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lunedì 14 marzo 2011

Simon Edmondson e Marcelo Salvioli, mostra presso la galleria Spazio Nuovo a Roma

Nella mostra “Huis Clos” , che si inaugura il 4 aprile 2011 alle ore 18,30 presso la galleria “Spazio Nuovo”,  col patrocinio dell'Ambasciata Britannica e dell'Ambasciata Argentina in Italia, Paulo Perez Mouriz non si è voluto esimere dall’imbastire un confronto tra due artisti che colloquiano con la tradizione in modo potente e differenziato e che effettuano una disamina di alcune modalità di rappresentazione che non risolvono l’ambiguità, l’incertezza, ma anzi la usano come grimaldello per portare in nuce questioni che emergono proprio da alcuni aspetti visuali, inerenti la forma. Siamo lontani dal concettuale, ma di fronte a una pittura che usa la figura come forma del pensiero. Non pochi sono  i punti di contatto che si possono individuare tra i due artisti, e che emergono dopo essersi lasciati assorbire dalle immagini, dopo cioè che li abbiamo afferrati nella loro singolarità, seguiti nelle evoluzioni della loro materia pittorica, affiorante tramite una  temporalità diluita che rende alfine instabili i profili delle cose, la loro stessa sostanza. Il tessersi di tale straordinario dialogo tra le opere esposte, le quali condividono, inoltre, la tematica degli interni/interiorità, viene ribadita da stili che riescono a modulare e a veicolare un senso riverberato in infinite sottigliezze e modulato in mille guise.
     
 Simon Edmondson



Uno scalone, che dà il titolo a quest’opera, s’eleva da un pavimento di terra battuta, non finito o distrutto, e porta in un antro buio, in una gola fonda;  un salone come segno di vetusta beltà, di franta interezza, incastonato in una mole architettonica di cui si è conservata la struttura se non gli ornamenti. Sullo scalone è rimasto pressoché integro un tappeto rosso, insegna dei passati fasti,  che la luce proveniente da un finestrone laterale fa risorgere in tutta la sua lussuosa vivacità. E’ un interno inseparabile dal concetto di esterno, allo stesso modo in cui risultano inseparabili maestosità e caducità, presente e passato.

Se tempesta intervenisse in chiuso ambiente apportando scompiglio, rompendo e spostando mobilia e suppellettili, ci si ritroverebbe con una cornice che sfida la gravità, con una colonna franta, un camino che avesse raggiunto l’agognata finestra e un cavaliere su cavallo in bronzo che, aureolato dalla luce, marciasse verso la credenza. Favole o paradossali gesta possono compiersi quando l’interno si mescida con l’esterno. L’utilizzo estremamente diluito dell’olio su carta accentua l’instabile presenza degli oggetti presenti nei nostri ambienti quotidiani, rendendoli soggetti all’instabilità delle nostre percezioni.  

Nell’olio su tela intitolato “Sanctum”, è la luce che determina nell’ambiente ciò che si muove, ciò che sta dentro di noi o appartiene al mondo fisico, causando, inoltre, una sensazione di estraneità rispetto a ciò che normalmente  accompagna i nostri gesti giornalieri, la tazza da the, le righe del parato fra cui ci perdiamo, lo specchio in cui ci riflettiamo e dove l’io resta paralizzato dall’immagine mossa del quadro come sulla superficie ondulata della bollente tazza di the.

Quel che accade in “Sala Azul”  è ciò che accadrebbe lasciando scorrere il tempo in un interno. Se il tempo ha un effetto sulla corruzione della materia  lo ha anche nei confronti di ciò che è spirituale. Lo sguardo scorre sui cambiamenti esistenziali: come separare l’interno, infatti, dall’interiorità? D’altronde non v’è modo di percepire nemmeno la cesura tra pareti e vetrate: un soave cilestre, mediazione fra il grigio verde del lampadario preda delle vegetazione e del bianco del soffitto, ci avvolge come consolazione del vissuto che non perdiamo finché memoria ci sostiene.   

Sapiente movimento in “Grey Cocoon”   avvinghia i corpi e li confonde nella greve ombra della camera. Corpi il cui moto ha la pesantezza temporale di un calco di gesso che ancora renda vivida sotto i nostri occhi la scena.   Per gli amanti coincide con l’intimità dei corpi il vero risiedere all’interno di qualcosa.

L’interno deve necessariamente condividere con lo spazio fisico e mentale la propria essenza: in “Chaplin” veniamo accolti in una sala cinematografica in cui non penetra luce se non quella artificiale della proiezione.  Biancastra luce dello schermo che ci proietta all’esterno, eppure, verso il non-esistente. Non può chiudersi il cerchio, quando interno e esterno, realtà e artificio, interiorità ed esteriorità sono così inestricabilmente connessi.  

Marcelo Salvioli



Viene prepotentemente alla memoria il fregio del Partenone, guardando il disegno “L’ultimo accademico”: è sufficiente la dea seduta col corpo mancante di testa e di braccia, ma ancora pudicamente coperta da un panneggio geometrizzato ottenuto da un ossessivo reiterare di matita nera. Esistono dunque panneggi – ciò che c’è di più fluido e mosso dopo lo scorrere dell’acqua - che resistono al trattamento geometrico o che restano tali anche quando la mente voglia apporvi un ordine. E che il riconoscimento di una diposizione piramidale dei segni confermi la prima impressione di trovarsi di fronte a un timpano non viene contraddetta dalla seconda scoperta: quella poltrona accampata al centro della scena che accoglie una figura anch’essa avvolta da panneggio. Il gruppo ha come fondale una lavagna; certo potrebbe essere anche tracciato su di essa e non ce ne stupiremmo poiché gessetti e  mano e asta per indicare sono in primo piano a confondere le idee o a dire che appunto tutto è tracciato/tracciabile su lavagna. In questo senso le cifre e le lettere presenti nella zona omogeneamente grigia ci parrebbero indicare una volontà di unificazione che non viene raggiunta attraverso formulazione matematica, trattandosi di una totalità non raggiungibile, appunto, che attraverso l’arte.    

Poltrona non è forse sufficiente a individuare un gran personaggio? Con le sue volute, le sue eleganti curvature e l’affascinante disegno a righe della stoffa, che dona all’intero disegno “Grande Personaggio” un moto tellurico, la poltrona basta da sola a tratteggiare la figura, a donarle personalità, presenza carismatica. Corpo, in fondo, non fa che prendere a prestito le sue curve, si tappezza con la sua stoffa, braccia prendono la posizione suggerita dai braccioli e gambe risultano superflue. Sarà tutta la figura a muoversi, persona saldata a poltrona, a vibrare di presenza: incontrovertibile, seppure soltanto immaginata. 

Corpo non sarà mai più separabile da poltrona. Esiste una canonica forma d’arte, un modo di effettuare un ritratto, di restituire una persona che non può fare a meno della poltrona, quasi come se essa  ne costituisse l’ossatura, la strutturasse. Nulla di più mentale della personalità e nulla di meno prosaico di una seduta sebbene di manifattura pregiata: ecco le  due inestricabili complementarità, la non separabile dualità che ritroviamo anche in “Personaggio I”.   

Non esiterà, petrolio, a posarsi come seconda pelle sul marmo simbolo dell’età greca, nel disegno “Museo Incatramato”. La Nike sembrerà però farsene beffa e come un vento che ancora scorra sulla nostra pelle, risplenderà per la luce proveniente dalla finestra dell’angusta stanza in cui appare rinchiusa. Le grandi pennellate di pigmento grigio tracciano clausura e libertà con un movimento scattante,  simbolicamente contrario alla staticità del contenitore museale. Siamo in presenza di una serie di coppie oppositive che vengono tenute magistralmente in bilico consentendo loro di mostrare le mille, mobili, slittanti intersezioni di senso  e di forma, che, invece, una livellante omologazione impedirebbe.
                                                                                                                          Rosa Pierno

http://www.spazionuovo.net/

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