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domenica 26 maggio 2024

Gilberto Isella “Terre sotto vuoto”, Marietti1820, Bologna, 2024


Per un poeta la parola dovrebbe essere sempre anche ritmo, a tal punto che persino un scoiattolo avvolto da un bagliore prima di scomparire all’interno di un tronco, con la coda “conversa”, ossia batte il tempo nella luce. Quasi che ritmo e luce siano strettamente connessi, come il suono e il senso nel linguaggio. È nella luce e col ritmo che le cose e i segni divengono altro, si trasformano in oggetti prossimi, <<l’orma notturna / si fa foglia / e la foglia è di felce / figlia felice>>. Cosicché il lettore, mentre segue l’immagine costruita da Gilberto Isella nella sua ultima silloge Terre sotto vuoto, Marietti1820, 2024, si accorge di colpo che assieme alle cose si trasformano anche le parole: foglia / figlia e felce/ felice. C’è una vocale che si sostituisce all’altra o che si aggiunge e il senso si metamorfizza. Colui che compita mentalmente le parole del poeta non dovrà scegliere, dovrà conservare immagini e parole, trattenendone la sola figura della metamorfosi. Intanto si sarà decifrato che la luce scompiglia il linguaggio, poiché  vi è diretta connessione tra le due. Come se il visibile stesso sia restituito dall’uno e dall’altro, ineludibilmente. Ma il linguaggio non parrebbe di questo mondo; attiene più a una sovrana intelligenza, giacché la natura stessa, liberandosi dall’interpretazione umana che la assoggetta, si colloca ‘naturalmente’ sulla pagina bianca, vuota, del libro assoluto, richiamo mallarmeano. Se mai microcosmo e macrocosmo, anch’essi recuperati dallo stesso Mallarmé, si equivalgono come in una sineddoche, allora lo zig-zag di un calabrone deve corrispondere a un moto celeste. E dunque cadono anche i confini tra le materie: <<spazio libero da forre / violoncello dai liquidi confini / quattro corde / serpeggianti con il fiume>>. La porzione materiale sta al tutto immateriale: <<palinsesti divini?>>. Sembrerebbe che il tentativo di ottenere una risposta, vale quello di tentare una domanda, aprirsi alla domanda, accogliere la possibilità di un impossibile che è tale solo pregiudizialmente. Che cosa sarebbe l’infinito se non contenesse tutto? Eppure, la mente ridicolmente innalza le sue cesure, le sue dighe, i suoi dogmi. La canna pensante, l’uomo pascaliano trova nella sua mente barlumi bastevoli a fargli intuire che il trapasso tra le materie e il nulla è continuo. La luce e il pensiero sono prossimi, ma anche il sembiante di dio e dell’uomo lo sono. Il volto di Cristo consente un ennesimo passaggio tra il visibile e l’invisibile che Gilberto Isella indaga con disposizione opposta a quella di San Tommaso. Ancora un passaggio aperto: <<Transiterà con noi / l’antica sinopia astrale / che tiene in serbo / il suo santo / scabro / volto>>. Ecco dunque che sacro e profano si stringono in un’entità indivisibile, tanto che Isella conia il vocabolo ‘sacroprofano’. Esiste forse un ‘punto cieco’ in tale passaggio, che impedisce all’essere umano di avere una visione totale ed esaustiva dall’unica finestra della sua mente. Come un chiasmo si produce, nella poesia dedicata a Giacomo Leopardi, la coincidenza dello spazio celeste e della stanza quotidiana, ma appunto solo perché si parte da un’iniziale distorsione d’immagine, mentre le due dimensioni sono compresenti, già unite in origine. È una geografia pensante, quella di Isella, che si autoproduce, e nella quale canne/spade e acquitrini/luce coesistono.

La sua poesia non disdegna certo i simboli: <<pinna di sàrago la affida / a seme umano celebrante>>. Tali segni di riconoscimento tramano le sue poesie riuscendo a costruire una labilissima, tenue, eppure resistentissima trama tra il qui e l’oltre. Se terra e parola sono una sola cosa, altrettanto concreto rispetto alla realtà appare il prodotto dell’immaginazione. È un vaso che Pandora/Poesia apre sorvolando l’intero emisfero. La poesia è questo lancio/dono, questa apertura dell’otre dei venti: nulla resta fuori. L’insieme è formato dal materiale e dal mentale senza soluzione di continuità. Dalle sirene a Leonardo, da Euclide a all’impresa degli Argonauti, è tutto un libro! 

Se si trancia il rapporto inestricabile dell’intellegibile con l’invisibile, se non si accetta la relazione con il ‘dio fabbricatore, allora, nello studiolo, lo studioso <<avrà smesso di sudare nell’arsura / come il sasso è incapace di morire>>. Aiuta osservare l’esistente alfine di non perdere il legame, in siffatta maniera quanta bellezza si potrà pertanto scorgere << nell’onda geroglifica / intorno al volo di un gipeto / guidato dal sole, dal vento / che d’incanto sparisce nella baia!>>. Attentissimo alla sonorità delle parole, e come sospinto dalla brezza marina, Isella scrive: <<criniere in vortici, vortici / in visiere, falde sbeccate / di lontanissime sponde / dietro il cielo>>. E certamente sarà ancora la splendida sua vena poetica, che oramai sfreccia come una rondine, a fargli sentire il limite della mente come qualcosa di aggirabile con una sorta di ebbrezza: <<L’interdetto non dice né detta / eppure ancora scrive e piroetta / tra i cartocci del soffrire>>. E pur anche la filosofia è sottoposta allo sguardo immaginativo della poesia, passa cioè attraverso la potenza immaginifica di una parola liberata dalle catene del quotidiano. 

Resta il nulla tra ‘culle e tombe’, ma è un nulla sonorissimo: <<là dove il nulla rintocca / il flauto consuma la bocca >> a rimarcare il legame tra il qui e l’oltre. Anche se certamente permane un abisso tra la bellezza materiale e il nulla: <<come mantenere la bellezza / dallo svanire? / come mantenere la bellezza dello sparire?>>. La risposta è nella percezione: è essa che ci fa accedere a ciò che sta oltre le cose, pertanto, <<s’impunti un istante \ sull’ancia dell’oboe / prima che bocca la risucchi / nell’effimero evento / del gioire>>. Eppure, è qui, su questa terra, la guerra e Isella non si sottrae alla responsabilità di rendersene testimone, poiché scopo del poeta non può che essere quello di sottrarre al vuoto, all’insignificanza, la terra, con la correlata dimensione celeste.


Rosa Pierno