucori o porzioni di vuoto impenetrabile alla materia – che si sa essere indistinto e infinito nella percezione comune, ecco apparire una figura geometrica, quell’ellisse di kepleriana memoria, che è proiezione totalmente umana, rigorosa e precisa, pure, nel regno dell’indistinto.

E’ una serie di disegni che declina, a partire da una forma geometrica che fa da filtro, da assunto, da ipotesi, tutte le possibilità insite, appunto, nella forma individuata. Sarà allora un ovale che racchiude una diversa granularità materica  o sarà una semplice linea tracciata tra due materie uguali o un ovale che contiene una florescenza di bianchi lumeggianti immersi in un intorno buio che va sempre più affievolendosi ai bordi del foglio o una membrana che impedisce il passaggio di alcuni corpuscoli luminescenti ad un’altra zona che solo un’ombra indica come avente una diversa volumetria.

Se invece l’assunto è una linea bianca continua e frastagliata, che ricorda vagamente un frattale – poiché non siamo mai troppo lontani dalle immagini che nei secoli hanno accompagnato le definizioni scientifiche – essa si ripercuote nella materia indistinta come farebbe un’onda, come un’eco, come una faglia, una frattura che crei diversità dove altrimenti si percepirebbe solo continuità, oppure come un grido o una folata di vento che si stia  ripercuotendo anche sulla nostra pelle.

Se, altrimenti, il postulato afferma  solo una diversa granularità materica o una diversa consistenza allora il disegno mostrerà porzioni triangolari di innesto, di intersezione, ove è sempre la geometria la componente mentale che si tenta di applicare anche a una materia così difficile da quantificare. Difficilmente in questi disegni le forme riposano su un piano. Esistono le ombre sempre, tutto proietta ombre e, dunque, volumi emergono a dispetto della superficie!  

Sono questi i miracoli che sgorgano dai disegni di Giulia Napoleone. E abbiamo esclamato barocco perché sono, i disegni di Giulia, vere e proprie macchine della meraviglia che ci consentono di guardare la materia a qualsiasi scala e di vedervi affiorare sempre l’inconosciuto, il non immaginato. 

Con Giulia non siamo mai in un porto sicuro, non si può guardare una sua opera dalla balaustra dell’ultima terra, non ci sono colonne d’Ercole che sia possibile non oltrepassare. L’esplorazione è tale da capovolgere persino le abitudinarie dimensioni spaziali della nostra percezione. E’ così che  la serie “Altro Inverno” è una cartografia dell’esteso e dell’inesteso contemporaneamente. L’analogia vi funziona in maniera particolarmente ambigua: sembra traghettare verso l’altra sponda, in realtà rovescia il punto di vista, sfonda il velo, sostituisce la  scala di riferimento. Tutto ciò mostra che l’operazione analogica e metaforica non è che uno stato di passaggio, una porta tra diversi gradi di conoscenza, un’esperienza volta soprattutto a raggiungere la consapevolezza delle modalità conoscitive che mettiamo in atto, dei loro limiti, errori, ma anche delle loro possibilità. La rappresentazione è una modalità di apprendimento, un processo, una pratica, una tecnica, ma è anche mezzo per liberarsi dalla fissità dei concetti e dei saperi acquisiti. Porsi dinanzi alla rappresentazione del firmamento o delle ombre è  ricreare la propria visione, letteralmente inventarsela.

Vi è anche un altro aspetto che emerge dall’osservazione di queste straordinarie opere ed è quella relativa alla metafora del viaggio, dell’osservazione inesausta e persistente, ossessiva e tenace che viene condotta su larga e diversificata scala: le grandi linee ondulate del deserto  della Siria o le stellate ramificazione dei palmizi o le vie del cielo stellato. A dimostrazione che non importa quale materia venga sottoposta ad analisi per tentarne la rappresentazione, per ricercare le regole soggiacenti atte a una sua restituzione. Quello che resterà sul setaccio  sarà, comunque,  puro oro. 

Rosa Pierno

martedì 22 marzo 2011

“Roma e la Musica” di Fausto Razzi

Stralcio dalla prefazione a più voci dell’opera in corso di pubblicazione “Sotto il cielo di Roma“ (Roma nella poesia del mondo, da Licofrone alle Neoavanguardie degli anni ’60) a cura di Filippo Bettini

Per il tema Roma e la Musica il primo nome che viene alla mente sarà quasi sicuramente quello di Giovanni Pierluigi detto il Palestrina, Princeps Musicae, noto a tutti - per lo meno come nome, appunto - persino nel nostro paese di analfabeti musicali.
Ma oltre al nome di Palestrina, la cui opera - indubbiamente complessa e rilevante - si presenta più come sintesi delle esperienze di tutto il Cinquecento che non come preannuncio di quei mutamenti stilistici che portarono sullo scorcio del secolo alla nascita della musica moderna, molti altri ne vengono suggeriti da questo binomio: nomi tutti legati invece a quell’idea di avanguardia che è senza dubbio una necessità in ogni epoca. Quattro sono sufficienti: Luca Marenzio, Emilio del Cavaliere, Giacomo Carissimi e Gerolamo Frescobaldi. Se in Italia la conoscenza della letteratura musicale non fosse quella che è, la loro opera sarebbe giustamente conosciuta e apprezzata quanto quella di Ariosto Tasso Caravaggio Bernini Borromini.
Un aspetto molto interessante dell’attività musicale a Roma in quel periodo è poi dato dalle grandi manifestazioni che avevano luogo in S.Pietro, nelle quali il suono veniva proposto da vari “cori” vocali e strumentali che si fronteggiavano e si rispondevano, unendosi insieme in un complesso e mutevole spessore sonoro: si trattava indubbiamente di una continua sperimentazione sulla spazialità del suono, che prevedeva anche la costruzione di palchi - anche sovrapposti - su cui venivano situati i vari gruppi: una sperimentazione oggi pressoché sconosciuta, poiché persino la maggior parte dei musicisti ne ignora l’esistenza, ritenendo che esecuzioni di questo tipo fossero in quell’epoca una prerogativa della sola Basilica di S.Marco a Venezia.

Ma se in questo caso si tratta solo di ignoranza, la stessa considerazione non vale forse a proposito del silenzio calato sugli esperimenti di spazializzazione e movimento del suono effettuati a Roma in anni recenti per Nuova Consonanza dall’ing. Vittorio Consoli alla Galleria d’Arte Moderna. Nel 1977 egli progettò e realizzò infatti una complessa struttura formata da 128 altoparlanti sostenuti da una intelaiatura metallica a forma di cupola: il pubblico era collocato all’interno di questa e i suoni potevano essere indirizzati verso uno qualsiasi degli altoparlanti (ed ovviamente spostati dall’uno all’altro). Un progetto di spazializzazione non virtuale (come quella cui ci ha abituato in seguito l’informatica) ma reale, il cui unico precedente è quello di Le Corbusier e Xénakis con musica di Edgar Varèse al padiglione della Philips per l’Expo di Bruxelles del 1958. Tra parentesi, la proposta di Consoli era infinitamente più aderente e funzionale alle richieste dei compositori di quanto lo siano gli schemi tradizionali sui quali Renzo Piano ha fondato il progetto del recente Auditorium romano.
Nuova Consonanza, dunque: un’importante testimonianza del fervore intellettuale esistente a Roma nel periodo che va dagli inizi degli anni ‘60 fino agli anni ’80. Un’associazione la cui attività è stata così intensa e articolata da farne un centro di conoscenza della musica contemporanea che non solo non ha avuto pari in Italia, ma che è stato addirittura un punto di riferimento insostituibile per i movimenti dell’avanguardia a livello internazionale. Roma si era già trovata in una situazione privilegiata - e proprio nei confronti della musica contemporanea - nei primi decenni del ‘900: basta scorrere i programmi dei concerti dell’Accademia di Santa Cecilia all’Augusteo per rendersi conto che i più grandi compositori del primo Novecento approdarono a Roma nei trent’anni dal 1908 al 1938. E a Roma, oltre a numerosi intellettuali (Sacripanti Afro Consagra Capogrossi), hanno operato compositori di rilievo internazionale (Casella Petrassi Scelsi Evangelisti Clementi Guaccero): ma a questa circostanza - già in sé estremamente indicativa - si deve poi aggiungere la considerazione che la convergenza in un unico luogo di una serie di persone, di interessi e di energie è resa possibile anche dalla presenza di eccezionali operatori culturali: nella vita musicale romana troviamo infatti - in periodi diversi - figure totalmente differenti, ma accomunate dalla medesima volontà/capacità organizzativa: il conte Enrico di San Martino (Presidente dell’Accademia di Santa Cecilia dal 1895 al 1947) e due compositori: Alfredo Casella (dagli anni precedenti la Grande Guerra fino all’inizio della Seconda) e - nel secondo dopoguerra - Franco Evangelisti, fondatore (insieme ad altri compositori) di Nuova Consonanza.
Ma la felice situazione della vita musicale romana durante il secolo ormai trascorso non deve tuttavia far dimenticare lo stato presente delle cose, purtroppo assai diverso. L’inconsistenza culturale che caratterizza la maggior parte della classe politica italiana - quando non addirittura la mancanza di un interesse reale per la cultura - ha determinato una pressoché totale acquiescenza alle leggi del mercato, e le conseguenze di questa resa si sono rivelate particolarmente preoccupanti negli ultimi anni: è stato infatti attaccato il concetto del sostegno pubblico alla ricerca e alle operazioni culturali in genere, che si vorrebbero del tutto privatizzate, per far rientrare anche la cultura tra le attività con fini economici.
Quanto all’area specificamente musicale bisogna poi dire 1) che nelle Istituzioni pubbliche molti operatori si sono comportati come se l’unica produzione contemporanea fosse quella della musica di consumo, e 2) che un’insufficiente conoscenza si riscontra anche tra gli intellettuali, al punto che l’allora Sindaco di Roma Giulio Carlo Argan - presentando in Campidoglio Goffredo Petrassi - lo definì “uno dei più importanti operisti italiani”.
Ci si augura naturalmente che il fenomeno sia solo temporaneo, anche se un’inversione di tendenza non può che partire dall’azione decisa di tutti gli intellettuali. In ogni caso la musica si presenta oggi a Roma per lo più come un seguito di cosiddetti “eventi”, allineati perfettamente alle direttive di chi sostiene che la proposta culturale deve adeguarsi al mercato, e quindi conosce ed apprezza solamente la produzione imposta dalle multinazionali. E le stesse Istituzioni musicali non comprendono che per formare un nuovo pubblico non sono sufficienti proposte fondamentalmente conservatrici, anche se di buon livello, perché queste interessano solo coloro che non accettavano Stravinskj, che non accettavano - e tuttora non accettano - Schönberg, e che quindi rifiutano la musica del nostro tempo, quella degli ultimi cinquant’anni (che infatti è insufficientemente presente - sotto ogni punto di vista - nei programmi dell’Accademia di S.Cecilia). Non comprendono che per avvicinare realmente i giovani a Mozart non è sufficiente eseguire le sue opere, contando magari sull’effetto di una temporanea curiosità suscitata da banalizzazioni tipo Amadeus: la sua attualità  si comprende se la si confronta con il presente, con le difficoltà della nostra epoca, ossia appunto con la musica del ‘900. Ma per far questo occorre rischiare: e gli esempi del conte di San Martino, di Casella e di Evangelisti dimostrano che solo con il coraggio di chi crede in una buona causa si possono coinvolgere le nuove generazioni nella conoscenza di un linguaggio realmente attuale, che sia quindi strumento di riflessione.
Il problema è dunque ancora una volta quello di rendersi conto che la memoria del passato - indubbiamente una necessità imprescindibile - non può essere considerata un’operazione fine a se stessa ma (come sempre è stato) la spinta propulsiva per affrontare il presente e guardare con coraggio al futuro. E intendere questa necessità dovrebbe essere la prima preoccupazione di chi è preposto all’organizzazione della cultura.
                                                                                                                                          Fausto Razzi

venerdì 18 marzo 2011

"Passato in frattali" di Gilberto Isella


Il libro d'arte di Gilberto Isella e Loredana Müller “Passato in frattali”, edizioni Josef Weiss,  è stato realizzato in occasione della mostra "Partiture cromatiche" presso la Galleria Stellanove di Mendrisio (Svizzera) nel giugno del 2011


“Passato in frattali”, di Gilberto Isella, ci conduce in un percorso che si snoda attraverso due oggetti irriducibili:  il passato e la geometria e irriducibili non tanto perché  lo spazio è concetto astratto, mentre il passato esistenziale è legato all’immanenza, ma perché il passato del poeta, la sua infanzia, viene infilzata, fissata da rette che sbucano in ogni dove, trasfigurandone la fisionomia, facendola divenire luogo impossibile, di fiorenti paradossi: in cui affiorano non oggetti riconducibili a forme geometriche, ma oggetti geometrici veri e propri che invadono, appunto, l’esistenziale spazio. Non una cuccia o una casa, ma un prospetto; non un osso ma un trapezio. Oggetti che non potranno mai equivalersi, che non potranno mai dedursi l’uno dall’altro e la cui convivenza, nei versi di Gilberto Isella,  li rende pari alle presenze fiabesche, favolose. E non spira forse un vento di ilare adesione, di felicità esuberante da queste intersezioni impreviste e sorprendenti? E lo stesso spiritoso vento passa e tira via con sé anche le parole che per il solo cambio di una vocale visualizzano sulla pagina un drago, o si scambiano numeri e lettere come fossero assommabili, mentre l’aula dove il maestro si sbraccia per seguire le rette all’infinito diventa un vettore e riccioli di lana, seguendo le curve del belato fanno slalom sulle corna di poeticissima capra.



Passato in frattali



1

E dov'erano quelle, dove proferirle
le geometrie, da quale suo passato?

Parabole in smalto
tra il già dissolto terrazzamento

E fagotti di nebule, 
il ripostiglio caudato, poi rette ancora
dovevano, invitte trovarsi

Alle soglie del colosso - la vita -
nell'ombra braccata del cane
quando a prospetto ne esala
la fragile totalità di un osso
trapezio di bambagia

Nel luogo dove i luoghi
non portano attestati e ogni segno
è un salto di canguro nell'eclisse
*

(voltando e rivoltando nerissime lavagne
i maestri gli dicevano
che le rette non vanno a zigzag
e diago non ha nulla a vedere con drago

dicevano che loro continuano oltre le finestre
lo dimostravano con lunghe bracciate
e tutta l'aria balzava fuori, all'improvviso
e l'aula diventava la vita  che ha un solo vettore,
stupendo..)




2


Della biforcazione naturale di un numero
adulare il soffio mancante, il liberato

Tenerlo in gola per due bandierine
- l'azzurra se  è "numero"  la  rosa se è "cifra"  -
issarne la gioia  e incoronare
la vettovaglia dei vettori

Nel seno di un fuoco tra l'uno e lo zero
simmetrie di quarzi per l'infinità

Infinità su finitezza
mai scissa per oltranza di pensiero
sebbene spesso rotoli in assioma
dall'asse in giù
soltanto la faccetta cogitata

La stessa che mutando lineamento
si esibisce in altra specie sulla scena

Dove siede una  pecora  agli orli di pietraie
aritmetica lana  avvolgendo il suo belato
per due corna di sfogo
                                         sola  mente



3


La caverna riprodotta nello specchio
si porta addosso una manica di vento
                     e così trema il cristallo dei cavalli
sulle tue dolci spalle d'avena

Come l'originario aspergersi
                     o il concavo declino delle rocce
dentro stanza dal centro minato
invasa chiglia che l'immemore solleva

Come traiettoria che non forme
al suo andarsene trascina
ma ombre viventi travagliate, e il soffio

Meditando il suo imbrunire
al punto di scarico, di addio

A te rilascia un cantico di pena
- eccola, passata selce di presente -
se lungo il luminare al varco
dà sostanza
                     un matricidio    un dardo
profumato



Gilberto Isella (Lugano 1943) è poeta e critico. Laureato in lettere e filosofia all’Università di Ginevra, ha insegnato nel Liceo cantonale di Lugano. È coredattore della rivista di cultura “Bloc notes” e vice-presidente del Pen Club, sezione della Svizzera Italiana. Collabora al "Giornale del Popolo", a riviste letterarie svizzere ed estere, e al festival luganese Poestate. Ha tradotto dal francese Charles Racine e Jacques Dupin, e curato un'antologia di scritti dell'artista Mario Marioni. Tra le ultime raccolte poetiche si segnalano: Nominare il caos (Locarno, Dadò, 2001), Fondamento dell'arco in cielo (Lugano, alla chiarafonte, 2005), Corridoio polare (Castel Maggiore, Book, 2006) e Taglio di mondo (Lecce, Manni, 2007). Per il teatro ha scritto Messer Bianco vuole partire (Lugano, alla chiarafonte, 2008). Di imminente pubblicazione: Mappe in controluce (Book Editore) e Variabili spessori (alla chiarafonte).

lunedì 14 marzo 2011

Simon Edmondson e Marcelo Salvioli, mostra presso la galleria Spazio Nuovo a Roma

Nella mostra “Huis Clos” , che si inaugura il 4 aprile 2011 alle ore 18,30 presso la galleria “Spazio Nuovo”,  col patrocinio dell'Ambasciata Britannica e dell'Ambasciata Argentina in Italia, Paulo Perez Mouriz non si è voluto esimere dall’imbastire un confronto tra due artisti che colloquiano con la tradizione in modo potente e differenziato e che effettuano una disamina di alcune modalità di rappresentazione che non risolvono l’ambiguità, l’incertezza, ma anzi la usano come grimaldello per portare in nuce questioni che emergono proprio da alcuni aspetti visuali, inerenti la forma. Siamo lontani dal concettuale, ma di fronte a una pittura che usa la figura come forma del pensiero. Non pochi sono  i punti di contatto che si possono individuare tra i due artisti, e che emergono dopo essersi lasciati assorbire dalle immagini, dopo cioè che li abbiamo afferrati nella loro singolarità, seguiti nelle evoluzioni della loro materia pittorica, affiorante tramite una  temporalità diluita che rende alfine instabili i profili delle cose, la loro stessa sostanza. Il tessersi di tale straordinario dialogo tra le opere esposte, le quali condividono, inoltre, la tematica degli interni/interiorità, viene ribadita da stili che riescono a modulare e a veicolare un senso riverberato in infinite sottigliezze e modulato in mille guise.
     
 Simon Edmondson



Uno scalone, che dà il titolo a quest’opera, s’eleva da un pavimento di terra battuta, non finito o distrutto, e porta in un antro buio, in una gola fonda;  un salone come segno di vetusta beltà, di franta interezza, incastonato in una mole architettonica di cui si è conservata la struttura se non gli ornamenti. Sullo scalone è rimasto pressoché integro un tappeto rosso, insegna dei passati fasti,  che la luce proveniente da un finestrone laterale fa risorgere in tutta la sua lussuosa vivacità. E’ un interno inseparabile dal concetto di esterno, allo stesso modo in cui risultano inseparabili maestosità e caducità, presente e passato.

Se tempesta intervenisse in chiuso ambiente apportando scompiglio, rompendo e spostando mobilia e suppellettili, ci si ritroverebbe con una cornice che sfida la gravità, con una colonna franta, un camino che avesse raggiunto l’agognata finestra e un cavaliere su cavallo in bronzo che, aureolato dalla luce, marciasse verso la credenza. Favole o paradossali gesta possono compiersi quando l’interno si mescida con l’esterno. L’utilizzo estremamente diluito dell’olio su carta accentua l’instabile presenza degli oggetti presenti nei nostri ambienti quotidiani, rendendoli soggetti all’instabilità delle nostre percezioni.  

Nell’olio su tela intitolato “Sanctum”, è la luce che determina nell’ambiente ciò che si muove, ciò che sta dentro di noi o appartiene al mondo fisico, causando, inoltre, una sensazione di estraneità rispetto a ciò che normalmente  accompagna i nostri gesti giornalieri, la tazza da the, le righe del parato fra cui ci perdiamo, lo specchio in cui ci riflettiamo e dove l’io resta paralizzato dall’immagine mossa del quadro come sulla superficie ondulata della bollente tazza di the.

Quel che accade in “Sala Azul”  è ciò che accadrebbe lasciando scorrere il tempo in un interno. Se il tempo ha un effetto sulla corruzione della materia  lo ha anche nei confronti di ciò che è spirituale. Lo sguardo scorre sui cambiamenti esistenziali: come separare l’interno, infatti, dall’interiorità? D’altronde non v’è modo di percepire nemmeno la cesura tra pareti e vetrate: un soave cilestre, mediazione fra il grigio verde del lampadario preda delle vegetazione e del bianco del soffitto, ci avvolge come consolazione del vissuto che non perdiamo finché memoria ci sostiene.   

Sapiente movimento in “Grey Cocoon”   avvinghia i corpi e li confonde nella greve ombra della camera. Corpi il cui moto ha la pesantezza temporale di un calco di gesso che ancora renda vivida sotto i nostri occhi la scena.   Per gli amanti coincide con l’intimità dei corpi il vero risiedere all’interno di qualcosa.

L’interno deve necessariamente condividere con lo spazio fisico e mentale la propria essenza: in “Chaplin” veniamo accolti in una sala cinematografica in cui non penetra luce se non quella artificiale della proiezione.  Biancastra luce dello schermo che ci proietta all’esterno, eppure, verso il non-esistente. Non può chiudersi il cerchio, quando interno e esterno, realtà e artificio, interiorità ed esteriorità sono così inestricabilmente connessi.  

Marcelo Salvioli



Viene prepotentemente alla memoria il fregio del Partenone, guardando il disegno “L’ultimo accademico”: è sufficiente la dea seduta col corpo mancante di testa e di braccia, ma ancora pudicamente coperta da un panneggio geometrizzato ottenuto da un ossessivo reiterare di matita nera. Esistono dunque panneggi – ciò che c’è di più fluido e mosso dopo lo scorrere dell’acqua - che resistono al trattamento geometrico o che restano tali anche quando la mente voglia apporvi un ordine. E che il riconoscimento di una diposizione piramidale dei segni confermi la prima impressione di trovarsi di fronte a un timpano non viene contraddetta dalla seconda scoperta: quella poltrona accampata al centro della scena che accoglie una figura anch’essa avvolta da panneggio. Il gruppo ha come fondale una lavagna; certo potrebbe essere anche tracciato su di essa e non ce ne stupiremmo poiché gessetti e  mano e asta per indicare sono in primo piano a confondere le idee o a dire che appunto tutto è tracciato/tracciabile su lavagna. In questo senso le cifre e le lettere presenti nella zona omogeneamente grigia ci parrebbero indicare una volontà di unificazione che non viene raggiunta attraverso formulazione matematica, trattandosi di una totalità non raggiungibile, appunto, che attraverso l’arte.    

Poltrona non è forse sufficiente a individuare un gran personaggio? Con le sue volute, le sue eleganti curvature e l’affascinante disegno a righe della stoffa, che dona all’intero disegno “Grande Personaggio” un moto tellurico, la poltrona basta da sola a tratteggiare la figura, a donarle personalità, presenza carismatica. Corpo, in fondo, non fa che prendere a prestito le sue curve, si tappezza con la sua stoffa, braccia prendono la posizione suggerita dai braccioli e gambe risultano superflue. Sarà tutta la figura a muoversi, persona saldata a poltrona, a vibrare di presenza: incontrovertibile, seppure soltanto immaginata. 

Corpo non sarà mai più separabile da poltrona. Esiste una canonica forma d’arte, un modo di effettuare un ritratto, di restituire una persona che non può fare a meno della poltrona, quasi come se essa  ne costituisse l’ossatura, la strutturasse. Nulla di più mentale della personalità e nulla di meno prosaico di una seduta sebbene di manifattura pregiata: ecco le  due inestricabili complementarità, la non separabile dualità che ritroviamo anche in “Personaggio I”.   

Non esiterà, petrolio, a posarsi come seconda pelle sul marmo simbolo dell’età greca, nel disegno “Museo Incatramato”. La Nike sembrerà però farsene beffa e come un vento che ancora scorra sulla nostra pelle, risplenderà per la luce proveniente dalla finestra dell’angusta stanza in cui appare rinchiusa. Le grandi pennellate di pigmento grigio tracciano clausura e libertà con un movimento scattante,  simbolicamente contrario alla staticità del contenitore museale. Siamo in presenza di una serie di coppie oppositive che vengono tenute magistralmente in bilico consentendo loro di mostrare le mille, mobili, slittanti intersezioni di senso  e di forma, che, invece, una livellante omologazione impedirebbe.
                                                                                                                          Rosa Pierno

http://www.spazionuovo.net/

venerdì 11 marzo 2011

Christian Bonnefoi "Membra disjecta" mostra a cura di Pia Candinas

Il titolo della mostra, Membra disjecta, presso la Galleria della temple University, inauguratasi il 3 novembre 2009, fa riferimento a una procedura in uso tra i pittori francesi (Poussin, Le Brun) a partire dal 1600, secondo la quale i disegni preparatori delle figure venivano letteralmente fatti a pezzi e ricomposti, allo scopo di cercare per gli arti (membra) nuove posture prima di giungere alla composizione finale. Una tecnica antecedente al collage cubista di Picasso e Braque ma tuttora poco conosciuta. L'artista lavora con sottilissimi strati di carta, tessuto, adesivi e pittura. I lavori sono appesi direttamente al muro, abolendo così l'utilizzo dei convenzionali telai di legno e danno l'idea di essere leggeri e delicati. Sono invece molto resistenti e creati per durare nel tempo. Con i loro bianchi e neri e quei colori netti e semplici, danno una rilassante impressione di semplicità, richiamando quell'epoca felice di quasi un secolo fa quando gli artisti Francesi inventarono la pittura moderna. Inoltre, a dispetto del formato, questi lavori non hanno nulla a che vedere con la moderna idea di “installazione” ma sono, senza ombra di dubbio, dipinti.

Quando Picasso e Braque inventarono il collage nel 1912, cominciando ad incollare pezzi di tela cerata, carta da parati, corda, intelaiature di sedie, pagine di giornale e altro alle loro tele, resero esplicita l'esistenza materica del quadro, creando una frattura nel confine tra arte e vita. La pittura cubista sovvertì le idee borghesi di cultura “alta” e allo stesso tempo instillò significati nuovi e nuove emozioni nella pittura. Da Schwitters e Duchamp alla Pop Art e agli artisti contemporanei, il collage ha mantenuto e sperimento l’interrogativo sui reali confini nell’arte, e anche per questo lo si deve considerare come un principio fondamentale dell'arte moderna. Anche Matisse diede un grande contributo al collage modernista, tra la fine degli anni '40 e l'inizio dei '50, con il ritaglio e gli stencil (Jazz, solo per citare un'opera) che dominarono l'ultima fase della sua carriera. Costretto a letto dalla malattia per lunghi periodi, Matisse ritagliava pezzi di carta colorata in modo da creare forme piene di colore puro; applicava questi elementi ad una superficie, prima solo temporaneamente, poi in maniera definitiva, per una composizione libera e flessibile dell'immagine.

Per capire le origini dell'arte di Christian Bonnefoi, si deve risalire alla fine degli anni '60 e ai '70, quando il dibattito teorico riguardo la pittura stava raggiungendo la sua massima intensità, in Francia più che altrove. La rivendicazione della pittura astratta come definizione di arte “alta” era in crisi. La pittura usciva dall'esame di teorici e artisti, che esprimevano un eterogeneo ventaglio di sistemi analitici e ideologici, più che decostruita – era polverizzata, vicina al punto di non ritorno. In quel periodo, l'influente gruppo francese dei Supports/Surfaces cercava di indirizzare la pittura verso un approccio altamente materialistico. Ma verso la metà degli anni '70, alcuni artisti francesi cominciarono ad allontanarsi da questa posizione estremamente riduttiva e cominciarono a riscoprire elementi, disprezzati formalmente ma senza dubbio utili, quali colore, pennellata, l’illusione pittorica, relazioni compositive, personalità artistiche e riferimenti storico-artistici.

Negli anni '70, Bonnefoi, già teorico competente, filosofo, saggista ed editor, stava scrivendo molto sia di arte in generale che di pittura. In tre esposizioni nel 1978 con il gruppo JA NA PA, espose lavori fortemente contestualizzati, in ambienti “alternativi”. Catherine Millet scrisse “...i riferimenti del gruppo hanno... a che fare con Malevich, la pittura minimalista americana (Ryman) e Martin Barré – in altre parole, con una definizione altamente intellettuale di spazio pittorico.” (Personalmente ho il ricordo vivido, durante quel periodo, di veementi discussioni fino a tarda notte a Roma tra Christian Bonnefoi, l'influente minimalista francese Martin Barré, e il loro amico, il pittore Alain Degange su cosa si potesse e cosa non si potesse assolutamente fare in pittura). Ma la teoria non ha mai risolto il problema di come creare un approccio originale alla pittura; potremmo dire che più la teoria riesce a sancire i limiti e le regole del gioco, più sprona gli artisti – sempre alla ricerca del nuovo – ad eludere le sue prescrizioni.

Per molti anni Bonnefoi dipinse, disegnò, tagliò e incollò immagini su un sottile strato di mussola rigida (tarlatana), che permetteva all'osservatore di vedere contemporaneamente sia il dipinto che il telaio, e di avere così una visione d'insieme di tutte le parti che componevano il dipinto. Bonnefoi ci ricorda che un dipinto occupa uno spazio sia fisico che mentale, a cominciare dal muro fino agli occhi dello spettatore. Nella tradizione delle belle arti francesi, che derivano direttamente dal Rinascimento Fiorentino, colore e disegno sono concettualmente separati; Bonnefoi scarabocchia spesso elementi in bianco e nero sul retro di aree colorate, che sono abbastanza trasparenti da ricevere a posteriori dal disegno una nuova “struttura”. I quattro Nu de dos di Matisse (1908-1930) che, rendendo omaggio a Cezanne, Rodin e Michelangelo, rivoluzionarono l'orientamento frontale convenzionale delle figure scolpite, ebbero una forte influenza su Bonnefoi portando l'artista ad asserire che gli sarebbe piaciuto vedere i “Dos di Matisse da dietro.” Il lavoro di Bonnefoi ci ricorda che un quadro ha ossa, muscoli e pelle. Una figura trasparente è qualcosa in cui fronte e retro sono difficilmente distinguibili – come in un’immagine a raggi x. Il continuo lavoro di Bonnefoi sugli effetti di trasparenza lo porta a concepire riflessioni sempre più acute sui  Dos di Matisse.

Nell'arte di Bonnefoi, le parti che costituiscono il quadro – superficie, cornice, figura, gestualità, colore, disegno, ecc. - non “rappresentano” nient'altro che loro stesse, ma sono vibranti e pienamente districate, definite e ricombinate. Gli elementi sono volutamente anti-espressionisti, addirittura impersonali, mentre il lavoro nel suo insieme ha il fascino di un'ipotesi fluttuante. Come il suo maestro Matisse, Bonnefoi è attratto da enigmi, ambiguità, contraddizioni, ed impasse. La superficie stessa del quadro racchiude in se stessa il proprio venire in essere. Bonnefoi afferma “un mio vecchio sogno è quello di restituire all'astrazione la ricchezza narrativa che dovette abbandonare, nell'infanzia, per poter marcare il proprio territorio”. Nonostante abbia mantenuto la fede nel rigore analitico degli inizi, Bonnefoi sta perseguendo con successo la propria ambizione di far rivivere la tradizione storico-pittorica; i risultati sono davanti ai nostri occhi, in questi lavori espressivi maturi, liberi e raggianti.
                                                                                                                       Pia Candinas

martedì 8 marzo 2011

Franco Rella “Interstizi. Tra arte e filosofia“ Garzanti

L’ultimo libro di Franco Rella ,“Interstizi. Tra arte e filosofia”, Garzanti 2011, traccia un percorso che ha come obiettivo di interrogare le opere d’arte intorno all’inespresso e all’inesprimibile, dove tale indagine sia condotta con mezzi filosofici diversi da quelli tradizionali. Se Platone ha infatti inaugurato la filosofia escludendo ciò che impedisce la conoscenza, cioè la finitudine stessa - il fatto che il soggetto è pensiero e corpo -  Rella vuole invece evidenziare che solo dall’incontro tra filosofia e poesia può nascere una modalità di indagine su ciò che non ha espressione. Adorno ha mostrato l’insufficienza del pensiero universalizzante proprio nell’estetico, sede del particolare.  Pertanto sarà solo una filosofia che si faccia carico di tale problema, una teoria estetica, la più adeguata ad accostarsi all’arte.  E’ così anche per  Rella: l’incontro tra filosofia e arte deve potersi attuare nelle zone d’ombra, ove non è una logica dialettica che potrà far parlare l’opera d’arte.

Si tratta qui della capacità della filosofia, in quanto estetica, di accogliere e svolgere il senso non-discorsivo presente nelle creazioni artistiche, la cui verità è irriducibile sia alla composizione meramente formale sia al messaggio scorto nell’opera.  Franco Rella appronta una piccola enciclopedia dell’indeterminato che l’arte e la scrittura sono in grado di indicare e individua nella narrazione ciò che rende “comunicabile qualcosa che è inafferrabile al concetto, che non è tematizzabile in una argomentazione”. La perlustrazione viene condotta su quelle testimonianze che sono fomentate dalla morte, dal male, dalla bestialità, dai campi di sterminio (attraverso Celan, Beckett, Kafka, Flaubert, Conrad, Baudelaire) poiché anche quello che sembra indicibile e muto come la sofferenza più atroce trova nell’opera d’arte la possibilità di una testimonianza che resiste alla ragione affermativa. E ricchissima è la messe di voci testimoniali da Rella  raccolta e offerta lettore, la quale disegna quasi una cartografia di cellule germinative dell’inesprimibile.

Rella prosegue la sua analisi affermando che se è vero che esiste un dissidio tra filosofia e poesia in quanto quest’ultima non è vincolata alla verità, oggi una filosofia che si identifichi con la scienza “è impensabile, a meno di non ridurre la filosofia in un’angusta analisi logico-linguistica”. Poesia e filosofia potranno allora incontrarsi nello spazio estetico, affinché la verità poetica e artistica “possa confrontarsi con altri linguaggi, con altre verità, con altri racconti. La posta in gioco non è, infatti, un predominio accademico di un linguaggio su altri linguaggi”: in entrambe lavorando quell’atto creativo che si spinge costantemente oltre i limiti del senso. Luogo d’incontro in cui “si procede su sentieri diversi, su sentieri che si biforcano e che si intrecciano”.  E’, dunque, un piano di riflessione che non procede per giudizi o concetti determinati. D’altronde, anche laddove l’opera s’intesse di linguaggio, perdura l’enigmaticità, poiché non è il significato linguistico a risuonare come senso dell’opera e in questo senso è pregevole la condensazione che Rella ottiene dell’inespresso, attraverso l’azione di ricucitura e di sovrapposizione da lui operata.

Anche se, a mio avviso, bisogna sostanziare tale incontro con l’analisi della specificità dei mezzi artistici, altrimenti si corre il rischio di un’omologazione. Non basta affermare come fa Rella, a conclusione del libro, che “ La filosofia non è poesia, e la poesia non è filosofia”. Per una indagine approfondita bisognerà fare i conti con l’irriducibilità l’una all’altra delle varie forme artistiche (si pensi all’immagine o alla musica, entrambe irriducibili alla parola) o altrimenti si correrà il rischio di trovarsi, come accade nell’indagine condotta da Rella sul rapporto Nietzsche-De Chirico, dinanzi a risultati livellanti, nel riferimento ai quadri dedicati alla figura mitica di Arianna.: “Si tratta, a mio giudizio, di traduzioni da Nietzsche e di quanto, attraverso Nietzsche, De Chirico aveva per conto suo raggiunto”. C’è invece bisogno di cogliere qual è la differenza che le due forme, filosofia e arte, determinano nelle modalità espressive, altrimenti, De Chirico diventa solo una ripetizione di quanto  già espresso da Nietzsche. Quasi un tentativo di liquidazione dell’arte, anziché di connessione tra interstizi filosofici e artistici.  Lo stesso Adorno ha, d’altronde, insistito sul fatto che l’arte  è il luogo che rivela l’insufficienza di tutte le categorie di analisi e di critica che arrestano la dinamicità delle sue componenti. Tali dissidi (si pensi solo a quella forma/contenuto) sono parte integrale dell’opera d’arte e vanno mantenuti.

domenica 6 marzo 2011

"Notturno Sogno" di Marco Furia


Spolpata sintassi, ma non disossata, quella di Marco Furia in “Notturno Sogno”,  poesia inedita del 2011, in cui non è ipotesi quanto della coscienza desta il sogno condivida. Per quanto siano frammentati, gli aspetti schivi e incerti, vaghi e vividi vengono tratteggiati tutti come materiali equivalenti, dell’uno come dell’altro stato, poiché, nelle parole del poeta,  si tratta sempre, al fine, di rappresentazione. Sfilano dinanzi ai nostri occhi immagini del sogno e della veglia, pur se delineate in astratto, richiamate solo da aggettivi oseremmo dire simbolici, perché la soglia che li divide è inesistente: non sono che materiali della mente. Non è che una trascolorazione, un medesimo riflesso, un comune deposito della memoria, divengono tutte “sfingei stili” a cui persino il corpo si assoggetta. Questa sonorissima e stringata impalcatura, priva di verbo, è un tour de force degno di un lussureggiante sogno.

   
Notturno sogno
immagine fugace
enigmatica, desti
frammentati
effimeri tratteggi
sobri, illesi
ambigui, schivi aspetti
incerto, vago
pur vivido riflesso
repentina
sì dinamica sagoma
poi buia
nulla, onirica foggia
silenziosa
a memoria sottratta
sciolta frase
labile impronta, già
cenni, colori
non inerti figure
assurde, pigre
ma alacri, dissolte
trame appena
apparse, subitanei
fluidi echi
iconici rimandi
sfingei stili
fisionomie, discorde
integro zelo
di dormiente pupilla,
non ignava.

                                                                                

MARCO FURIA (1952), poeta.
Tra i suoi libri: Effemeride (1984), Efelidi (1989), Bouquet (1992),
Forma di vita (1998), Menzioni (2002), Impressi stili (2005), Pentagrammi, con
sette grafiche-collages di Bruno Conte (2009).
Sue poesie sono apparse su svariati periodici e antologie.
Svolge intensa attività critica.
Sue poesie visive eseguite al computer sono apparse sui siti www.tellusfolio.it e www.anteremedizioni.it, altre sono state inserite in rassegne internazionali.
Per alcuni suoi versi hanno composto partiture i musicisti Francesco Bellomi e Roberto Gianotti.
Silente meraviglia, plaquette con pensiero visivo di Bruno Conte, è stata pubblicata nel 2009.
E' redattore della rivista Anterem.


mercoledì 2 marzo 2011

Pittura e poesia. Sandro Chia e Susan Stewart. Una mostra a cura di Pia Candinas

Incontrai la ragazza che reggeva il fiore e lo specchio

Incontrai la ragazza che reggeva il fiore e lo specchio
e il ragazzo che mandava il suo cerchio fino al dio.

Metti via le cose infantili, dissero, ed entrarono
nel futuro. Erano fatti di terracotta,
la loro tenerezza intatta

Inizia così la poesia Lavinium di Susan Stewart. Il suo linguaggio semplice e essenziale non è forse in perfetta sintonia con i dipinti di Chia? Questi grandi datori-di-forma, il poeta e l’artista,  hanno entrambi mantenuto “…la loro tenerezza intatta”, e non c’è da stupirsi se io posso così facilmente vagare dalla terra dell’uno a quella dell’altro e viceversa, senza bisogno di passaporto o bagaglio.

Versi, parole e singole lettere sono importanti per Chia. La sua stessa poesia, i suoi scritti e i suoi titoli ci aiutano a comprenderne la visione. Qua e là troviamo rime taglienti o suggestivi giochi di parole scarabocchiati nei suoi dipinti, i cui temi sembrano derivare dalla letteratura e dalla storia dell’arte. A sua volta, Susan Stewart scrive finissimi saggi sulle arti visive e colma le sue liriche di nomi di colori, di potenti immagini visive e citazioni dalla pittura. Nell’opera di ognuno si percepisce il ritmo di musiche e danze arcaiche, e si respira l’aria dei campi e dei boschi italiani.

Semplici solo in apparenza, le strofe anglosassoni di Susan Stewart corrispondono in modo straordinario ai rudi blocchi di chiaroscuro e alle pennellate  massicce di colore di Chia.  Entrambi sono introspettivi e insieme inseparabili dalla natura e la loro attenzione non viene distratta dalla realtà contemporanea, perché invisibili fili li collegano fino a noi attraverso l’arte classica e moderna. Se, in rari momenti, paura, dolore e indignazione si affacciano nell’opera della poetessa americana, nel mondo di Chia, al contrario, non c’è motivo di angoscia. Spirituali e riposanti, le sue figure mitemente reclinano il capo, come se davvero fossero gli abitanti dell’ Età passata di Susan Stewart, quando “le persone erano miti come agnelli…”.

Ognuno dei due si protegge da ogni tipo di ingenuità e mitezza. Sandro Chia continua a lavorare nel suo stile sfrontato e iconoclasta che aveva imposto al mondo dell’arte già trent’anni fa, con la sua virile irriverenza. I suoi figliol prodighi sono inclini agli azzardi dissacranti, che lo avvicinano ai grandi nudi e al dinamismo dello spazio volumetrico del Barocco. Un’energia vitale (quei rossi e quei verdi) piuttosto erotica, pervade il lavoro di entrambi. Susan Stewart, erudita, precisa e raffinata, è come un bambino che attinge a una vena creativa antica ma libera: infatti sperimentiamo forme sonore e visive che sembrano fluire incontrollate e inspiegabili dall’immaginazione. Il pittore e il poeta lasciano così una traccia di immagini prorompenti, naturali, veloci e spontanee, come le azioni improvvise e imprevedibili di un’arte marziale.

Per questa mostra al Frantoio di Capalbio (30 maggio 2009) Sandro Chia ha appositamente creato una nuova suite di lavori su carta. Se sulla tela, a olio e su grande scala, Chia dà alle sue apparizioni solitarie una fisicità e una consistenza costruita – un po’ come uno scultore fa con l’argilla – sulla carta le stesse figure diventano più lievi, quasi agili, gestuali e spontanee: più vicine a pensieri effimeri che a cose. In Note del giorno (2007) Chia scrive "Il disegno è il fondamento di ogni cosa. E' bello guardare il mondo delle forme che mutano, con un album e una  matita in mano.  Anche quando una forma sta evaporando al sole, è completa e visibile agli occhi di chi disegna, o dipinge. Quando una forma è meno visibile perché liberata dalla propria sostanza, per esempio la forma di un busto di donna con i seni ben delineati che vedi in una roccia o la corsa casuale delle nuvole, il pittore ne fa subito un’immagine”. I contorni frammentari di queste figure disegnate hanno bisogno della collaborazione dello spettatore, che li completa con la sua immaginazione. Il loro pathos è il nostro, acquisito per proiezione psicologica. Le foreste e i campi brulicano di energia dionisiaca, mentre i personaggi che li abitano sono distaccati e apollinei.

L’immaginazione visionaria va, per definizione, oltre  l’effettività del presente. Quando non è ispirata dalla religione, si sostanzia nell’arte e nella natura. Messe assieme, arte e natura costituiscono la visione pastorale. Certo, l’arcadia è un’invenzione artistica; per questo i robusti sognatori di Chia sono così perfettamente integrati nei loro stessi mondi creati dalla pittura. Il metafisico non è affatto remoto o al di là dei nostri sensi umani, anche se non è né raggiungibile né spiegabile con la filosofia. Quello di cui abbiamo bisogno sono poeti e pittori, e spettatori che stanno al gioco.

Pia Candinas